Maria racconta, eccome racconta
Questo racconto per me è un cazzotto nello stomaco. Quando l’ho letto, direi più di un anno fa, se non sono scoppiato in lacrime, poco c’è mancato. Maria Pieri, la persona che l’ha scritto – riferendo di cose vissute con il coraggio, la passione, la follia, il senso di giustizia che la contraddistinguono – del resto, piangere mi ha visto più di una volta. E non me ne vergogno. È un cazzotto nello stomaco ma è anche un inno alla gioia e alla vita. Io almeno l’ho letto/vissuto così. Forse perché per me Maria, che mi ha pulito la casa, stirato le camicie, cucinato splendidi manicaretti, massaggiato le costole doloranti, è un inno alla gioia e alla vita, anche quando c’è poco da inneggiare. Io ho provato a trovare un editore che glielo pubblicasse in questo anno. Ma la gente è distratta ed abituata alle solite solfe. Per cui ecco qui Maria la tua carta intrisa d’inchiostro, rilegata filo a refe, con copertina rigida, com’ha da essere. Ai miei amici che hanno blog attinenti alla letteratura chiedo: rilanciate, rilanciate. Questo è un bel racconto.
L’ago della bilancia
di Maria Pieri – lamariapieri@gmail.com
Lo so benissimo che non si bestemmia. E poi non è così che sono stata educata: ma davanti a quel foglio di carta intestata con su scritto “Diagnosi istopatologica carcinoma a cellule squamose del canale anale, variante basaloide infiltrante”, una sonora bestemmia a carico della Madonna è stata la prima cosa che è uscita dalle mie labbra.
Il chirurgo mi guarda con occhi comprensivi e dice: “Signora, questo documento lo tenga lei, è la risposta della biopsia di quel polipo che abbiamo asportato, la prego cerchi di stare calma, non c’è motivo di preoccuparsi. In settimana faremo ulteriori analisi per verificare che nell’intestino non ci siano ulteriori sorprese, dopodiché con la curieterapia, una serie di radioterapici e chemioterapici lo fermeremo, purtroppo è locato in una posizione che non è operabile, e poi bla…bla… bla…”, ma io non lo ascoltavo. Lui continuava a parlare, a spiegare mentre la mia vita – con tutti i sogni, i miei desideri e i miei vorrei – si fermava lì, in quella stanza di ospedale di paese, dove pochi giorni prima ero stata operata – credevo – per una stupida ragade al retto.
Altro che una bestemmia! Ne avrei tirate un rosario intero, imprecando anche contro tutti i santi, mentre un enorme punto interrogativo mi rimbombava nella testa: ma perché proprio a me, che cazzo ho fatto per meritarmi anche questo?
Ho quarantasei anni e da quando ne avevo quindici ho sempre lavorato tanto, per anni ho tirato la cinghia perché non avevo soldi e spesso niente di nutriente da mangiare soprattutto quando mia figlia era piccola ed io ero sola ad occuparmi di tutto.
Dopo quell’imprevista, mortificante separazione da mio marito, ho fatto qualsiasi tipo di lavoro pur di garantire una vita dignitosa alla mia dolce Lavinia, ho fatto da padre, da madre, da amica, da jolly con un impiego incalcolabile di energie fisiche e mentali, mettendo sempre davanti a tutto la serenità della sua infanzia prima e della sua adolescenza poi.
Cercando di sorridere anche quando avrei pianto, disponibile ad ascoltare, a parlare, a giocare, malgrado la schiena e i piedi a pezzi dopo una faticosa giornata di lavoro. E i compiti, poi, un vero e proprio incubo: elementari, scuole medie, liceo, la storia, la matematica, la geometria un’angoscia, per non parlare della fisica, la chimica, l’agrimensura, materia che per me apparteneva ad un altro pianeta. E adesso che mia figlia è grande e indipendente ed io posso finalmente organizzarmi per una nuova pagina di vita, fatta non più solo di sacrifici ma di nuovi interessi, di nuovi stimoli zac… ecco che mi arriva questa mazzata fra capo e collo.
“Signora si stenda sul lettino che voglio controllarle la ferita”. Come un automa obbedisco, mi corico su un fianco, lui mi visita, sento male, la ferita è ancora fresca, forse ci vorrà un’altra settimana perché si chiuda, ma non me ne importa nulla della ferita nel mio culo. In questo momento riesco a sentire solo il lamento straziante della mia anima, il rombo sordo che ho nel cervello e il dolore e la paura che mi attanagliano la gola ormai priva di ogni salivazione.
“Ecco queste sono le richieste per le analisi da fare e per qualsiasi chiarimento lei voglia o se avesse delle domande da fare, la prego, mi chiami in qualunque momento.”
Lo ringrazio, lo saluto e ce ne andiamo io ed il mio uomo, il compagno della mia vita, per fortuna lui è stato attento ed ha capito tutto ciò che il medico ha detto.
Mentre scendiamo le scale verso l’uscita Luigi mi abbraccia e mi tiene stretta, ma io soffoco, ho bisogno d’aria, solo d’aria. Nella mia testa ora non c’è posto per niente e nessuno, solo per la mia angoscia. Luigi capisce e mi lascia sola a camminare nel giardino dell’ospedale aspettando con pazienza che io mi sia calmata un po’.
Lo vedo uscire dal bar in fondo alla strada, si avvicina e con dolcezza mi accompagna alla macchina, quanto amore nelle sue attenzioni. Se ne sta in silenzio mentre guida, è disperato ed ha paura. Si sente impotente, schiacciato dagli eventi, lui che per carattere ha pianificato l’intera sua vita, così da evitare ogni imprevisto; lui che si è imposto regole ben precise, affinché niente sia lasciato al caso; l’uomo sempre sicuro delle sue idee che raramente si mette in discussione, riservato, introverso, timido, controllore fino alla nausea (la mia) e poco dedito a qualsiasi attività che possa anche solo apparire ludica.
In sostanza il mio polo opposto: io, fatalista per natura, giocherellona, emotiva, chiacchierona, curiosa, solare, disponibile e aperta verso tutti, soprattutto quelli più sfortunati di me.
È facile da capire come due caratteri così opposti siano facilmente in urto. In tanti anni di convivenza abbiamo discusso tanto che mi sembra impossibile che siamo ancora insieme.
In effetti, poco tempo fa, esasperati da un rapporto così anomalo, avevamo deciso di comune accordo di lasciarci, tranquillamente, senza drammi e senza rancori non appena io mi fossi ristabilita dall’intervento. Ma questo maledetto cancro ci ha distrutto tutti e due e davanti a ciò i nostri screzi, le incomprensioni, l’intolleranza sono svaniti di colpo e ci siamo ritrovati uniti a combattere il male.
Adesso sono a casa, questa splendida casa di campagna in mezzo al verde dei prati e al marrone dei campi lavorati, ai boschi di querce e castagni del meraviglioso Mugello.
Quando Luigi comprò questa vecchia colonica con i suoi sette ettari di terreno completamente trascurati dalle umane cure, davanti a tanto abbandono la prima impressione poteva essere solo deludente, vuoi per la tristezza che quella casa trasmetteva, vuoi per l’enorme massa di lavoro da fare. Seduta su di un grosso masso mi accesi una sigaretta e osservai la vallata, il bosco, le acacie tutte in fila al bordo del campo, i prati pieni di rovi, sterpaglie e marrenche, i biancospini, i ginepri, le decine di ginestre. Ascoltai in silenzio il concerto degli uccelli – merli, cince, ghiandaie, passerotti –; un richiamo acuto e ripetitivo mi fece osservare il cielo ed ecco la meraviglia: due splendide poiane che volteggiavano sopra la casa. La maestà del loro volo mi incantò, subito mi resi conto che non avevo mai visto niente di più affascinante. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da tanta bellezza quando, agitandomi subito senza comprendere cosa potesse essere, udii uno strano verso rauco, gutturale, sembrava l’abbaiare di un grosso cane ferito, magari con la laringite, a cui avrei dovuto portare soccorso.
Cercai con lo sguardo verso il campo da dove proveniva quello strano suono e lo vidi, lì, fermo, immobile: un bellissimo capriolo maschio che con il suo richiamo cercava la femmina. Allora capii che quello era il posto dove avrei voluto vivere tutta la vita e, così, la mia fantasia fu più forte della precedente delusione. Immaginai quella triste casa completamente ripulita dai rovi che la soffocavano, ristrutturata con garbo senza alterare le sue caratteristiche, con dei bei portelloni di legno alle finestre e agli ingressi, e il prato tenuto raso con fiori e piante di ogni tipo a fare da cornice.
La fatica durata per l’enorme massa di lavoro durante i primi anni ce la ricordiamo ancora io e Luigi, ma adesso il sogno è diventato realtà e gli amici che vengono a trovarci dalla città un po’ ci invidiano questa fetta di paradiso che abbiamo la fortuna di avere: rimangono volentieri a soggiornare per il fine settimana, immersi in questo totale silenzio interrotto soltanto dal canto degli uccelli, dal richiamo dei caprioli che si avvicinano fino a casa senza nessun timore, o dal belare delle pecore al pascolo.
Ho scoperto di amare la campagna alla tenera età di quarant’anni. Prima non la potevo concepire, mi sembrava un compromesso fra la montagna e il mare, una via di mezzo noiosa e senza stimoli adatta a chi non poteva permettersi altro, un tipo di realtà abbastanza ossigenata dove portare i bambini e gli anziani in vacanza.
Per fortuna la vita è una grande maestra paziente e giudiziosa, capace di aspettare con calma che l’esuberanza, la cecità e l’ignoranza si allontanino dalle nostre menti facendo spazio alla conoscenza, alla maturità, alla consapevolezza dei valori umani e naturali.
Io qui vivo serena. In questo chiassoso silenzio riesco a conoscermi sempre di più, a scambiare quattro chiacchiere con me stessa, a soppesare e valutare i miei pensieri, le mie azioni e anche le negatività o le positività delle persone che mi circondano e che amo.
Gli ormai vecchi amici di gioventù mi chiamavano affettuosamente, a causa del mio carattere, “Maria la pazza”: volevo fare tutto, conoscere tutto ciò che mi girava intorno, sempre pronta a ridere, giocare e fare baldoria.
Nei giorni feriali uscivo dal lavoro alle otto di sera e, senza cenare, via di corsa in palestra, tutte le sere, per anni e, dopo aver fatto una doccia, la pizza con gli amici, infine a letto per dormire poche ore e l’indomani ricominciare. Ma la domenica… “Andiamo al mare? Andiamo in montagna? Andiamo a fare un giro in macchina per scoprire nuovi posti e luoghi che non conosciamo? C’è una festa, tu vieni?” e io non ho mai risposto “no, sono stanca”, oppure “no, non mi interessa”. Sempre pronta per tutto e per tutti, che bella cosa la gioventù. Ai miei tempi era anche facile viverla bene. La vita costava il giusto, il cinema, il teatro, la discoteca erano accessibili, la pizza e una birra poi erano alla portata anche dello studente più squattrinato. La mia Firenze di notte era come un grande circo, c’era sempre movimento e gente dappertutto che passeggiava o passava da un locale all’altro, ragazzi all’imbrocco delle straniere, musicanti sul Ponte Vecchio. Se ti sentivi annoiata e sola bastava andare in centro fare un giro da Piazza del Duomo a Piazza della Repubblica e sicuramente trovavi l’amica o gli amici con cui trascorrere la serata in allegria.
L’adolescenza di mia figlia in un certo senso è stata meno fortunata; i tempi sono cambiati le esigenze pure; inoltre lei ha vissuto i suoi anni “critici” in provincia e da un paese di campagna non ci si può aspettare molto. Ovviamente anche i suoi compagni provenivano dai paesi del Mugello e durante le varie riunioni o le attività scolastiche aperte ai genitori, ho avuto modo di conoscerli e di parlare con loro della loro giovane vita, delle loro esperienze dei loro divertimenti.
Prima di tutto i soldi, questo è l’interesse principale: per la Play Station, la discoteca, il sabato sera, i jeans di marca e le scarpe da ginnastica all’ultima moda. Poi c’è il rapporto sociale con il gruppo e questo è importante anche perché se si è da soli ci si annoia mortalmente e l’unica alternativa alla noia in questo caso è farsi una canna. Ma, mi domando, la fantasia, la curiosità di conoscere, la consapevolezza che al di fuori del tuo perimetro d’azione c’è un mondo intero da scoprire e che ti aspetta, è lì come un frutto da cogliere e da gustare, pronto a donarti emozioni sensazioni, un’arricchimento che nessun Video Games, discoteca o spinello potrà mai darti perché la scuola della vita non è mai limitata o circoscritta a pochi argomenti ma è come il pozzo di San Patrizio che non ha mai fine e da dove puoi attingere di tutto.
A volte sono venuti qui, a casa nostra, gli amici di Lavinia. Poche sono state le occasioni e poco il tempo della loro permanenza perché, a detta di mia figlia, questi ragazzi non sono abituati a colloquiare con i genitori né a rapportarsi con loro.
Da queste parti i genitori sono vissuti come presenze scontate, la certezza del pranzo e della cena, del letto dove dormire e dal supporto economico per le loro tasche sempre vuote. Per fortuna il rapporto che c’è fra me e Lavinia non è così sterile, altrimenti passerei la vita a tormentarmi dai sensi di colpa e a chiedermi dove ho sbagliato. Il genitore, che figura importante! Indispensabile, difficile, rassicurante e rompi palle, amico e nemico, eroe e vigliacco, simpatico ed odioso, disposto a qualsiasi sacrificio per amore del figlio e troppo spesso costretto a subirne il giudizio.
Io non ce l’ho più i miei genitori e Dio solo sa quanto mi mancano. Sono nata nel lontano cinquantuno da un padre e una madre troppo maturi e troppo provati dalla vita per avere una figlia da crescere e da preparare serenamente ad inserirsi in una società in evoluzione.
Piove, me ne sto sotto la veranda, comodamente seduta nella mia vecchia poltrona di legno e tela fine ottocento, ereditata dalla mia ex suocera vent’anni fa: in effetti è un po’ sgangherata, ma non la cambierei con nessun’altra. Sì, erano proprio bravi i miei genitori, due persone rette e oneste, piene di sani principi morali e sociali ed estremamente religiosi. Mio padre, poi, era stupendo.
Quando sono nata io i miei due fratelli erano gia grandicelli e per Renato, questo era il nome di mio padre, è stato come se Babbo Natale avesse esaudito un suo desiderio facendogli trovare sotto l’abete illuminato una figlia femmina. Mi ha veramente adorato. Ha seguito con interesse ogni fase della mia crescita, sopportando con pazienza la mia esuberanza e il mio bisogno di libertà fuori dalle regole imposte da mia madre, il mio modo incerto ed aggressivo di scoprire la vita, il mio sessantotto, i mitici anni settanta, il mio matrimonio sul quale aveva grosse riserve, e la nascita di mia figlia. Ci ha messo tolleranza, curiosità, riservatezza e un tale ottimismo che solo una persona saggia può avere. La sua fiducia in me l’ha trasmessa tutta.
Ha lasciato che camminassi sulla mia strada sbandando di qua e di là senza spingermi, senza reprimermi, senza imporsi, ma la sua forza e il suo amore hanno sempre camminato con me, fino a che non ho più sbandato ed ho trovato la vita che cercavo. Sono troppi anni ormai che lui non c’è più e dentro di me c’è come un buco: ogni anno che passa mi sembra si allarghi sempre di più. Non ho mai accettato la sua morte.
Sono venti giorni che passo da un medico all’altro, da una visita all’altra, da una Tac a un’ecografia, dall’espressione comprensiva del mio chirurgo a quella di circostanza dei conoscenti che hanno saputo del mio cancro… e gli amici? Io ho sempre creduto molto nell’amicizia, un sentimento importante, uno stato d’animo che ti appaga e ti fa stare bene. Sapere che intorno a te ci sono persone che ricambiano il tuo affetto, la tua allegria, persone con le quali sfogare le proprie angosce, i dubbi, insomma la consapevolezza di avere oltre alla parte ludica, anche una spalla su cui piangere.
Questo è ciò che intendo per amicizia e questo è ciò che io do.
Il vuoto, sì proprio così, il vuoto.
Solo frasi spezzate della serie: “In bocca al lupo”; “Stringi i denti e se hai bisogno telefona pure”; “Mi dispiace tanto, è terribile ciò che ti accade, ma tu sei forte e ce la farai”. E questi sarebbero gli amici? Questa è amicizia? E queste persone sono quelle che io ho amato, nelle quali ho creduto, sulle quali poter contare?
Di tutti solo uno mi è rimasto vicino, Fabrizio che ha sofferto insieme a me e alla mia famiglia. Ha messo a disposizione il suo affetto, il suo tempo, e la sua allegria per aiutare tutti noi anche con un sorriso, perché no? E noi gli saremo grati per la vita.
Nella casa poco distante dalla nostra ci abita una coppia abbastanza giovane. Non hanno figli, sono molto riservati, fanno una vita di solo lavoro e l’unico loro hobby è la bicicletta. Da quando viviamo qui in campagna non li abbiamo visti quasi mai e nelle rare occasioni d’incontro c’è stato solo lo scambio educato del “Buongiorno” o “Buonasera”, e poco di più. Praticamente una coppia di eremiti, ingrugniti ed asociali. Ma quando per puro caso (nei paesi si mormora!) hanno saputo che io stavo male è avvenuta la metamorfosi.
Un tardo pomeriggio al rientro a casa dall’ospedale loro sono venuti a trovarmi regalandomi una bellissima pianta dai fiori gialli e offrendomi il loro aiuto e la loro disponibilità. Un vero shock! E non sono state solo parole di cortesia: da quel giorno Manuela e Stefano sono venuti con assiduità, ad aiutarmi e a portarmi i prodotti del loro orto affinché io potessi nutrirmi con cibi sani. Insomma è nata un’amicizia sincera basata sui fatti e non su delle vuote parole.
Ed io penso e ripenso: gli amici di prima, gli amici nuovi, l’ipocrisia, la sincerità, l’egoismo, la paura del male e della morte, una mano tesa e un sorriso al momento giusto, questo orrendo male è come l’ago della bilancia che mi indica, non senza una punta di dolore, in quale piatto devo guardare.
Cancro, che strana parola, così breve e ricca di terrore, capace di piegare anche il più forte degli esseri umani, di stroncare ogni volontà. Può fare impazzire.
L’istinto di sopravvivenza stimola la speranza, la voglia di reagire, e allora ti dici che tu non puoi morire così, che tu ce la farai, ce la devi fare: non esiste che un ammassino di cellule impazzite decide della tua vita, sono io che decido, io e solamente io, e ne uscirò, io guarirò. Ma questo senso di sicurezza dura poco, le pile che mi danno la carica non sono a lunga durata e talvolta cado in depressione, perdo il coraggio, penso a mia figlia, al mio uomo, alla gatta, alla campagna, a tutta la mia vita fino ad oggi, alle vittorie e alle occasioni perse, a tutto ciò che vorrei ancora fare e vedere, sento rabbia e impotenza dentro di me e vorrei strappare con le mie mani questo parassita assassino, cospargerlo di benzina e dargli fuoco.
Quante stronzate dico, ma direi e farei qualsiasi cosa per sfogare la mia rabbia, per convincermi che ciò che sto vivendo è solo un incubo, e che quando mi sveglierò sarò solo un po’ scossa e niente di più, e la vita mi verrà incontro come tutte le mattine con i suoi pro e i suoi contro, con il sole o con la pioggia, gli imprevisti, le abitudini, la noia, la tv, lo stereo, le code delle macchine, con i conti da fare e i soldi che non bastano mai, con i problemi del lavoro, della politica, del sociale, le tragedie mondiali, cosa si mangia oggi? Che meraviglia!
Cinque mesi, cinque lunghissimi interminabili e tragici mesi. In questo lasso di tempo sono entrata ed uscita dalle sale operatorie cinque volte. Due interventi interni per ripulire il più possibile, un’infissione anale a base d’iridio che è durata sessanta ore consecutive e che ha distrutto sì il tessuto attaccato dal cancro, ma ha anche bruciato e necrotizzato il tessuto sano provocandomi fortissimi dolori. Un’epidurale per impiantarmi il sondino attraverso il quale, da una specie di bomboletta che tenevo dentro un marsupio, mi iniettavano morfina e marcaina ventiquattro ore su ventiquattro per un mese. L’impianto di un porter sopra il seno con un sondino infilato nella vena succlavia, con il solito sistema della bomboletta, per iniettare la chemioterapia a ciclo continuo. Il cinque era il numero della mia camera in ospedale, cinque in totale sono state le anestesie e in cinque mesi il numero cinque è stato estratto cinque volte sulla ruota di Firenze, numero che io, con la fortuna che mi ritrovo, ovviamente non ho mai giocato.
Violentata, sì, violentata, sia nel fisico sia nella mente, ecco come ci si sente a subire e a sopportare tanto dolore. È stato come avere delle lame infilate nel corpo che ad ogni respiro si muovono dentro, e mi lacerano, mi annebbiano la mente, mi abbuiano l’anima, e il sole non c’è più.
Il mondo è buio, i fiori non hanno più colore né profumo; la presenza delle persone che amo mi è indispensabile, ma la loro energia, il loro essere vivi, il loro sorriso mi fa sentire frustrata, insofferente, depressa. Questo è il dolore. Per fortuna nel periodo che sono stata sotto morfina ho potuto recuperare un po’ di forze, un poco di ottimismo, la fiducia iniziale che avevo di vincere ad ogni costo questo maledetto cancro e così, anche se per poco tempo, torna il sole, i fiori profumano e le persone che amo sono meravigliose.
Ed è arrivata anche l’ultima applicazione di radioterapia, finalmente. La dose è la stessa delle precedenti diciannove, ma questa, la ventesima, irridia su tessuti secchi e screpolati: sono sdraiata sul lettino e sul mio ventre nudo l’enorme occhio nero dell’alienatore lineare S 25. Un ronzio: è partito, le radiazioni colpiscono e sento male, sento bruciare fuori e dentro di me. Stringo i denti, ancora un minuto ed è finita.
“Puoi rivestirti”, mi dice il radioterapista, “sono contento per te che hai finito il ciclo. Devo farti i miei complimenti, perché sei stata molto brava ad arrivare fino in fondo alla cura, tanti pazienti rinunciano prima. Arrivederci”.
“Ti saluto anch’io e ti ringrazio della cortesia, ma spero proprio di non rivederti mai più, non qua dentro almeno!”.
Esco dall’ospedale e m’incammino verso la fermata dell’autobus. Cammino perché il dolore che ho al basso ventre è molto forte. Mi fermo al bar vicino al cancello, chiedo un succo d’ananas e mi siedo. Sto male. Ci sono tante persone nel bar che consumano, chiacchierano e ridono, ma io mi sento sola, intristita, persa.
Questa di oggi è stata l’ultima applicazione di radio e dovrei esserne contenta, ma in realtà mi chiedo: da adesso in poi cosa succederà!
Mi hanno mandata via dal reparto con tanti sorrisi, ma non mi hanno detto niente sulle reazioni fisiche alla radioterapia, nessun’indicazione, né prescrizione medica e, ora che ci penso, nessun dottore si è preoccupato di me, solo i tecnici del reparto.
Improvvisamente, un senso d’angoscia mi prende lo stomaco. Mi chiedo come sia possibile tanta superficialità da parte di chi cura una malattia grave come il cancro. Se tanto mi da tanto nei reparti dove si curano malattie meno gravi cosa succede: forse si dimenticano dei pazienti, o che altro?! Non c’è proprio da stare tranquilli, anch’io però ho sbagliato, avrei dovuto chiedere, domani telefonerò.
Pago il mio succo d’ananas e vado al capolinea del quattordici, sto un po’ meglio.
Salgo sull’autobus e mi siedo. Guardo fuori dal finestrino, il viale è un caos di macchine e di gente frettolosa, mi giro e dietro di me vedo l’ospedale che si allontana e realizzo, sento un senso di calore che mi sale fino al viso, no, non è una delle solite vampate dovute alla radioterapia, questa è una stupenda meravigliosa inaspettata vampata di gioia, e mi viene da ridere. Ho finito, ho finito, continuo a ripetermi, ce l’ho fatta, dopo mesi di sofferenza che mi sono sembrati anni, forse secoli, sono qui sull’autobus che mi porterà a casa e rido con il cuore colmo di gioia.
Ti saluto ospedale, ti do il mio “ADDIO”. Addio ai tecnici, addio ai dottori, addio all’alineatore lineare S 25. Io mi preparo a tornare a vivere: anche se il mio fisico non è ancora pronto, la mia mente e il mio cuore lo sono e come una vettura di formula uno costretta ai box per riparazioni, comincio a scaldare il motore perché presto, molto presto, io tornerò in pista.
Il medico responsabile del reparto di curieterapie e radioterapia da cui sono stata presa in cura mi aveva spiegato in cosa consistevano queste applicazioni e a cosa servivano, ma si è dimenticato (volutamente?) di dirmi che a breve distanza dalla fine di queste terapie sarebbero sopravvenute bruciature profonde su tutta la parte irradiata sia internamente che esternamente, e neppure ha mai parlato di necrotizzazione dei tessuti, né di edemi estesi, né di ulcere e neppure che nei canali creati dagli spadini usati per l’infissione di iridio si sarebbero formati degli ascessi. Che bastardo.
Se mi avesse informato chiaramente delle conseguenze, sono sicura che non avrei affrontato questa tortura perché ritengo che la libertà di scegliere del proprio destino e della propria vita sia un diritto sacrosanto di ogni malato, e nessun medico o professore o familiare possa arrogarsi il diritto di decidere per me.
Io sono incazzata nera per questa violenza subita ed ho giurato a me stessa che della malafede e del menefreghismo dimostrati prima, durante e dopo le terapie dal “caro” dottore che si è sempre negato ad ogni mia richiesta di aiuto, me ne dovrà rendere conto prima o poi. Voglio guardarlo dritto negli occhi e dirgli ciò che penso di lui come medico e come persona, voglio che veda ed ascolti il mio disgusto e il mio rancore, fargli capire che non è etico far carriera sulla pelle della povera gente malata che fiduciosa si mette nelle sue mani, serena della sua professionalità in quanto, non addetto ai lavori, il malato di cancro è ignorante, impaurito, smarrito.
Voglio sentirlo balbettare frasi di giustificazione senza alcun senso per me.
Voglio vedere la paura nei suoi occhi, la paura di essere denunciato, sputtanato, la paura di una carriera sull’orlo di una brutta crisi che lo faccia sentire piccino piccino e nei suoi occhietti neri così spavaldi ci voglio vedere lo smarrimento, l’angoscia.
Già, l’angoscia e la paura, il dolore e l’impotenza. Le conosco bene queste terribili nemiche, mi accompagnano da troppo tempo e fanno parte di me, e non sono sufficienti gli antidolorifici né la morfina per debellarle: al massimo si calmano un po’ ma poi ritornano più aggressive di prima.
Ormai sono di casa all’Istituto medico privato dove la camera iperbarica mi aspetta tutte le mattine. Cerco con tutte le mie forze di non cedere ai nervi perché sarebbe la fine ne sono cosciente, e non voglio affatto prolungare il mio soggiorno all’inferno.
Non nego che ci sono dei giorni in cui mi prende lo sconforto e piango mi dispero e prego i miei cari morti di venirmi a prendere e di portarmi via con loro.
Ho pensato anche di suicidarmi, ma come? Il cassetto del mio comodino è pieno raso di farmaci, farne un bel miscuglio e mandare giù il tutto con un bel bicchiere di vino sarebbe una soluzione indolore, ma se poi non funziona e invece di morire entro in coma o rimango scema per il resto della vita? Scarto l’avvelenamento da farmaci, potrei impiccarmi ad un ramo del bellissimo noce davanti a casa, ma non so fare un nodo scorsoio quindi scarto anche l’impiccagione.
Il taglio delle vene è facile, magari lo faccio seduta nel piatto della doccia per non sporcare troppo, ma non conosco il tempo che occorre per raggiungere lo scopo e c’è il rischio che mi trovino troppo presto e così non solo non muoio, ma devo anche andare in ospedale a farmi ricucire le vene. Ci vorrebbe una pistola oppure un fucile ma il mio compagno che è appassionato di armi ed è anche cacciatore, tiene i suoi balocchi sotto chiave, ed io, ovviamente, non so dov’è. Però, ora che ci penso, siccome io odio le armi, non so maneggiarle e neppure caricarle, così anche questa possibilità è sfumata.
Quando ho questi momenti di crisi nera e i miei pensieri si fanno cupi, la mia mente setaccia a ritroso nel tempo questa mia vita passata. Quanti errori ho commesso a causa del mio idealismo, e quante volte mi sono rotta la testa. Bilancio, parola magica e un modo molto utile per analizzare noi stessi. Quando ero giovane osservavo e mi rapportavo con l’ambiente che mi circondava: quindi il lavoro, i colleghi, gli amici, la religione, la realtà degli anziani con le loro storie ed opinioni su un mondo in evoluzione, i tabù ed i pregiudizi.
Perciò quando la sera volgeva al termine usavo rilassarmi in poltrona ripensando alla mia trascorsa giornata. La analizzavo momento per momento, personaggi compresi e soprattutto le mie azioni e reazioni, usando pertanto un certo distacco come se stessi guardando un film e ne dovessi fare la critica. Così riuscivo a vedere con chiarezza i miei errori e le mie positività. Ho continuato per anni questo rito serale perché farlo mi dava sicurezza, equilibrio e pace interiore.
Io, come la maggior parte dei fiorentini, ho uno spiccato senso dell’ironia e dell’umorismo, e mi diverte giocare con i miei difetti e prendermi in giro, soprattutto quando “deludo” le aspettative altrui, come ad esempio il mio ex marito e il mio attuale compagno Luigi. Loro mi considerano una persona onesta, responsabile, attiva, ma per come mi interpreto e gioco non sono una persona normale. Tante volte ho chiesto ai miei intelligenti ed arguti giudici cosa vuol dire essere normale per loro, anche perché non mi piace molto questa etichetta che mi hanno appioppato, ma ricevo sempre la stessa risposta: “Se su cento persone novanta pensano vivono e si comportano nello stesso modo mentre le restanti dieci in un altro, seguendo la logica che la maggioranza vince, si ottengono novanta persone normali e dieci persone anormali: tu, cara Maria, fai parte di queste dieci” Io, a tutt’oggi, mi rifiuto di capire questa stronzata e continuo imperterrita a seguire ciò che mi dice quello splendido caos che c’è in me e mi rifiuto a priori di appartenere ad un gregge con il marchio sulla coscia.
La mia pelle è coriacea e le troppe discussioni fatte a questo proposito non mi hanno mai scalfito più di tanto ma i miei giudici, i cosiddetti normali, con l’intento di farmi capire la ragione, spesso hanno alzato la voce ed usato vari epiteti poco gratificanti nei miei confronti senza badare che, a bocca aperta e con gli occhioni spalancati, c’era mia figlia che non ha mai gradito la levata di scudi nei confronti di sua madre, tanto che ne rimaneva scossa anche per diversi giorni e c’è voluto tanto amore e voglia di sdrammatizzare da parte mia per calmare la sua amarezza e la sua rabbia.
Abbiamo sempre parlato molto noi due, soprattutto la sera, e anziché guardare la televisione, preferivamo chiacchierare del più e del meno e, perché no, anche spettegolare un po’ di Tizio e di Caio. Non abbiamo mai avuto segreti, e crescere insieme a lei è stato ed è per me meraviglioso.
La sua infanzia, l’adolescenza, la sua scoperta del mondo giorno dopo giorno, la nostra complicità tipica di due buone amiche, il condividere con me le sue emozioni regalandomi così una forza immensa e la voglia di guardare sempre avanti e di lottare per me stessa e per lei.
Il mio compagno e mia figlia non hanno mai legato molto, nonostante i diciassette anni di convivenza. Sono due caratteri diversi e questo riesco a capirlo; ciò che non capisco è come un uomo adulto e già padre a sua volta non riesca a comprendere le necessità sociali, familiari e personali di una ragazzina che sta crescendo, ma sentire invece il bisogno di arrivare allo scontro che comunque lascia sempre l’amaro in bocca e non costruisce niente di buono.
Luigi l’ha sempre giudicata, fin da piccola, poco intelligente, una specie di animalino cresciuto allo stato brado senza regole né disciplina, influenzata dall’anormalità della madre, ovviamente! Auspicare quindi di trascorrere momenti sereni e gioiosi tutti e tre insieme è stata sempre e solo un’utopia. Finché ho avuto la salute ho sempre difeso a spada tratta la libertà di pensare ed agire di mia figlia, quindi le discussioni – chiamiamole pure leticate – fra me e lui si facevano sempre più pesanti.
Discussioni inutili, perché poi non portavano a niente di costruttivo, ma mi lasciavano solo l’amaro in bocca, al punto che spesso mi sono chiesta perché cavolo continuavo ad amare e a condividere la mia vita con un uomo che mi mortificava tanto come madre e come donna, che faceva soffrire mia figlia rendendola insicura ed indifesa.
Più volte ho pensato di prendere Lavinia, le nostre poche cose e andarmene. Dove? Non aveva importanza, sicuramente me la sarei cavata in qualche modo.
Cercavo solo tranquillità per la mia piccolissima famiglia, la possibilità di vivere senza aver paura di sbagliare o di essere accusata di chissà quale errore di percorso.
Ma il diavolo ci ha voluto mettere lo zampino e con la sua grande generosità mi ha regalato un cancro e così quel sottile filo che ci permetteva di convivere tutti e tre insieme si è definitivamente rotto.
Con me inferma, la loro intolleranza e insofferenza reciproca è aumentata così tanto che una sera, a causa di uno stupido malinteso, si sono presi di brutto. Litigavano e urlavano davanti a me inchiodata dalla malattia in quel letto maledetto, senza nessun’altra forza che quella di piangere. Erano presi dai nervi, Luigi e Lavinia, stanchi del mio cancro che non concedeva, ad entrambi, l’appagamento dei propri bisogni. La libertà di divertirsi, di gioire in qualche modo di quell’estate piena di colori e di profumi, la loro voglia di mare, di nuotare sott’acqua e non pensare più a niente. Volarono offese da ambedue le parti: sembravano impazziti. Vedevo mia figlia impaurita ma arrogante allo stesso tempo e lui, l’adulto maturo, che non le dava tregua, ma infieriva sempre di più. Lei si fermò cercando la pace, ma non valsero a niente le miti scuse da lei profferte, lui non solo non le accettò ma le impose di prendere le sue cose e di andarsene al più presto da quella casa.
Ho pregato di morire in quel momento, e quando, dopo qualche giorno, Lavinia ha caricato la sua giovane vita su un furgone e, piangendo, mi ha salutato, io ho sentito come se una mano mi strappasse il cuore e lo buttasse via.
La mia vita in quella mattina è cambiata, la mia predisposizione mentale è cambiata.
Non riesco più a giocare con me stessa, non ironizzo più, adesso l’unica mia méta è guarire.
Lettera a Lavinia
Adorata figlia,
voglio ringraziarti. Da tanto tempo non passavo una così bella serata, grazie a te e ad Alessandro. Un compleanno bellissimo il tuo che mi ha portato gioia ed allegria. Dopo la cena mi sono accorta che parlando e rimembrando del nostro vecchio quartiere fiorentino “le Cure” e dei suoi personaggi c’era un filo di nostalgia nella tua voce e anche nei tuoi occhi. Ciò mi ha emozionato. È vero che tu, fin da troppo presto, hai conosciuto il dolore, i dispiaceri, la rabbia e altre negatività, ma è anche vero che framezzo a tutto questo c’è stato il gioco, le marachelle, i viaggi, la musica, lo sport e tante avventure, tutto ciò ed altro ancora da tenere nel tuo zaino dei ricordi.
Ricordi che ti accompagnano nella crescita, che ti aiutano ad affrontare con forza i problemi, la tua vita.
Oggi compi ventun’anni e chi non si è fermato più di tanto a cercare di conoscerti vede una ragazza distaccata e disincantata, quasi menefreghista. Poverini, quanta poca sensibilità! Se queste persone avessero meno superbia e più umiltà andrebbero oltre a quella corazza di armadillo che ti sei cucita addosso, e vedrebbero una bambina che la domenica mattina, tornando a casa dopo la messa, portava un mazzolino di fiori alla sua mamma. Tu sei una tenerona, coccolona e romantica, innamorata dell’amore in ogni sua rappresentazione.
Ricordi quando ti portavo al Luna Park? Ci andavamo spesso noi due. Ti portavo sulle giostre grandi, quelle “pericolose” e tu sedevi vicino a me con uno strano sorriso sul visetto, un misto di curiosità e paura. Mi stavi vicina vicina ed io ti abbracciavo, poi la giostra partiva e la tua manina sudata mi stringeva forte e l’adrenalina saliva a mille e tu urlavi a squarcia gola. Quando la giostra si fermava e ne scendevi non avevi più paura ma solo soddisfazione sul quel visino tondo tondo, perché eri stata per qualche minuto su una cosa difficile e pericolosa per te, ma l’avevi affrontata, ce l’avevi fatta e ne eri orgogliosa. E questa è la vita da quando nasci a quando muori, un enorme Luna Park pieno di giostre di tutti i tipi. Quelle con i cavalli di legno che ti rilassano e quelle che ti fanno tremare di paura, quelle che ti mandano lo stomaco fino ai piedi, altre che ti invogliano a correre e a saltare o a lasciarti cadere nel vuoto con le gambe fissate ad un elastico.
Tante, sono veramente tante e tutte ti trasmettono un’emozione piacevole oppure no, bella o brutta ma non fa differenza quello che importa è che tu sia in grado di salire su ognuna di loro e scenderne contenta. Nella vita puoi incontrare il buono e il poco buono, l’ignoranza e la buona fede, l’amicizia o l’ipocrisia ed è bene conoscere e imparare a distinguere e tutto ciò diventerà esperienza, conoscenza maturità ed infine saggezza. È un cammino molto lungo e il tuo, e di giostre ne incontrerai spesso, usa l’intelligenza e la tua sensibilità e sono certa che quando ne scenderai avrai stampato sul volto la stessa soddisfazione di allora.
Ora che vivi lontano da me insieme al tuo ragazzo, mi manchi da morire.
Continua ad analizzare il tuo quotidiano con sincerità e rispetto e la stella della serenità brillerà per te e il tuo compagno.
Spero che per il tuo ventiduesimo anno di età mi regalerai un’altra serata piena di gioia, nel frattempo rilassati e goditi la tua gioventù.
Con infinito amore
Mamma
Chiarezza, sì chiarezza ed onestà reciproca nell’esprimere i propri pensieri, senza più la paura come conseguenza alle proprie azioni. E con questa piccola regola come base ai nostri discorsi, a volte civili a volte un po’ meno, io e Luigi ci siamo riconciliati, chiariti delle scorrettezze e delle assurde incomprensioni. Adesso siamo abbastanza sereni e fiduciosi nel voler continuare questa nostra vita insieme.
Bando all’ipocrisia che per anni, cieca che sono stata, ho creduto fosse amicizia, ma il mio cancro l’ha smascherata e ammucchiata tutta sul piatto sinistro della bilancia che da quanto è pesante non si muove più. Guardo soddisfatta il piatto destro con il suo peso minimo ma importante. Su questo piatto ci sono riuniti amore, amicizia, valori sinceri. Pochi sentimenti ma così forti da muovere le montagne.
Questi bei doni mi sono arrivati poco alla volta giorno dopo giorno, da quando mi sono ammalata, doni che mi hanno aiutato a sopravvivere, a sperare e a darmi forza per andare avanti, che mi hanno fatto spesso dimenticare la mortificazione di avere un sacchetto raccogli-feci attaccato alla mia pancia.
Sì, anche questa umiliazione ho dovuto subire e per ben quindici mesi, ma loro, i miei cari dottori che mi hanno salvato la vita, adesso i miei adorati amici Piero e Andrea e le loro rispettive mogli Barbara e Antonella, non mi hanno mai abbandonato. Mi hanno curato, fatto ridere, giocare, mi hanno portato al mare e in montagna, a cena fuori e al cinema e mi hanno ricoperta di affetto.
Sono tutti lì sul piatto destro insieme alle altre persone che amo e lì resteranno.
Adesso al posto del sacchetto sul lato destro della mia pancia c’è una bella cicatrice.
All’ospedale di Padova, dove regnavano seri dubbi sulla mia guarigione, hanno gridato al miracolo nel vedere i miei poveri tessuti ormai cicatrizzati, e così mi hanno operato e rimesso in funzione l’intestino. Certo, ancora ci vuole un po’ di pazienza, da parte mia non devo avere fretta, ma dalla finestra sta filtrando il sole ed io so che sarà lo stesso sole che illuminerà il mio futuro.
Ora so che posso cominciare a pulire il carburatore, controllare le gomme, i freni e la frizione, perché fra non molto potrò girare la chiave dell’accensione e gradualmente, senza fretta, tornerò a correre sulla pista della vita, con un cancro buttato dietro le spalle e davanti a me solo il sole.
Tags: Maria Pieri
mamma ti amo !!!!!!!
Cara amica mia,
ho sempre saputo che sei una persona speciale ed anche questo racconto lo dimostra. Non tutti avrebbero avuto la capacità e la forza di descrivere così intimamente il loro calvario nella malattia e la speranza e la gioia per il futuro. Che il tuo sia radioso e sereno.
Sei e sarai sempre nel mio cuore, Bacioni
Antonella
Cara Maria ti ho letta di un fiato con brividi che mi accompagnavano
ad ogni tua frase.
Volevo solo dirti brava, tanto tantisimo.
Tua figlia è fortunata ad avere una madre come te.
Farebbe bene a tanti leggerti, se Daniele non ti avesse pubblicata avrei perso questa enorme iniezione di saggezza e di forza. Continua a scrivere!
Cristiana
Maria, non ho parole, mi hai commosso.
Non ci vediamo da tanti anni, troppi, però mi hai fatto venire in mente tanti di quei ricordi e rivivere tante di quelle emozioni che non posso altro che ringraziarti.
Un bacione grande!
Andrea
Maria. E’ da giovedì che ci penso. E’ così, ho incontrato un cervo maschio, fiero, coraggioso e indomito, che va incontro alla vita. Una grande dolcezza negli occhi scuri, ma non quella melensa da rotonda sul mare, ma vera e intensa di chi la vita l’accetta e la vuole – senza condizionali di comodo – tutta intera, per com’e', e la guarda diritta negli occhi. Proprio un cervo maschio, e dico maschio perché – come dice Calvino di Bradamante nel Cavaliere inesistente – è tuo ‘quel fiero modo che hanno d’esser virili certe donne veramente donne’. Una gran lezione e gioia, per me, averti letta e poi conosciuta. Non sai quanto.
Maria,
non ci conosciamo, ma ho conosciuto Daniele e sul suo blog ho saputo di questo tuo racconto. Sei stata molto brava, intensa e forte nelle descrizioni. Anch’io ho scritto qualcosa di simile perchè anch’io ho conosciuto il cancro, l’ho combattuto e vinto, e l’ho pubblicato in un libro intitolato “come un’amazzone”.
Ho conosciuto tanta forza durante la malattia ed ho avuto l’occasione di conoscere tante persone, che grazie alla forza che hanno dovuto trovare, sono diventate speciali. Felice di averti letto.
Simon