A lezione da Balù

Balù nella redazione de l'Unità di Bologna nel 1994

Balù, orso della giungla, sul pedigree Lock e all’anagrafe Sour in onore di un cocktail che mescola bourbon a succo di limone con l’effetto di essere acido, cosa che Balù affatto era, è stato il mio amatissimo cane. L’ho preso in dote sposandomi e l’ho tenuto quando mi sono separato, ancora non so esattamente perché, la prima volta.

Nei non pochi anni in cui sono stato con lui mi ero ripromesso di leggere il libro di Konrad Lorenz E l’uomo incontrò il cane, poi, sai come vanno le cose, non l’ho mai fatto. Ho rimediato nel giugno scorso. È un libro che ha numerosi piani di lettura, non tutti gradevoli. Naturalmente, come si capisce già dal titolo, dice qualcosa su quegli animali e qualcosa anche sui loro padroni, che lo siano o meno, che abbiano o meno un cane.

Di Balù ho già scritto anche nel racconto Ebrei erranti e non escludo di farlo più dettagliatamente in futuro. Qui vorrei tirar fuori solo qualcosa dal libro dell’etologo.

«Mi rattrista sempre – scrive Lorenz – sentire quella frase malvagia e totalmente falsa: “Le bestie sono migliori degli uomini”. Non lo sono affatto! Certo, la fedeltà di un cane non trova facilmente l’equivalente tra le qualità sociali dell’uomo. In compenso, però, il cane non conosce quel labirinto di obblighi morali, spesso in contrasto tra loro, che è proprio dell’uomo, non conosce, o soltanto in misura minima, il conflitto fra inclinazione e dovere, insomma tutto ciò che in noi poveri uomini crea la colpa. Anche il cane più fedele è amorale, secondo il significato umano della responsabilità».

Konrad Lorenz

La dipendenza del cane dal padrone, o altrimenti il timore che in alcuni esso incute, fanno sì che ad essi perdoniamo cose che a nessun umano lasceremmo inevase, impunite. In particolare accettiamo che essi abbiano degli istinti che noi ci neghiamo.

Scrive ancora Lorenze che il cane «rimane limitato, quasi come un lupo, a quei movimenti mimici con cui gli animali selvatici si comunicano i loro sentimenti di odio, di gioia, di sottomissione. Sono movimenti senza particolare rilievo, perché adeguati alla straordinaria sensibilità reattiva dei loro selvatici compagni di specie. Si tratta di possibilità di comunicazione che l’uomo ha in larga misura perduto, in quanto egli possiede nel linguaggio un mezzo espressivo certamente più rozzo, ma più chiaro. Dal momento che può dire ciò che vuole, egli non è costretto a leggere negli occhi dei suoi compagni di specie i più lievi mutamenti di umore. È per questo che la maggior parte delle persone trova negli animali selvatici una capacità espressiva molto scarsa, mentre in effetti è vero proprio il contrario».

Ciò che rattrista è che, appunto, noi abbiamo perduto quella capacità di esprimerci e di cogliere, non abbiamo aggiunto a ciò che già sapevamo, a ciò che avevamo già appreso o ereditato nel nostro codice genetico, quanto di nuovo siamo stati meravigliosamente in grado di elaborare, ma lo abbiamo sostituito, barattato.

Tracce di quel passato restano non solo nella paura che trasmettiamo con certi nostri sguardi o nella capacità di percepire un’occhiata minacciosa e inimica, quanto, più profondamente, nell’emozione amorosa di certi sguardi, in istanti di incontrollabile tremore, di spontaneo sdilinquimento, di dolcezza infinita, qualcosa di analogo a quello che ha fatto dire a un poeta che non potrai mai odiare davvero una persona che hai visto dormire.

Il distacco che abbiamo frapposto fra noi e i nostri istinti – sui quali il buon vecchio Nietzsche si è così lucidamente soffermato, attirandosi un disprezzo che ancor oggi non lo abbandona –, è ben vero che ci ha preservato da cannibalismi ed altre mostruoserie, ma non ci ha impedito di spedire nelle camere a gas milioni di ebrei o di sterminare gli indios e i pellerossa, per cui è assai discutibile che ci abbia davvero migliorato, che abbia costituito un completo progresso.

Una volta con Balù, abbandonato un rifugia d’alta montagna, mi sono diretto a valle lasciando il sentiero e gettandomi nella bassa vegetazione di mughi, e lui ha recalcitrato tenacemente, conficcando le zampe nel terreno, con il terrore stampato sul muso e tuttavia l’accondiscendenza al padrone che lo trascinava, finché non siamo giunti a un improvviso precipizio, un balzo nel vuoto che non consentiva alcuna avanzata. Abbiamo risalito la china e il cane mi ha costretto a percorrere centimetro per centimetro i passi fatti all’andata, ogni foglia d’erba, ogni sasso, ogni rovo, sui quali probabilmente avevamo lasciato traccia del nostro odore, e solo quando siamo riemersi sul sentiero ha rallentato il passo adeguandolo al suo naturale respiro. Compresi che quello dotato d’intelligenza era lui, non io e non mi importa che si chiamino istinti, per me è intelligenza.

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