Un senso fra le righe

Ingeborg Bachmann

Era un po’ di tempo che mi interrogavo su cosa troviamo nei libri, sul perché non sempre rinveniamo in essi, fra lettori diversi, le stesse cose. Poi, in questi giorni, ho letto Il dicibile e l’indicibile di Ingeborg Bachmann, e mentre maturava un nuovo pensiero, o meglio un’impressione che tra poco metterò a fuoco e manifesterò, mi sono imbattuto, anzi, ri-imbattutto, in questa frase tratta da Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust:

«In realtà, ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità, e viceversa, almeno in una certa misura, almeno in una certa misura, giacché spesso la differenza fra i due testi può essere imputata non all’autore, ma al lettore».

Se tutto questo, come io credo, è vero, è vero anche, allora, che in un libro non si trova soltanto ciò che c’è scritto, non solo i pensieri che ad esso vengono affidati, ma anche sensazioni proprie, percettibili quasi indipendentemente dal testo, o che comunque, qualora anche vi fossero, non costituiscono il cuore di quella narrazione, sono solo episodici spunti o casualità o accidenti, e ciò nonostante non meno vere, reali, agenti.

Così, proprio leggendo la trascrizione delle quattro trasmissioni radiofoniche tenute dalla Bachmann negli anni Cinquanta per lo più alla Bayerischer Rundfunk di Monaco, sono stato colpito da un tema che mi è sembrato ritrovarsi in tutti e quattro i testi, pur essendo in ognuno di essi, direi, appena marginale e che io stesso sono costretto a tratteggiare appena per rapide pennellate.

Nella puntata dedicata a L’uomo senza qualità di Musil si ricorda che a Ulrich, il personaggio principale del romanzo, «sembrò che non far nulla per un anno valesse lo “sforzo”» e si sottolinea l’incompiutezza, l’impossibilità di giungere in fondo dell’intero romanzo, quella sospensione non dissimile da molti gesti dei protagonisti e della stessa Azione Parallela.

L’analisi di Wittgenstein porta inevitabilmente alla frase conclusiva del Tractatus, a quel «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» e al suo chiudersi nel silenzio e al suo ritirarsi dalla vita, per non dire l’indicibile.

Simone Weil, oltre ad essere morta giovanissima e sempre sospesa tra una religione e un’altra e un’assenza di Dio o una sua totalizzante presenza, appare anch’essa trattenuta tra la fabbrica in cui ha lavorato, il fronte al quale ha lottato, i libri e le materie, diversi gli uni dagli altri, fra i quali si è mossa con rapidità e precisione.

Infine Proust e il suo tempo perduto, sprecato, colto istante per istante fino all’infinitesimalità di una fragranza, ma soprattutto bruciato o ritrovato o interrotto per un conflitto determinante nell’andamento dell’immenso romanzo.

Colgo in queste rapide suggestioni il segno per me ormai opprimente della sospensione, dell’interruzione, del non compiuto, del bisogno di resa, della rinuncia, rinuncia, rinuncia.

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One Response to “Un senso fra le righe”

  1. fabiola scrive:

    E’ bello leggerti e tra le righe ritrovarmi.
    Fabiola

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