Argomento princeps

Ormai è inevitabile. Non c’è cena, pranzo, incontro che non preveda tra gli argomenti all’ordine del giorno le tecnologie. Che si tratti del cellulare, di facebook o di altre diavolerie, non si può fare a meno di parlarne.

La cosa è ovvia, non ci vuole tanta immaginazione. Sono entrate a far parte potentemente della nostra vita ed è difficile sottrarsi. Anzi, coloro che conosco i quali riescono a tenersi in disparte, ai quali va la mia ammirazione e apprezzo la nobiltà d’animo con cui motivano questa loro scelta, finiscono per avere un atteggiamento pregiudizievole, il che non è mai un bene, ma soprattutto sembra che limitino la propria capacità di comprensione e accoglimento della maggior parte dell’umanità che invece si è votata ai byte, alle onde elettromagnetiche, ai social network.

Questo produce uno scollamento, una forma di snobismo, una distanza dal popolo che, ripeto, seppur nobile nelle intenzioni e logico nei ragionamenti, è pur sempre elitario e limitante della propria facoltà mentale.

Ma il punto centrale, qui, è un altro. Sono le modalità delle conversazioni sulle tecnologie, le motivazioni del chiacchiericcio sull’argomento: stereotipate, stantie, ripetitive. Non sento mai aggiungere, né riesco a farlo io, qualcosa di nuovo, qualche approccio più epistemologico, arricchente. Un qualcosa che possa smuovere, scartare. Si ripetono frasi fatte, banalità, luoghi comuni: certo, gli adolescenti abbandonati alla play station sono esposti a un grave rischio e la mutazione antropologica è più che immaginabile, è già sotto gli occhi di tutti. Ma ci si ferma lì.

L’impressione è che sia difficile comunicare sulla comunicazione. Non ho risposte, non ho rimedi, non ho soluzioni. Qui le mie son solo percezioni. Ma forse bastano ad essere un campanello d’allarme.

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