Taggato sarà lei
Sono stato “taggato” in un video pubblicato su Facebook che per ora è stato commentato da circa 55 persone. Il che significa che tutte le volte che qualcuno ha scritto qualcosa sul mio monitor è comparso un pallino rosso che m’informava di tale avvenuta espressione di pensiero.
Wikipedia spiega che «L’attività di tagging (dall’inglese “tag”, contrassegno; in italiano taggare) consiste nell’attribuzione di una o più parole chiave, dette tag, che individuano l’argomento di cui si sta trattando, a documenti o, più in generale, file su internet». I molti nomi che compaiono sulla colonna di destra di questo blog sono appunto tag. Io li uso come una sorta di indice dei nomi o di indice analitico in un libro, un modo cioè per poter risalire a ciò di cui si parla in un determinato post, senza doverli aprire tutti ad uno ad uno.
Taggare dunque serve a catalogare dei documenti attribuendo appunto loro parole chiave che si ritenga possano aiutare a cercare facilmente il contenuto di quel documento.
Le istruzioni interne di Facebook spiegano che «taggare è una delle azioni fondamentali» di questo social network, e che nel linguaggio di chi se ne serve «significa attestare che in un foto (…) sia presente un certo utente di Facebook, che sarà scelto da un elenco dei nostri contatti».
Ora, a me non è chiaro per quale motivo io sia stato taggato in tale filmato. Non mi sento una parola chiave di quel ragionamento, non più di quanto un qualunque individuo possa riconoscersi nelle parole che compaiono fra quelle immagini e con quel sottofondo musicale.
Non mi sto lamentando per essere divenuto un’inconsapevole parola chiave, un ignaro rimando, un innocente contrassegno, un episodico post it giallo, un’incolpevole concatenazione concettuale, un aulico memento. Vorrei solo capire perché. Cosa che farò inviando alla persona che mi ha taggato un’esplicita domanda.
E vorrei dire che questo verbo derivato da una lingua che invece ha le sue meraviglie è proprio brutto o almeno così come lo usiamo noi.
Al liceo c’era un bravo professore che poi è diventato amico e ora purtroppo non c’è più. Si chiamava Benito Incatasciato, è stato a dispetto del nome affibbiatogli dai genitori un comunista di razza, ha guidato quell’associazione che potrebbe essere un miracolo se trovasse una strada un po’ meno improvvisata e che si chiama Arci, Raccontò una volta in una cena di carbonari di quelle dove la politica si occupava seriamente di giornalismo d’aver un giorno telefonato a casa d’una persona e che sentendo la voce della moglie del tizio all’apparecchio disse: «Buon giorno, signora, sono Benito Incatasciato…». Senza neanche lasciargli il tempo di terminare la frase la donna risentita rispose prima di riattaccare la cornetta: «Incatasciato sarà lei, si vergogni».
Ci sono parole che suonano male e non possiamo neanche fargliene una colpa. Per cui oggi, dinanzi al video dove io non so perché ci sono, mi verrebbe da dire: «Taggato sarà lei!». Che posso fare anziché abbassare la cornetta?
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