Sisifo, la fatica e altre storie
Quel tipo lì, nell’immagine, si chiama Sisifo. Di lui scriveva nel Libro Xi dell’Odissea Omero: «Sísifo pure vidi che pene atroci soffriva / una rupe gigante reggendo con entrambe le braccia. / Ma quando già stava / per superare la cima, allora lo travolgeva una forza violenta / di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe maligna».
A quella fatica senza fine, incessante, da cui pare impossibile sottrarsi, Sisifo fu condannato niente popò di meno che da Zeus, il quale non gradì molto che il figlio di Eolo e di Enarete, per dar da bere agli abitanti di Corinto privi d’acqua, rivelasse a Asopo, dio dei fiumi, che il dio degli dei s’era rapito una ninfa sua figlia. Infuriato per la soffiata in cambio della quale Sisifo aveva ottenuto una fonte, l’onnipotente fece mandare dal fratello Ade, con il compito di catturare e rinchiudere nel Tartaro lo spione, Tanato che noi tutti sappiamo ha a che fare con la morte.
Ma Sisifo lo ubriacò e riuscì a metterlo in catene, così che la morte scomparve dal mondo. Il che fece imbestialire Ares, dio della guerra, perché senza morte lui era disoccupato: che faceva combattere a fare?
Riuscì dunque a liberare Tanato e a imprigionare Sisifo, ma questi non demorse e con un bel po’ di stratagemmi e la complicità della moglie Merope, si prese beffa del volere degli dèi, o meglio, giacché non era questo il suo intendimento, riuscì a sottrarre il proprio destino al loro volere.
Una versione del mito vuole che quel simposio altolocato inviasse Hermes per catturarlo e riportarlo negli Inferi, un’altra che Ade stesso gli avesse consentito di restar per un giorno nel mondo dei vivi, ed egli venne meno al patto sancito con la divinità.
Fatto sta che per essere un essere umano che aveva avuto l’ardire di sfidare gli dei, fu punito con quella inesorabile condanna: spingere ogni giorno un pesante macigno in vetta senza mai riuscire a raggiungere la cima e riprecipitando ogni volta ai piedi della montagna. Come si suol dire a ripartire ogni volta da zero. Col peso che si tratta di una fatica inutile, vana, improba.
Le fatiche di Eracle
La mitologia greca ci fornisce altri significativi esempi di fatiche disumane. Spodestato dal trono da Euristeo per uno di quegli inenarrabili pasticci familiari dinanzi ai quali anche noi odierni “peccatori” impallidiamo, Eracle, diede di balta come molti di cui leggiamo ancor oggi sui giornali: uccise moglie e figli e non concluse la carneficina sbarazzandosi anche di se stesso. Però si pentì amaramente e si ritirò in solitudine, il che, in altre religioni, sarebbe stato un gesto molto apprezzato.
Forse fu la stessa follia, che nel frattempo aveva preso altre pieghe, a portarlo dalla Pizia a chiedere consiglio e a seguire scrupolosamente le prescrizioni dell’Oracolo di Delfi: la visionaria lo indusse, in cambio dell’immortalità, a farsi servitore proprio di Euristeo, eseguendo gli ordini che questi gli avesse imposto. Per dodici anni quello gliene ordinò di cotte e di crude: uccidere l’invulnerabile Leone di Nemea portando la sua pelle come trofeo prima e – contradditio in terminis – l’immortale Idra di Lerna poi; catturare la Cerva di Cerinea prima e il cinghiale di Erimanto poi; ripulire in un giorno le Stalle di Augia, disperdere gli uccelli del lago Stinfalo, catturare il Toro di Creta, rubare le cavalle di Diomede, impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, impadronirsi dei buoi di Gerione, asportare i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi, condurre vivo a Micene Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi. Queste furono le dodici fatiche d’Eracle o d’Ercole come lo chiamavano i romani.
Folle o superfluo che possa apparire, il superamento delle dodici prove viene considerato come il passaggio nelle altrettante tappe di un cammino spirituale.
Il sacrificio di Prometeo
La fatica mitologica che più mi affascina è tuttavia quella di Prometeo. È lui che donò il fuoco agli uomini e si pensa che con questo semplice gesto gli abbia fornito molto più, ovvero la capacità di pensare anche con la propria testa e, insomma, fa da sé. La pagò cara: un’aquila, ogni giorno, gli rodeva il fegato che ricresceva di notte, e cosa significhi rodersi il fegato non ci vuol tanto a spiegarlo.
Il sudore di Adamo
Altra epica fatica, ovviamente, è quella a cui fu condannato Adamo per aver mangiato il frutto proibito: anche qui, al significato erotico più grossolanamente diffuso, si affianca quello del nutrimento alla pianta del sapere che magari ha anche fra le sue tappe il piacere che s’instaura fra uomo e donna. Per lui la pena fu quella del sudore della fronte, del doversi cioè accaparrare con fatica ogni giorno di che vivere – il lavoro –, sentenza che nel corso del tempo ha conosciuto il proprio contrappasso: la maledizione di non averne e di doverlo pietire.
Fatica assurda
Ma vorrei tornare a Sisifo e alla lettura che del suo mito ne ha fatto Albert Camus, il quale nel 1942 vi dedicò un saggio filosofico che si misura con un tema caro a questo blog: il sentimento dell’assurdo. Dinanzi ad esso la domanda è se valga la pena di vivere e la risposta, per quanto malinconica, è sì. Anche di fronte al vuoto esistenziale prodotto dalla constatazione dell’assurdo che indurrebbe al suicidio, dinanzi a una divergenza irrimediabile che squarcia ogni plausibile luce e non lascia spazio alla speranza, la risposta non può che essere assurda: viverla ”in quanto non avrà alcun senso”, quasi come un condannato a morte, senza gli scopi o il pensiero dell’avvenire che caratterizzano l’uomo che non ha ancora incontrato l’assurdo: la pensione, il lavoro dei figli, un amore. Vivere liberi, liberi dal domani, dalla speranza, dagli obiettivi, dagli interessi. Solo il gusto di vivere. L’ora. Il qui. Senza attesa.
Via il transeunte, l’eterno, anche solo il poi. Un approdo, sembrerebbe, quello di Camus, con convergenze inequivocabili con Epicuro o Buddha o, perché no, il Gesù Cristo letto da qualche non irregimentato.
Però, che fatica!
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Infatti: “Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. [...] Vivere è dar vita all’assurdo. Dargli vita è anzitutto sapere guardarlo. Al contrario di Euridice, l’assurdo muore soltanto quando gli si voltano le spalle. Così, una delle posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante. [...] Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto. Il suicidio è l’accettazione del proprio limite.” (A.Camus)