In un sensato saggio pubblicato nel 1971 nella raccolta Verso un’ecologia della mente, l’impareggiabile antropologo e linguista Gregory Bateson – artefice della teoria del “doppio legame” – sostiene che da sobrio l’alcolizzato è «più sensato delle persone che lo circondano». Scavando tra le pagine di scrittori e filosofi – da Socrate a Leopardi, da Tolstòj a Montaigne – un alcolista sobrio va alla caccia di senso e logica, ricordandosi delle proprie compulsive passioni e delle emozioni che accomunano i seguaci di John Barlecorn e quanti riescono, invece, a non alzare il gomito. Se il primo passo è aver consapevolezza di quanto si sta bevendo, in queste pagine si incontra il cammino di chi beve e di quanti lo circondano. LEGGI DI PIÙ
La biografia di Primo Levi scritta da una persona che ha amato lo scrittore amando chi l’ha amato e gliel’ha fatto amare: perciò è «appassionata». In dodici condensati capitoli Questo è un uomo testimonia il valore del pensiero e della narrativa del prigioniero 174517 nel Lager di Auschwitz, insieme al debito personale dell’autore nei confronti di un maestro. LEGGI DI PIÙ
Il primo libro pubblicato dalla casa editrice TESSERE è Appropriazione indebita, una raccolta di trenta interviste realizzate per l’Unità da Daniele Pugliese fra il 1982 e il 1992 a filosofi, scienziati, intellettuali che hanno lasciato un grande contributo alla cultura e dalle cui parole ancor oggi è possibile trarre importanti suggerimenti per aprire i propri orizzonti e spalancare la propria mente. LEGGI DI PIÙ
Apocalisse,
il giorno dopo.
La fine del mondo fra deliri e lucidità
Pubblicato nella «collana coordinate» della casa editrice Baskerville di Bologna. Il libro, dalle ore 24 del 21.12.2012 e fino all’uscita del volume di carta è disponibile e scaricabile gratuitamente in formato ebook dal sito della casa editrice.LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana I venticinque» della casa editrice italo-francese Portaparole di Roma ed è acquistabile in libreria oppure online. LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana blu» della casa editrice Baskerville di Bologna, che annovera in catalogo autori quali Pier Vittorio Tondelli, Fernando Pessoa, Georges Perec ed è acquistabile in libreria oppure online.LEGGI DI PIÙ
Su “Succedeoggi” prima e su TESSERE poi, il mio racconto inedito, Il Periodo, scritto fra il 1993 e il 1994, e inserito nella raccolta ancora in attesa di pubblicazione, Fatti di cronaca. Nel sito cugino di «informazione della cultura quotidiana», è stato illustrato con il dipinto Madre e figlia, di Pablo Picasso del 1902. Eccolo:
Il Periodo
«Lui appuntava con la sua M quelle intrusioni violente nel gioioso andamento del loro amore. Sfogliava le pagine contando, senza badare al nome dei giorni, alla data che compariva in alto, al santo consacrato»
La notizia del ritrovamento in un cassonetto a Roma, nel quartiere Parioli, di due gambe di donna presumibilmente tagliati a colpi d’ascia, mi induce a pubblicare un racconto, compreso in una raccolta non ancora pubblicata, che ho scritto nell’ottobre del 1997, prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Reggio Emilia alla fine degli anni Novanta a cui “Mattina”, il quotidiano locale distribuito insieme a “l’Unità” di cui ero vicedirettore, dette ampio spazio. Si intitola La gamba.
I genitori del piccolo continuavano a muoversi – solo apparentemente felici, scambiandosi sorrisetti, gesti di cortesia, segni d’intimità, messaggi di appartenenza, senso di superiorità – quando il concerto della violoncellista nell’affollato e ristretto elitario spazio aperto a tutti non era ancora cominciato.
Ma anche dopo che un garbato annuncio al microfono aveva chiesto a tutti di spegnere i cellulari e far silenzio, ché altrimenti, nell’improprio ambiente all’uopo concesso, si sarebbe persa la bella, ma pur flebile voce della musicista – un dono di natura nell’ugola, evidentemente coltivato con lo studio della musica e di come il respiro debba accompagnare quella straordinaria predisposizione – accompagnata dalle note del prezioso strumento ad archi, trattenuto fra gambe e braccia e sollecitato dall’archetto o più spesso solo pizzicato.
Eccolo qui, il 2017, quello che mi consegnerà 60 anni di vita.
Eccolo, incerto, uno scenario mondiale da far paura, ne avessi ancora.
Eccolo, raggiunto con amici, amanti, parenti, coltivati e sempre cresciuti come allo stato brado, forse il meglio che ho racimolato.
Eccolo, pieno di acciacchi e la forza di un toro deciso a non farsi abbattere e la serenità di potersene andare, avendo saldato tutti i conti e messo in salvo quel che deve restare.
Eccolo, con la persona essenziale che me lo augura regalandomi una poesia, in attesa delle sue.
Eccolo, sudato in quello precedente, come in tutti quelli prima.
Eccolo, interrogativo, per questo aperto, possibile, addirittura fiducioso.
Eccolo, fatto di rughe e cicatrici, senza rancori, invidie e gelosie, tante certezze, molti dubbi. E il catalogo degli errori.
Ho trascorso il pranzo di Natale ospite di un’anziana coppia di amici, lui si chiama Adamo e lei Eva, ma si tratta naturalmente di un caso di omonimia, non solo perché il pranzo si è svolto oggi e non più di 5.000 anni fa come narra la leggenda del Paradiso terrestre, ma anche perché festeggiando essi la nascita di Gesù, sono chiaramente postumi rispetto alle informazioni contenute nei Vangeli.
Adamo ed Eva hanno due figli, un maschio ed una femmina, più giovani di me, ma non poi così tanto: Abramo e Rebecca, i quali si sono sposati – o meglio, lui si è sposato, lei convive – con Fatima e Antonio, ed hanno avuto rispettivamente come figli Manfred e Manuel lui, Sasha, Giuseppe ed Elisabetta lei.
Venerdì le ceneri di Gioia Ciotti Jorio verranno riposte nel cimitero di Scandicci dove riposa una delle due persone “essenziali” nella mia vita: Giorgio Jorio. Avevo scritto un testo inviato prima a “Repubblica” e poi fatto avere ad altri quotidiani per ricordarla, perché lei e Giorgio hanno contato molto per molti e per molto a Firenze. Ma i giornali hanno cose più importanti da pubblicare, la memoria pare non interessarli, le relazioni umane ancora meno, la cultura appena appena.
Questo il testo della relazione Attualità dell’idea di Apocalisse che ho presentato ieri all’incontro su “Apocalissi ieri e oggi” nell’ambito del ciclo Incontri alla fine del mondo organizzato dal Museo Pecci di Prato ed al quale hanno partecipato il professor Marco Ciardi dell’Università di Bologna, che ha parlato di Apocalissi e ricerche d’altri mondi. Atlantide e non solo, e il professor Andrea Mecacci, dell’Università di Bologna, con un intervento su Estetiche dell’apocalisse:
Gioia non c’è più. Ieri se n’è andata. Aveva 93 anni e lei per prima sapeva che stava per succedere.
Forse è per questo che nelle settimane scorse aveva insistito perché andassi a trovarla, dicendomi che doveva parlarmi. L’hanno portata in pronto soccorso proprio il giorno che stavo per arrivare. Non sono riuscito – come invece con Giorgio, suo marito – ad esserle accanto poco prima che la morte me la strappasse.
Non provo senso di colpa per il mio “ritardo”, ma solo dispiacere, anzi, dolore. Che riesco e so trattenere. Ma c’è. Dolore e dispiacere.
Il primo non ha spiegazioni, o se le ha è inutile descriverle. Ma il secondo, invece, merita un attimo di attenzione. Che sarà forse molto più di un attimo. Tutto quello che occorre.
Un attimo di attenzione per immaginare cosa avrebbe voluto dirmi, per interrogarmi su quali sarebbero state le parole che “doveva” dirmi. Non lo saprò mai.
Qualche giorno fa, il 19 settembre, era il trentunesimo anniversario della morte di Italo Calvino e Maddalena Dalla Torre – che premurosamente e con costanza mi inonda di suggestioni e stimoli all’ascolto, alla lettura e alla visione – mi ha mandato il link a un’intervista pubblicata su Rai News l’anno prima, in occasione del trentennale.
In aggiunta alle interviste impossibili che ho suggerito al termine della mia lezione ai ragazzi della scuola Manzoni di Inveruno devo assolutamente aggiungere questa di cui non ero a conoscenza e me ne ha messo a parte Maddalena Dalla Torre, che è stata scritta per la Rai niente popò di meno che da Italo Calvino, L’uomo di Neanderthal interpretata da Paolo Bonacelli e Vittorio Sermonti :
Terminata la parte seria della lezione ai ragazzi della scuola media di Inveruno, ho potuto introdurre l’illustrazione di un particolare tipo di intervista che, se fatta con preparazione e voglia di informare, non è affatto poco seria: l’intervista impossibile.
A questo genere giornalistico letterario – Primo Levi ne ha fatte di splendide: mi viene in mente Il gabbiano di Chivasso, In diretta dal nostro intestino:l’Escherichia coli, oltre al racconto che s’intitola proprio L’intervista, comparsi nel postumo L’ultimo Natale di guerra – mi ci sono avvicinato molto giovane leggendone una fatta da Edoardo Sanguineti, al quale poi, grazie alla comune amicizia con Aristo Ciruzzi, andando a trovarlo a Genova, tentai di chiederne una per il periodico universitario che dirigevo, Concentramentorenove, ricevendo ahimè un rifiuto motivato da ragioni di impegni già presi, ma la promessa che la mia successiva richiesta sarebbe stata comunque esaudita, una sorta di cambiale in bianco che non esitai a riscuotere, ottenendo un suo pezzo per l’Unità il cui dattiloscritto credo di conservare ancora e che un giorno forse dovrò tirare fuori dal cassetto.
Saltata dunque la lettura di una buona intervista fatta per la carta stampata, potevo presentare ai ragazzi che seguivano il corso di giornalismo alla scuola media di Inveruno una buona intervista fatta per la televisione, nella quale, a differenza di quella che si è vista fra Giletti e Berlusconi, tanto l’intervistato quanto l’intervistatore cooperano per far comprendere a chi li ascolta cos’hanno da dire, senza che il secondo si sottragga a quel che il primo ha da chiedergli, ma anche senza che ci sia arroganza, sopraffazione e maleducazione da parte di chi conduce il gioco.
Giovanni Minoli
Avevo intitolato la slide “Due persone serie”, non riferendomi solo alle indiscutibili doti che ciascuno dei due ha avuto nel proprio ambito – Enrico Berlinguer nella politica e Giovanni Minoli nel campo della televisione (è stato lui il primo, con la trasmissione Mixer, a dare maggior ritmo, quasi incalzante, alle parole e alle immagini in tv) – ma per la specifica condotta che entrambi tengono in quella intervista.
Minoli fa domande anche scomode e personali, forzando la nota ritrosia del segretario del Partito comunista italiano, ma anche quest’ultimo non recalcitra, non si schermisce ed è – per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona, ma forse per tutti coloro che lo hanno ascoltato e potuto notare le espressioni del suo volto – capace di sorrisi, affabile, a tratti come preso da un candido imbarazzo, malgrado fosse un uomo che apparentemente sembrava imperscrutabile, severo e addirittura noioso.
sono l’uomo nero il cui spettro agitava tuo padre quando avevi credo 4 anni, per cui penso tu oggi ne abbia 13, età bellissima anche se, lo so, non priva di inquietudini e tormenti, tra i quali, spero, si siano diradati quelli per “l’uomo nero”, un cattivo pronto ad intrufolarsi di notte dentro la casa nella quale si vive, divenuta da allora, o poco dopo, due case, quella di mamma e quella di papà, o, come più probabilmente dirai tu, del babbo.
Dall’amico Francis Haskell che, ahimè, non c’è più, nella mia scaletta preparata per la lezione sull’intervista ai “Giovani reporter” della scuola Alessandro Volta, avevo deciso di passare a un altro amico che anch’egli, ahimè, non c’è più, Eugenio Manca, del quale era da poco uscita, curata da Sergio Sergi e Carlo Ricchini, una raccolta delle sue principali interviste preparate per l’Unità e – dopo la morte di questa testata ripetutamente fatta risorgere senza più rispettarne il Dna originario, fino all’obbrobrio dei giorni nostri – per altri giornali, intitolata Non li abbiamo ascoltati. Peggio per noi, fra le quali avevo scelto quella fatta, nell’aprile del 2000, ad un grande regista italiano che era recentemente scomparso: Ettore Scola.
Se non ricordo male, Freud s’è occupato delle barzellette, dando loro dignità di forma espressiva degna d’essere presa in considerazione, non tanto però per il valore intrinseco che si può trovare in quelle storielle, prevalentemente trasmesse in forma orale e volte a scatenare una reazione di ilarità nell’ascoltatore; per lo più brevi, al limite della semplice battuta, che in questo caso mi par paragonabile a un aforisma e cioè ad una delle forme letterarie che io prediligo perché riesce a condensare in una sola frase o poco più quello che ad altri necessita un intero romanzo o un trattato di filosofia; non tanto dunque per la qualità della costruzione narrativa e per i messaggi con esse comunicati, quanto per il bisogno di un individuo di servirsene, per la possibilità che raccontandole ci si nasconda dietro qualcosa e dicendole s’intenda sotto sotto dir altro.
Non so se critici letterari, filosofi, linguisti, semiologi le abbiano approfonditamente studiate e noto la scarsità di informazioni enciclopediche che riguardo ad esse emerge digitando la parola su un motore di ricerca, il quale per lo più indirizza verso stupidari grossolani, giocosi o grevi, improvvisate antologie che mettono in fila tutto quanto è stato recentemente messo in circolazione per scatenare la risata o strappare un sorriso.
Ho chiesto un consulto ad un esimio luminare, specialista in patologie di un angolo buio del corpo, dove altri stimabilissimi professionisti non hanno indagato.
Anzi a me pareva che quell’estremità, nelle pur minuziose e sofisticatissime indagini d’ogni tipo recentemente fatte per far luce su che diavolo stia avvenendo nel mio corpo, fosse rimasta un po’ in ombra, o addirittura oscurata.
Mentre io avverto chiarissimo, come alla luce del sole, il suo coinvolgimento, quanto meno l’associazione a quanto d’intorno gli avviene, e volevo comprendere se fosse escluso, coinvolto o addirittura compartecipe dei fastidi che mi accompagnano da un po’ di tempo.
Agìto da qualcosa di analogo a quanto suppongo spinga lo scienziato a chiedersi il perché delle cose più impensate, a sfrucugliare nei recessi più oscuri ed inesplorati dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, compresi quelli scomodi, sconvenienti e capaci di sconcertare lo stesso ricercatore, talvolta mi servo del più diffuso dei social network, Facebook, direi quasi come un antropologo osserva una popolazione che gli è pressoché sconosciuta, di cui ignora usanze e costumi, o più precisamente in maniera provocatoria, lanciando un sasso che presumibilmente smuoverà le acque.
Proprio dell’ultimo di quei “grandi” personaggi di cui avrei voluto parlare nella lezione ai ragazzi di Inveruno (vedi Dal generale al particolare) per accennare alle interviste che ho avuto la fortuna di poter fare, come spiego nell’Introduzione di Appropriazione indebita, Francis Haskell – professore a Oxford in Inghilterra, uno dei più importanti storici dell’arte del mondo, ma soprattutto un carissimo amico fin da quando io ero un bambino, ragion per cui prima o poi dovrò scrivere specificamente qualcosa su di lui – ed in particolare dell’intervista che mi aveva concesso nell’aprile del 1992 per un numero speciale del giornale nel quale lavoravo, l’Unità, dedicato a una importante mostra su Lorenzo de’ Medici, mi sono servito per aggiungere un tassello relativo alla forma per così dire “letteraria” in cui un’intervista può essere fatta, ovvero sia, come recitava il titolo, “Con o senza domande”.
Mentre parlavo ai ragazzi e già raccoglievo le loro prime domande, rapidamente, quasi con solo colpo d’occhio prontamente colto, ho invitato la mia fedele regista in sala, Irene Misusan, a far saltare la diapositiva seguente che ci avrebbe fatto perdere troppo tempo, rischiando di non farci rientrare nell’orario stabilito.
Avendo però qui spazio la illustro. Si intitolava “Sul filo del rasoio” e mostrava, almeno fino al minuto 1:37, un video, questo:
Il capitolo successivo della lezionetenuta a Inveruno lo avevo intitolato “Essere responsabili” e nelle frasi sintetiche proiettate sullo schermo dinanzi ai ragazzi si poteva leggere:
David Randall in un disegno pubblicato da "Internazionale"
Se indiscutibilmente Socrate, come emerge dall’intervista immaginaria fatta dai ragazzi della terza A della Alessandro Volta che ho pubblicato nella Lezione di intervista 3, è un personaggio “prezioso” da intervistare, ed averlo fatto, oltre al dovuto ringraziamento contenuto nel finale, costituisce certamente un onore, non mi è difficile riprendere il discorso riportando il titolo della slide successiva impiegata nel corso dell’incontro a Inveruno: “L’intervistato prezioso”.
• Un’intervista dovrebbe appunto aiutare a sapere qualcosa di più, a conoscere meglio, ascoltando qualcuno che, su un determinato argomento, si suppone ne sappia di più di chi leggerà o ascolterà le sue risposte a delle domande.
• Chi fa le domande, dunque, deve sapere molto bene cosa chiedere alla persona che intervisterà.
Avevo poi ripreso la mia lezione sull’intervista tornando invece alla parola “dialogo”, che io reputo di un’importanza straordinaria. Anche qui ero ricorso alla voce della Treccani, ma sintetizzando a modo mio:
• I dialoghi, conversazioni svolte attribuendo ad uno dei due interlocutori un ruolo di esperto, di buon conoscitore dell’argomento di cui si tratta, in qualche maniera di maestro, insegnante, autorità, sono stati una delle prime e più importanti forme di testo filosofico.
L’assunto da cui sono partito nella lezione di intervista fatta ai ragazzi della scuola di Inveruno è che si debbano fare buone domande per avere buone risposte. E, pertanto, che per fare buone domande, si debba studiare, si debba conoscere quanto più possibile riguardo chi si intervista. Ma, di più, ci si debba preparare bene sull’argomento su cui gli si vogliono fare delle domande e la materia in generale che fa da scenario a quell’incontro.
Per prepararli bene dunque alle domande che avrebbero potuto farmi in qualunque momento del nostro incontro – in fondo ero io l’intervistato – riguardo l’argomento stabilito, ho proposto loro, precisando che avevo accuratamente scelto una “fonte attendibile” delle mie informazioni, la definizione di intervista tratta dal vocabolario on line della Treccani:
Il 25 gennaio di quest’anno ho tenuto, come danno conto il video su YouTube che si può vedere qui sopra e il post I reporter di Inveruno, una lezione ai ragazzi di terza media della Scuola Alessandro Volta del piccolo comune lombardo, i quali hanno seguito il corso organizzato da Liana Zorzi intitolato “Giovani Reporter”.
Ho tralasciato di scrivere molte cose nei mesi scorsi. Sembrava quasi avessi interrotto il dialogo con i miei lettori, privandoli della possibilità di leggere qualcosa che poteva risultar loro interessante, quanto meno di essere scorso. Me ne scuso, ma sono state ragioni di forza maggiore che non sono affatto scomparse, solo finalmente riesco a tenerle a freno. Provo in qualche caso a rimediare, affidandomi per lo più alla memoria.
Come ogni mattina Sergio entrò nel bar di fronte a dove lavorava, e C., apparentemente serena, senza alcun imbarazzo, senza alcun disturbo, senza alcun retro-pensiero, dandogli del tu, sorridendo come aveva sempre fatto, accolse la sua richiesta di caffè, offrendoglielo con la medesima professionalità, di cui chiunque le avrebbe dovuto dar atto.
Lui attese che la tazza venisse messa sul banco, poi sorseggiò lentamente la bevanda calda guardando il volto della ragazza con i medesimi occhi incantati con cui quotidianamente la osservava, occhi che un giorno aveva messo a fuoco non fossero gli stessi con cui ad ogni muover di chiome allungava l’occhio o torceva la testa.
Sergio aveva imparato a riconoscere i sentimenti, a dare ad essi il peso che per lungo tempo aveva loro negato, a riconoscerne l’ineluttabilità ma, non di meno, l’imprevedibilità, ed anche il fatto che fosse stolto perseguirli, talvolta addirittura inventarseli o sollecitarli per bisogno, convinzione o smarrimento.
Per ciò viveva quella sua stagione – non priva di affetti, emozioni, generosità e quieta capacità di chiedere all’occorrenza – senza confonderla né con un inaridimento del proprio animo, né con una desolazione per sconfigger la quale occorresse affrettarsi a far battere il cuore, a perdere la testa, a sbilanciarsi oltre il proprio consuetudinario comportamento, come del resto in passato gli era accaduto.
Lei cammina in una maniera inconfondibile. Impossibile non notarla. Volteggia, più che camminare, libra, ha un che di Mary Poppins e qualcosa di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany. È lieve, sinuosa, elastica, addirittura sembra stia lievitando, accenna degli impercettibili passi di danza, ma niente che somigli a un’andatura studiata per richiamare l’attenzione ed attrarre i maschi. Non sculetta, non ha movenze, benché sia visibilmente bella e vesta non senza attenzione a cosa i suoi abiti possano suscitare, che è quanto facciamo tutti, sapendo più o meno consapevolmente, che quello è un modo di comunicare, di trasmettere agli altri qualcosa che abbiamo da dirgli o comunque pretendiamo sappiano senz’altro aggiungere.
Con la ripubblicazione di questo articolo di Laura Lilli, uscito su “la Repubblica” del 25 gennaio 1985 che raccoglie la testimonianza della figlia di Wilhelm Reich sulla figura di suo padre, direi che prende ufficialmente il via il sito di Gilberto Briani, lo psicoterapeuta a cui devo molto del mio percorso fatto, direi della mia capacità di essere quello che sono e di vivermelo al meglio possibile. Perciò gli ho dato una mano a metterlo su e invito i miei lettori a darci di tanto un’occhiata per scoprire quello che ha da dire ed insegnare. È inoltre un punto di riferimento di gran qualità per chiunque abbia problemi con se stesso da affrontare.
In questo lembo di terra non a torto rivendicante per sé un glorioso passato di civiltà, siamo governati da un bifolco sprecone sclerotico a cui riserverei la miseria che a piene mani ha sparpagliato nell’ultimo quindicennio, confessando di saper e poter far poco malgrado l’esagerato potere e il prestigioso ruolo ingiustamente attribuitogli.
Ho avuto la preziosa opportunità di tenere una lezione, o più esattamente inaugurare un dialogo, con un nutrito gruppo di ragazzi della scuola media Alessandro Volta di Inveruno, un Comune di quasi 9.000 abitanti compreso nell’area metropolitana milanese, che avrebbe origini celtiche nel II secolo a.C.
Questo primo dicembre 2015 mi porta indietro nel tempo al 1 luglio 1978 allorché devo aver per la prima volta messo piede “per provare” a l’Unità.
O, forse, a un indefinito giorno d’inizio estate del 1972 quando, subito dopo essere stato bocciato in quarta ginnasio, fui irremovibilmente spedito da mia madre a lavorare nei mesi di vacanza a Vingone – punta estrema del comune di Scandicci, dove vivevo all’epoca –, da un carrozziere, Gaetano Falletta, il quale, a furia di farmi “cartare” con la mano ben distesa in modo da non creare avvallamenti sulla superficie delle auto che dovevano essere riverniciate, mi convinse che tutto sommato studiare era meglio che lavorare.
Anzi, mi instillò un dannato monito in fondo all’animo: quello di far entrambe le cose, affidando allo studio il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della propria mente e al lavoro quello di garantire l’autonomia e l’indipendenza della propria persona.
Due coppie di donne sui giornali di oggi: Flavia Pennetta e Roberta Vinci vincitrici agli Us open di tennis e Giovanna Milella e Giulia Cogoli che litigano al vertice del Salone del libro di Torino.
Ci sono ricorrenze che hanno tutta l’aria di essere solo escamotage per strappare, a cura dell’ufficio stampa e promozione e della benevolenza del redattore di turno, il quantitativo maggiore possibile di quell’unità di misura che nelle redazioni dei giornali prende il nome di “modulo”: rettangolini larghi una colonna e solitamente alti un paio di righe nei quali è suddivisa la pagina di un giornale nel suo formato in scala detto menabò e con cui si conteggia lo spazio acquistato da un cliente per pubblicizzare i suoi prodotti.
Tratteggiando la figura del nuovo direttore del prestigioso Corriere della Sera, Carlo Riva su Prima comunicazione, il mensile che legge chi si occupa di informazione, pubblicità, comunicazione, editoria e dintorni o non può far a meno del gossip riguardo quarto e quinto potere, scrive che il gran giro di nomine in via Solferino «ha messo in evidenza il numero non indifferente di giornalisti che hanno avuto un passato consistente all’Unità e adesso hanno ruoli di potere, a partire dal direttore, all’interno del Corriere della Sera, simbolo dei simboli di quella borghesia produttiva a cui un tempo da militanti comunisti avrebbero altrettanto simbolicamente tagliato la testa. Ironia a parte – prosegue Riva – è la dimostrazione di come ai bei tempi l’Unità seppe qualificarsi come una vera e propria scuola di politica e giornalismo e di come alcuni dei suoi allievi migliori siano riusciti a presentarsi, una volta ripuliti dal passato ideologico, tra i migliori giornalisti sulla piazza».
Ho recentemente riletto Le città invisibili di Italo Calvino. Godendone, sia nel ri-regalarmelo che nel leggerlo a una donna, come se ogni frase pronunciata, sussurrata, sibilata, recitata o declamata, corrispondesse a un bacio sul collo o a una spinta delle reni, e immaginando verso la fine che si potrebbe riscrivere un libro pressoché identico senza plagiarne l’autore, senza sottrargli la paternità originaria e i meriti che gli spettano, anzi, rendendogli omaggio, come fossimo in un castello di destini incrociati o se una notte d’inverno un viaggiatore – io, anzi lui – avessi intrapreso, anzi avesse intrapreso, anzi avessimo intrapreso, una spedizione, la stessa di Marco Polo e con lui di Kublai Kan, cicerone uno, virgilio l’altro, infine un poeta nella sua selva oscura, fra Torino dove io sono nato e Santiago de las Vegas, dove nacque lui, o a Sanremo dov’è approdato, o a Torino dove ha preso le mosse, e là lo hanno conosciuto mia madre e mio padre, e chissà come sarebbe andata se avessi accettato quel giorno di varcare il cancello d’ingresso della pineta delle Rocchette e sentir dire ciao Italo, ti presento mio figlio, quello a cui hai regalato le fiabe russe e quelle africane e le italiane e lui sognava sul principe Ivan…
Zio Lino scusami. Scusami tu e gli altri parenti che avete fatto la Resistenza, avete combattuto per abbattere un regime autoritario e dittatoriale, conquistare la democrazia e il diritto di voto, sperando che tutto questo comportasse insieme la costruzione di una società più equa dove non si venga licenziati se non per gravi motivi, ed anche in questo caso esista l’opportunità di riscattarsi e mostrar che ci si era sbagliati e di intende ricredersi.
In un delirio presenile ho accettato di tentar di emulare Jean Baptiste Le Rond d’Alembert, l’artefice dell’Enciclopedia, scrivendo alcune voci per il dizionario del sito a cui è stato affidato il compito di raccogliere le memorie del Movimento studentesco fiorentino. Avevo già dato conto in Una voce d’enciclopedia del lemma Slogan e di Volantino in Vedi alla voce volantino , ed ora riporto qui di seguito quello che ho scritto su Potere operaio e sul 7 aprile:
Potere Operaio
Potere Operaio, in sigla P.O. e talvolta indicato come Pot.Op., è stato uno dei più importanti e influenti gruppi della sinistra extraparlamentare italiana. È stato attivo fra il 1969 e il 1973. La costituzione ufficiale del gruppo avvenne al Circolo Socialista “Faliero Pucci” di Firenze nel gennaio 1970.
Come il suo stesso nome fa comprendere, fra le varie formazioni della sinistra extraparlamentare PO, pur essendo prevalentemente diffusa nelle università ed in misura più marginale nelle scuole superiori, è stata quella al centro della cui azione politica era il mondo della fabbrica e gli operai, distinguendosi dalle formazioni che alimentavano la propria matrice ideologica nel marxismo-leninismo, nel terzomondismo di ispirazione guevarista e nell’ispirazione maoista.
Trovo affascinante l’idea che dietro una assoluta futilità, qual è un profumo maschile – prodotto di cui credo non aver mai fatto uso, fatto salvo il dopobarba all’epoca in cui, molti anni orsono, mi radevo –, possa nascondersi l’intera trama di un romanzo.
Questa è l’impressione che ho avuto oggi quando il mio sguardo è caduto sull’hedione al quale le frivole pagine del sabato di Repubblica dedicano un intero articolo che ingombra ben due pagine del quotidiano.
L’hedione è un aldeide di sintesi e un aldeide, stando a quanto riferisce Wikipedia, sarebbe un composto organico di formula bruta che reca nella propria struttura il gruppo funzionale formile, indicato con –CHO».
Cosa – per non dire il suo nome e preservarne l’identità o perché nel frattempo ho scordato come si chiami – mi ha chiesto una cosa, la qual cosa sta a significare che vorrebbe io scrivessi una cosa sulla cosa, ovvero sia cosa ci induca ad usare la parola cosa per indicare ogni cosa, quando ogni cosa, invece, ha un nome suo proprio e val qualcosa di più di una semplice cosa.
La cosa mi è parsa subito interessante e a Cosa – scritto con la maiuscola per non confonderla con una cosa, la qual cosasarebbe stata davvero incresciosa – ho chiesto che cosa avesse realmente in mente chiedendomi di scrivere qualcosa sulla cosa che fosse qualcosa di più di una semplice cosa.
Sostiene Matteo. Che «l’Occidente è in crisi profonda». E i «tanto spesso citati “valori” sono in dissoluzione, devastati dall’egemonia dell’economia sulla politica». Sostiene Matteo che se «tutti gli ideali, i “valori”, le teorie, i sogni, sono stati aboliti, perché mai i giovani dovrebbero essere attratti dalla politica?». Sostiene anche che «purtroppo le persone sono eterodirette dai media, e perciò hanno individuato il loro nemico nell’Islam. Ma il nemico, spesso, come diceva Brecht, marcia alla propria testa». Aggiunge tuttavia che «questo è un altro discorso». Poi sostiene che «Baudrillard osservava che tutto è pubblicità e tutti i modi di espressione vengono assorbiti dalla pubblicità»; sostiene che la comunicazione «distrugge ogni significato e costringe il pensiero nei suoi schemi e nelle sue dicotomie virtuali»; ed ancora che «non è attraverso la repressione che il sistema di potere oggi si legittima», specificando che questo già lo aveva «capito Foucault».
Dalla bacheca Facebook dell’amica Rita Martinelli:
Questa l’ha scritta il mio amico Daniele Pugliese. Lui sostiene che la Poesia gli è “estranea”. Io, leggendo ciò che scrive, libri e articoli, sostengo il contrario. Credo che questa poesia, inedita, lo dimostri. Malgrado lui.
Come cetacei alla deriva
offuscati dal cherosene
intriso in un microbo d’onda,
con le medesime incapacità
di vivere nel rispetto,
andiamo a spiaggiare tutti
sull’increspatura del mondo.
Ai nostri simili,
specie a quelli
maggiormente amati,
procuriamo atroci dolori.
Devastati dinanzi alla possibilità
di trasformare passioni e pulsioni sotterranee
in movimenti pacifici ed eterni.
Matteo Mazzoni è il giovane storico incaricato dall’Istituto Gramsci – per conto dell’associazione Ciclostilato in proprio, di cui ho scritto variamente qui, nata per conservare le memorie del Movimento studentesco fiorentino – di redigere una delle due ricerche avviate, quella che ha per tema Politica in Movimento. Fasi, protagonisti, dinamiche di una stagione di impegno collettivo: Il Movimento Studentesco Fiorentino nelle carte dei suoi protagonisti.
Per meglio ricostruire «non solo la complessità ma anche l’integralità di una vicenda che vi ha coinvolto in quegli anni in una dimensione non puramente politica ma “esistenziale”, oltre che ad arricchire il contesto di riferimento del periodo entro cui inserire i “fatti” e le scelte del Msf», Matteo Mazzoni ha chiesto a chi partecipò a quell’esperienza fra il 1972 e il 1978, di rispondere ad alcune domande non con «riflessioni teoriche o lunghe elaborazioni, quanto narrazione di esperienze, esemplificazioni, comunicazione di sensazioni e pensieri di allora…». Ho tentato di farlo e pubblico di seguito la sua intervista, sperando sia quello che lui chiedeva e che interessi i miei lettori.
La curiosità mi ha spinto a Nikko in Giappone, dove c’è un tempio scintoista che si chiama Toshogu. È lì che a guardia del mausoleo dello Shogun Tokugawa Ieyasu si troverebbe la scultura in legno che rappresenta le tre scimmie sagge: Mizaru, Kikazaru e Iwazaru, ovvero, rispettivamente, quella che non vede, quella che non sente, e quella che non parla. In realtà, leggo, tappandosi con le mani rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca, Mizaru, Kikazaru e Iwazaru danno corpo al principio proverbiale del “non vedere il male, non sentire il male, non parlare del male”.
Giacomo Guerrini conduce su Radio Toscana una trasmissione che si chiama ”Radio Londa” e ieri l’altro, mercoledì 9 luglio 2014, volendo parlare della decisione del consiglio comunale di Firenze di intitolare a Enrico Berlinguer lo slargo che si trova dinanzi al Mandela Forum ed avendo letto evidentemente qui i post Credo fossimo così e Blasfeme associazioni, in cui appunto riferivo qualcosa riguardo il segretario del Partito comunista italiano, ha deciso di intervistarmi rapidamente. Riascoltando la conversazione, che qui propongo ai miei lettori, mi sono accorto di aver fatto confusione fra piazza Santa Maria Novella e piazza Santissima Annunziata, fra Ugo e Giorgio La Malfa, ed ovviamente del lapsus rimarcato da Giacomo sui verbi perseguire e perseguitare. Me ne scuso.
Mark Zuckerberg
Facebook, Inc.
Menlo Park
California, USA
Gentile signor Zuckerberg,
confido nel suo cognome che, tradotto nella mia lingua, significa “montagna (berg) di zucchero (zucker)”, e perciò testimonia della sua dolcezza, anzi dell’immensità della sua dolcezza, che non può non essere anche bontà o, come a qualcuno di noi verrebbe in mente di dire, misericordia.
La svolta è giunta dopo pagina 57. L’inizio è stato duro. Difficile. Inaccessibile, mi verrebbe da dire, come di una materia che non si lasci penetrare e opponga resistenza. Poi mi ha preso e non riuscivo più a staccarmi. Mi sono trovato quasi a volare su quei capitoli, a saltabeccare fra i paragrafi e per quanto mi concentrassi e non perdessi il senso di nulla di quanto stavo leggendo, era come se lo sfogliassi, rapido, veloce, svolazzante, comprendendo cosa appunto possono fare delle foglie rapite dal vento una volta perso il loro legame con il gambo.
Avevo preso importante. E lo buttai via. Possiamo tranquillamente fare a meno di importante, mi dissi. Non è poi così importante – aggiunsi ripromettendomi che sarebbe stato per l’ultima volta – se non disponiamo di questa parola. Quello che seguì, perciò, si potrebbe dire sia stato irrilevante, o ininfluente, di scarso valore o significato, marginale forse, ma certamente non avrei più potuto dire che fosse poco importante. Non mi ero reso esattamente conto che questa stessa ultima frase non avrei potuto scriverla e mi sarei dovuto fermare a “che fosse poco”. Be’, però era poco, non molto, e perciò decisi che avrei eliminato anche poco. Di lì a un istante lo feci, impiegai proprio…, quasi niente e l’uso di quest’ultima parola mi fece sovvenire che se il niente è niente, è niente anche se non c’è, anzi per l’esattezza niente è proprio se non c’è, anche se il niente che non c’è è l’esserci o il qualcosa, entrambi contrario di niente, benché queste siano faccende d’interesse solo dei filosofi. Per non perdermi in tal digressioni da perditempo, annientato il… pensai che altrettanto, e in maniera del tutto indolore, avrei potuto fare annullando il nulla, perciò in un nonnulla, non rimase…. Mi resi conto che avevo però usato parole derivate da essa, come il verbo annullare o il nonnulla e mi chiesi quanto tempo sarebbe occorso e quale azione avrei dovuto compiere per portare a termine il mio intendimento, che era quello di privarci del superfluo, dell’eccessivo, del ridondante, in specie nel vocabolario, anzi, il vocabolario stesso, essendo superflue, eccessive e ridondanti le parole in esso contenute e i discorsi che servendoci di esse facciamo, ed ebbi come un’illuminazione, che di grammatica e sintassi avremmo tranquillamente potuto fare a meno, sarebbe stato sufficiente – e proprio solo quell’ultimo verbo appena usato, “facciamo”, lo rivelava – fare. Sì fare, non dire, né parlare, neppur scrivere, tanto meno leggere, solo fare, estensione di produrre, costruire, manipolare o quanto meno, si potesse dire!, manufare, via invece tutto il resto, e allora radon, ristrettezza, cantico, ecchimosi, scolopendra, mantecato, mentecatto e andirivieni, uap, in un colpo solo, svaniti, liquefatti, polverizzati, ridotti in cenere e… no quella parola non la poteva più dire, l’aveva già cassata, o cancellata come dicono impropriamente altri che lasciano traccia della tentata sparizione, e anzi, guarda, già che ci sono faccio dileguare anche traccia, sparizione, cassare e cancellare, uap, di nuovo, e poi via uap, e nuovo, ed anche la piccola particella di, via la particella, l’atomo, il campo gravitazionale, i quanti, i tanti, l’energia e l’ergonomia, nonché la numismatica e i sacri numi. Sparì inciucio, apericena, trinariciuto, ovviamente parola, verbo, logica, gioco. Rimasi lì senza parole, non come talvolta si dice, per testimoniar di un disagio, stavolta no, proprio depauperato, diseredato, espropriato, alla fin fine senza nemmeno la a e la m o la f per potermele costruire, reinventarle, e spartirle con qualcuno. Rimasi lì solo senza più nessuno intorno e un esile grido mi uscì dalla bocca. Quel fiato appena fu molto importante e mi consentì di ricostruire il linguaggio che avevo appena distrutto.
La redazione de l’Unità di Torino nel 1947, credo. Il secondo da sinistra in basso è mio padre, il primo a destra in alto Andrea Liberatori che a sedici anni mi chiese: “Davvero vuoi fare il giornalista?”. Devo tutto a lui.
Gentile signor Mark Zuckerberg,
sia chiaro non ce l’ho con lei. Anche oggi ho letto su qualche giornale che – con tutti i quattrini che s’è ritrovato in tasca per aver avuto la geniale idea, tiepida come l’acqua calda appena scoperta, di trasferire in rete l’album Panini dei liceali americani, ovvero sia, come direbbe un sardo, il palmarés del campùs –, ha rifocillato barboni, indigenti e senza casa per ogni dove nella valle del silicio, e questo le fa onore oltre all’indubitabile estro, a una certa tenacia, alle magliette trasandate che ancora vedo portarle indosso nelle foto in circolazione.
«Mi ha detto che non si sente di aggredire questa legge, ma non mi sembra che la stia risparmiando. Non le sembra di essere troppo dura?
No, non credo. Questa legge assomiglia molto alla legge 180 di Basaglia. È stata una legge eroica, che però si è verificata una fregatura per i malati di mente, perché si sono trascurate le cose più importanti, cioè le infrastrutture con cui dare assistenza ai malati. Nel caso della legge sugli psicologi si è trascurato l’individuo. Cioè si è legalizzato il caos. E di questo, mi creda, la psicologia analitica può anche disinteressarsi».
Da Una scuola che dura cent’anni, intervista di Daniele Pugliese a Ida Zoccoli Francesini in occasione dell’approvazione della legge sulla professione degli psicologi, l’Unità, edizione di Firenze, 24 febbraio 1989
L’idea di Antonella Blanco di utilizzare il concetto teorico di Winnicot della “madre sufficientemente buona”, a proposito del dibattito sulla figura del Padre nella cultura e nella società odierna, mi sembra molto intelligente perché finalmente aggiunge un metro valutativo alle profonde considerazioni che provengono da più parti, opportunamente citate nel post A cosa serve un padre.
È ormai in corso un dibattito che pre-e-occupa settori sempre più vasti dell’opinione pubblica, testimonianza di un vuoto energetico-culturale da cui derivano profondi danni al tessuto della nostra società cosiddetta “civile”, che di civile non ha più nemmeno l’odore.
All’interno del solco tracciato dalla Blanco con la sua proposta di un padre sufficientemente buono, vorrei affiancare un altro concetto teorico che a me pare ri-definire quello precedente: “un padre sufficientemente dignitoso”, riprendendo così quel tema, che a me sembra fondamentale, della Dignità come categoria fondante di una morale che dia sostegno e struttura non solo al singolo individuo bensì a qualunque forma di società, dalla famiglia alla comunità fra gli Stati. Tema di cui mi ero già occupato in Dalla fede alla dignità, che Daniele ha qui gentilmente pubblicato.
Credo siano in corso i congressi del Pd, sigla che preferisco scrivere così com’è, senza tradurla, come farei in genere e di preferenza, nelle parole che la compongono, ovvero sia “partito” e “democratico”, un sostantivo e un aggettivo che, se si andasse a vedere sul vocabolario, avrebbero un preciso significato e anche degno di rispetto, ma di cui, in entrambi i casi, nel caso specifico non si ha traccia, nemmen un accenno.
Mi farebbe piacere – e forse sarebbe anche doveroso – spiegare a un ventenne – l’ipotetico figlio non voluto o mai nato, o, al suo posto, ogni giovane che intenerisca il mio cuore – cosa sia la politica, dirgli di che si tratta al di là di quanto è sotto ai suoi occhi.
E allora inizierei chiedendogli qual è, o qual dovrebbe essere, il fine della politica, e, supposto anche che riceva delle risposte pertinenti, mi dica il potere e il dominio sugli altri, o la difesa dei propri diritti e delle proprie libertà, o la costruzione del bene comune, dovrei sì dargli ragione, apprezzarne la lucidità, ma poi mi sentirei di aggiungere:
Padre: – È vero, figliolo, ma il fine ultimo della politica è la fine della politica. È raggiungere la sua assenza, mirare cioè a distruggerla, a farne piazza pulita nella piazza dove ebbe inizio, in quell’agorà dove ci si incontra e si è insieme, lo si voglia o meno.
È opportuno i lettori sappiano che oltre 3.000 persone hanno un contatto con il mio profilo su Facebook (come si dice in gergo “sono miei amici”) e che le impostazioni da me date a quel sociale network consentono a chiunque, amico o meno, salvo pochi divieti dettati da manifeste molestie, di leggere quello che viene pubblicato sulla mia bacheca. Pertanto, sia quello che io scrivo, sia i commenti che vengono lasciati, sono potenzialmente visibili dall’universo mondo, o, almeno, stando alle cifre ufficiali, da un miliardo di persone.
Dopo 26 anni un tradimento è quanto meno comprensibile. In tutto questo tempo di onorata carriera hanno fatto il loro dovere sempre, in qualunque condizione, senza curarsi delle botte prese, degli urti subiti, delle variabili ed anche estreme condizioni alle quali sono stati esposti, chiedendo in cambio solo di essere unti ben bene, spazzolati e cosparsi di grasso, e allacciati con cura assicurandosi che fosse stretto ciò che dev’essere stretto ed accogliente ciò che va accolto. Sì, solo all’inizio, subito, appena comprati, incurante del loro esorbitante prezzo nella certezza che quell’investimento sarebbe stato ripagato ed avrebbe resistito al tempo, mi procurarono una brutta tendinite causata dal frizionamento di quel legamento all’altezza della caviglia in un punto non ancora ammorbidito dall’usura, non ancora domato, e quella tendinite che mi costrinse per alcune settimane all’immobilità, scalpitante e roso dalla vergogna, si tramutò in una flebite, e allora ancora immobilità, altre cure, la calciparina iniettata nella pancia. Ma per il resto canaloni, ghiaioni, sentieri, fango, neve, niente che sia riuscito a fermarli, se non la stanchezza di chi li calzava.
Hector Juanito Mendez (l'ultimo a destra) con Carlo Coccioli (il primo a sinistra)
Avevo i pantaloni corti quando ho conosciuto Hector Mendez, che io chiamavo Juanito perché tutti, a quanto mi ricordo, lo chiamavano Juanito. Era una delle tante persone che si incontravano a casa dei Ciruzzi, quei cari amici, prima della mia famiglia e poi miei, che non ci sono più, l’Accademia senza poltrone di via Poggi: addio Marcello, addio Sergio, addio Enzo, addio Aristo, addio Isabella, addio Corrado.
Un bravo guidatore non è affatto necessariamente un guidatore disciplinato. Ma naturalmente non sono l’assenza di zelo e l’insubordinazione a far di un guidatore un bravo guidatore.
Firenze sta in una conca, adagiata nel fondovalle scavato da onde impetuose che giungevano da un ghiacciaio su cui un tempo ci si poteva specchiare e si trovava in una zona dove i fili d’erba sono tanto vasti e diffusi da dare a quel posto il nome di Pratomagno.
Quelle antiche onde impetuose sono state contenute, indirizzate e tenute fra le braccia da colline morbide poi scalpellinate dall’uomo che le ha anche costellate di cipressi, ulivi, muri a secco, pievi, ville, creando un paesaggio dinanzi al quale io resto ancora di stucco e pare piaccia a molti milioni di persone sparse in tutto il mondo.
Dalla finestra di casa mia vedo proprio di fronte Monte Morello, 934 metri sul livello del mare nel punto più alto, il Poggio all’Aia, detto “Terza Punta”, in cima al quale è stata issata una croce di legno, chiamato monte perché, benché non sia affatto un brutto posto, non abbiamo di meglio, né il Großglockner, né le Tofane, né il Cervino.
Questa immagine ritrae mio fratello Davide durante un’escursione a Antelope Canyon, una magia che l’acqua e il vento hanno creato in milioni di anni erodendo l’arenaria nella terra dei Navajo, oggi il nord dell’Arizona, vicino a una località che si chiama Page.
Quando l’ho vista ho provato invidia: avrei voluto essere anch’io là, esplorare passo dopo passo quelle budella, arrampicarmi, calarmi, sporgermi, curiosare. Ci sono posti che non vedremo mai, che mai riusciremo a calpestare, nei quali non potremo cogliere odori e, d’altra parte, saremmo sciocchi a pensare che solo il pellegrinaggio e le spedizioni, il muoversi e viaggiare, ci svelino mondo e arricchiscano occhi, orecchie, cuore e cervello.
Credo sia un’illusione quella di quanti non stanno mai fermi ed hanno battuto ogni sentiero, poco importa se muovendosi ventre a terra o tutto compreso, così come, per quanto ami leggere e sia convinto che è salutare farlo, credo sia un’illusione quella di trovare in delle pagine tutto quello che c’è da sapere, perché poi arriva uno a cui nessuno darebbero due lire, com’è capitato a me, e ti dice «Avrai studiato tanto, tu, ma non hai capito un cazzo della vita», e a te non resta che dargli ragione e riprometterti che se due lire le avrai, proprio a lui potresti darle.
Quanto ostinata, non arrendevole, propositiva dev’essere un’amicizia? Fin dove ci si può spingere ad essere comunque presenti? L’amica che continua a combattere con il tumore e con i fantasmi che le si agitano dentro – quelli che si pensa le abbiamo fatto impazzire alcune cellule e trasformarsi in corpi estranei a un corpo che sembra dimentico di essere anche tutto il resto (regioni inesplorate, lascivi abbandoni, vicinanze affettuose, solo e semplicemente possibilità di vedersi e di parlare con gli altri stando loro di fronte in carne ed ossa e sudore e pelurie o calvizie durante la chemio) e quelli che i corpi estranei nel corpo amico hanno materializzato rendendo evanescente le fantasie costellate di sorrisi, grida, conversazione ed altro – rifiuta i contatti col mondo, lo esclude e mi accomuna ad esso, me ne rende partecipe, fa di tutta l’erba un fascio – clienti, attendenti, dormienti, presenti, assenti, sorprendenti, pretendenti – e si chiude nella sua invalicabile privacy, tagliando non solo i ponti della fisicità, della pacca sulla spalla o delle braccia cinte in vita, ma anche quelli dell’epistola, dei segnali di fumo, dei marchingegni elettronici. Ho insistito per esserle accanto il giorno che sarà guarita o quello in cui dovesse soccombere, ma soprattutto adesso, qualunque sia il giorno purché sia oggi, presente, adesso, momento, frazione di secondo, esistenza. Ma per amicizia mi fermo, senza aggiungere le mie ansie alle tue, non disponendo del grimaldello con cui solo una severa terapia sull’anima – psicoterapia non chemioterapia – riesce a scardinare, effrazione amorosa, affettuosa intrusione, devota penetrazione. Però amica ti dico che sono qui, in qualunque istante tu mi voglia, prima o dopo la morte di uno di noi.
Tentai di dimostrare ai Greci che non sempre erano i più saggi, ai Giudei che non erano affatto i più puri. Le canzoni satiriche con le quali quegli elleni di bassa lega tormentavano gli avversari erano stupide né più né meno come le grottesche imprecazioni degli Ebrei. Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all’alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l’avvenire. M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l’odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedevo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?
Spettabile Sindaco del Comune nel quale mi troverò al momento del decesso,
Il monte Cristallo
la presente per informarla della mia volontà, appena dovesse essere opportuno e, a scanso equivoci, il più tardi possibile, di essere cremato acciocché quel 70 per cento del mio corpo costituito da molecole di H2O prenda la sua strada sotto forma di vapore acqueo disperdendosi in atmosfera fino a raggiungere la nuvola più vicina di passaggio dalle vostre parti al momento dell’incenerimento, lasciando che carbonio, potassio, ferro, azoto e quant’altro attualmente distribuito tra capelli e unghie dei piedi si riducano in cenere secondo l’antico detto “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, dove la parola esatta è polvere e non cenere, ma non andiamo per il sottile anche se entrambe, polvere e cenere, sottili sono.
Ammetto l’egoismo della scelta, giacché quelle sostanze chimiche, quegli atomi opportunamente recuperati potrebbero essere riciclati rialimentando il ciclo della natura, mentre con la combustione temo vadano dissipati.
Credo che tutti conoscano la favola della rana e dello scorpione. Se così non fosse la riassumo per chi non la conoscesse.
Uno scorpione, non sapendo nuotare, chiese a una rana di trasportarlo sull’altra sponda di un fiume facendolo salire sulla sua schiena. La rana gli disse di no, temendo di essere punta durante il viaggio, ma lo scorpione le rispose che sarebbe stato sciocco a pungerla, perché così anche lui sarebbe morto, cadendo nel fiume. La rana ne convenne ed accettò. Lo fece salire sul groppone e iniziò il guado, ma a metà strada sentì una dolorosa puntura proprio sul dorso, e, prima di morire trascinando con sé il suo passeggero, chiese allo scorpione il perché di quel gesto. Lo scorpione rassegnato rispose: “È la mia natura”.
In giro per la città ci sono numerosi cartelloni che promuovono, credo, una agenzia interinale o qualcosa di simile, perché invitano a conoscere il cosiddetto lavoro atipico, il quale a me verrebbe di pensare che è fare l’astronauta, mestiere invero assai insolito e certo non molto diffuso, oppure il coltivatore di datteri in zona pedemontana o alpestre, ma anche l’allevatore di vipere per estrarne il veleno e produrre quindi il siero.
Chi ha letto il mio Sempre più verso Occidente forse ricorderà il racconto intitolato La pasticca verde, nel quale si descrive un lavoro invero atipico quello del redattore d’istruzioni, ancorché lo sia sempre meno perché di istruzioni, legende, guide all’uso, calepini, bugiardini, manuali, vademecum c’è sempre più bisogno anche se sempre meno spieghino cosa si debba in realtà fare e in maniera sempre meno comprensibile.
Non sono in grado di dire se la notizia sia vera o frutto di fantasia, se si tratti di una bufala messa in giro nel web per accalappiare creduloni come me e la preziosa persona che mi ha segnalato il caso, a cui ci piacciono le storie, il confine bizzarro fra scienza e panzane, e il rigore dei ragionamenti portati fino in fondo.
Non ci sono più. Così, almeno, mi hanno detto. Al loro posto un nuovo bar dove, a far la vigilanza contro il taccheggio, ci sono amici che fanno bene questo mestiere. E su questo niente da dire. Ma che si siano smarriti gli oggetti smarriti mi smarrisce. Smarrisco poco e non sono mai andato alle aste delle ferrovie dove per lo più, mi dicevano, si potevano trovare macchine fotografiche e qualche bella valigia in pelle. Per cui non me n’ero mai servito. Qualche volta, invece, del deposito bagagli, lì a fianco dei binari. Lasciavi il peso e te ne andavi a fare un giro a piedi senza portarti dietro quella zavorra. Ma capisco anche questo: chi ti dice che qualcuno non ci avrebbe depositato una bomba come purtroppo abbiamo visto.
Daniele Pugliese, torinese, movimento studentesco in gioventù, oltre trent’anni di carriera giornalistica sulle spalle, ha all’attivo numerose pubblicazioni, da solo o con altri: una monumentale storia del Pci, un saggio sulla nascita del movimento cooperativo ed un altro sulle fortune del sigaro toscano, oltre alla curatela per conto de “l’Unità”, il giornale nel quale ha lavorato per oltre vent’anni come redattore e poi vicedirettore, di volumi sulla massoneria e sul mostro di Firenze.
Per dieci anni è stato il direttore di Toscana Notizie, l’Agenzia di informazione della Regione Toscana.