La recensione su “Il Ponte”
Qualche giorno fa sono riuscito a trovare il numero di settembre 2010 della rivista “Il Ponte“, fondata nel 1945 da Piero Calamandrei insieme a Alberto Bertolino, Enzo Enriques Agnoletti, per un breve periodo Vittore Branca, e Corrado Tumiati. Contiene una recensione del mio libro di racconti Sempre più verso Occidente scritta da Paolo Vannini, che ho già avuto modo di pubblicare nel post intitolato La versione di Paolo.
Siccome la trovo molto bella, attenta e forse anche troppo generosa, e mi fa particolarmente piacere che sia uscita su quella rivista, anche per motivi che un giorno forse potrò scrivere più serenamente, la ripropongo per chi non l’avesse letta e avesse voglia di farlo. Anche come promemoria per chi il libro non l’abbia ancora incontrato.
Il libro di Daniele Pugliese, Sempre più verso Occidente, casa editrice Baskerville, è un libro interessante, bello, raffinato, colto, certamente non commerciale proprio perché impegnativo, con contenuti pesanti che però non appesantiscono affatto la forma, la quale è elegante e spesso poetica, con uno stile che ricorda i russi e i tedeschi, citati nel libro, insieme a Borges e Primo Levi, l’autore che più di ogni altro domina il libro, tanto che è come gli fosse idealmente dedicato.
Ora il libro è composto da 10 racconti, ovviamente tutti diversi, ma ci sono alcuni temi ricorrenti, che compaiono cioè in più di un racconto, e però anche, a mio parere, un tema costante, ossia presente costantemente in tutti e dieci. Questo tema è il tema della colpa, rivolta a sé o ad altri. Ovviamente la colpa compare nei diversi racconti in forme diverse ma mantenendo sempre una caratteristica comune che la rende un tipo particolare di colpa. Questa caratteristica è espressa bene dalla frase conclusiva di Specchio retrovisore: «della sua morte mi sento responsabile… benché non lo sia». È questa una frase spia perché ha un valore generale. Tutte le colpe del libro sono infatti così, come questa, consistono in un dare la colpa, a sé o ad altri, benché non ci sia colpa. Si può verificare che tutte le colpe che nel libro vengono attribuite non sono veramente colpe.
Per esempio non è una colpa aver rifiutato il fattore L, esser morto di leucemia, aver perso una parola tra tutte le parole del vocabolario universale, esser desiderata da un centauro, come non è colpa di nessuno se Fausto muore di malattia o una ragazzina per incidente, e così via. Eppure di tutto questo viene sempre, più o meno esplicitamente, incolpato qualcuno. Ora è vero che, anche nella frase che conclude Specchio retrovisore, non compare il termine colpa ma il termine responsabilità, e così è in tutto il libro. Tuttavia, se non c’è mai la parola, a mio parere c’è il senso della colpa, che è proprio il tema costante che attraversa tutto il testo. La protagonista de L’ingrato accusa il marito come se morire di leucemia fosse stata una sua colpa, così come Sandra e il protagonista di Camera di rianimazione si accusano a vicenda attribuendo all’altro la colpa di aver favorito la morte di Fausto, e così via.
Ora se il libro ritorna in modo così insistente sul tema della colpa, ciò significa che colpa dev’esserci e il libro intende rivelarla. E tuttavia appunto tutte le colpe visibili, che appaiono nel libro, sono solo apparenti, sono false colpe, e dunque la vera colpa dev’essere invisibile. E tutte le colpe visibili sono come dei tentativi di dare una forma, di portare alla luce, la vera colpa, invisibile, ma al tempo stesso sono anche maschere che la nascondono.
E allora la prima domanda che il libro pone è a mio parere proprio la domanda: qual è la colpa? Questa domanda in realtà non è formulata esplicitamente in nessuno dei racconti, è una domanda non detta, ma il libro di Pugliese è uno di quei libri nei quali il non detto è altrettanto, e forse più importante, del detto: «Sono tornato perché è rimasto qualcosa di non detto…», dice Walter al capo degli Arunde nel primo racconto. Del resto abbiamo già osservato che il tema della colpa è un tema centrale del libro benché la parola colpa non venga mai detta. Naturalmente non possiamo aspettarci dal libro nemmeno una risposta esplicita a questa domanda, visto che non è posta, esplicitamente, nemmeno la domanda, e tuttavia, a mio parere, sia la domanda sia la risposta ci sono, ma implicite, appunto non dette, eppure del libro costituiscono entrambe un aspetto decisivo.
Tuttavia accantoniamo per adesso la domanda qual è la colpa, che il libro esplicitamente non dice, per affrontare il libro a partire da ciò che esso esplicitamente fa, per poi riprendere quella domanda alla fine, quando, dopo aver attraversato il libro, avremo più elementi per tentare una risposta.
Cosa “fa” dunque il libro? Ecco esso ci introduce direttamente, si direbbe brutalmente, in medias res, ci sbatte subito davanti il tema essenziale del libro, che di esso è anche il filo conduttore. E questo avviene appunto subito con il primo racconto, che è quello fondamentale perché apre e costruisce il contesto, la scena, sulla quale sono poi rappresentati tutti i racconti successivi. E anzi, il tema essenziale ci viene mostrato ancor prima del primo racconto, già nel titolo, sicché esso ci è davanti non appena prendiamo il libro in mano. Questo tema lo chiamerei perdita di amore per la vita, che si potrebbe anche semplificare chiamandolo amore di morte. Se i lemming vanno ad Occidente, secondo l’interpretazione di Walter nel primo racconto, è perché hanno perso l’amore per la vita e lo fanno dunque spinti da amore di morte.
Pertanto è come se ci fosse in ogni uomo, anzi, di più, in ogni vivente, un’unione di opposti, appunto amore di vita e amore di morte. Questo della unità degli opposti, e del carattere contraddittorio di tutto, è un altro dei temi ricorrenti del libro. La vita è come una minestra, come il Talmud, piena di cose contraddittorie, si dice in Ebrei erranti, oppure un pinzimonio dove tutto è nulla, secondo le parole della protagonista di Dal latino, un farmaco che fa bene e insieme contraddittoriamente fa male, come emerge ne La pasticca verde. Ogni vivente dunque è Trachi, è un centauro, non è uno ma due, è composto di due parti, una parte luminosa, amore di vita, e una parte oscura, amore di morte: «esiste nella vita di ognuno un lato oscuro, come fossimo una luna illuminata solo per metà dal sole». Ma c’è sempre l’altra faccia, the dark side of the moon. Ognuno ama la vita ma anche, contraddittoriamente, ama la morte, e noi siamo condannati all’ambiguità e all’incertezza.
È questa una prospettiva che valorizza l’interno e tende a vedere ciò che avviene all’esterno come conseguenza di ciò che avviene all’interno. Amore di vita e amore di morte sono dentro di noi. Si dice a un certo punto: «il nemico è dentro». E poi: «il fallimento viene da dentro e ciò che avviene fuori, quando l’ambito è dentro, diventa insignificante».
Questo dualismo ricorda quello freudiano di Al di là del principio di piacere, il dualismo pulsionale che siamo soliti chiamare Eros e Thanatos, tanto più che, nel libro così come in Freud, non si tratta di due aspetti storici, nati nella storia e nella storia destinati a morire, ma di due impulsi naturali, ossia a-storici ed eterni, per cui in natura, anche a livello cellulare, in ogni cellula, è presente non solo amore di vita ma anche amore di morte.
E tuttavia un altro modo, più adeguato ai contenuti del libro di Pugliese, con cui può essere denominato questo dualismo, e che è suggerito dal titolo stesso, è anche quello di Oriente e Occidente. Ovviamente questi due termini possono essere interpretati dando loro un’infinità di significati, ma prima di tutto Oriente è parola che viene da orior, “nasco”, l’Oriente è la terra dove nasce il sole (sia pure apparentemente) e con esso la luce, e rappresenta perciò la nascita, la luce, e qui corrisponde ad amore di vita. Occidente, invece, da ob e cadere, è la terra dove il sole cade, finisce il giorno, comincia la notte e viene il buio, rappresenta perciò la caduta, la fine, il buio, e corrisponde ad amore di morte.
Il titolo però ci informa che in questa polarità, tra Occidente ed Oriente, esiste uno sbilanciamento, per cui c’è una tendenza ad andare sempre più verso Occidente. Sempre più verso Occidente è un titolo intenso, nel senso che esso, nella sua brevità, contiene un’intera filosofia, ossia una lettura del mondo contemporaneo e il tentativo di portare alla luce la tendenza fondamentale del nostro tempo. Il nostro tempo è il tempo della globalizzazione, che in effetti porta il mondo sempre più verso Occidente. La globalizzazione è l’Occidente capitalistico che tende, anzi pretende di diventare l’intero mondo, suscitando la prevedibile reazione, per esempio, dell’Islam. E così, come i Lemming, l’umanità compie sempre più grandi migrazioni di massa verso Occidente.
Ma è noto che sulla parola e sul concetto di Occidente ha giocato molto Heidegger. L’Occidente è Abendland, la terra della sera, la terra del tramonto. E allora Sempre più verso Occidente significa che l’umanità sta andando sempre più verso il tramonto. Certo il movimento verso Occidente, sia dei Lemming come dell’umanità, apparentemente sembra avere come fine la sopravvivenza, la salvezza, guidato da amore di vita. Ma Walter insinua il sospetto che dietro questo movimento ci sia invece la regia di amore di morte e che il fine non sia la sopravvivenza ma un suicidio. Non c’è dubbio che oggi per noi sia abbastanza evidente che andare sempre più verso Occidente possa significare adottare stili di vita, a appropriarsi di armamenti, che possono portare a un suicidio dell’umanità, nella forma di una catastrofe ecologica, per quanto riguarda gli stili di vita, e di una catastrofe nucleare, per quanto riguarda gli armamenti.
Non a caso proprio il tema del suicidio è uno dei temi più ricorrenti del libro.
E allora il filo conduttore del testo ci guida verso una lettura del nostro tempo, ma direi più in generale dell’esistenza stessa, di tipo pessimistico, nihilistico. Perdita di amore per la vita vuol dire che nulla ha più valore, è la perdita di senso, e il mondo è un deserto fatto di nulla, come si dice nel racconto di Trachi, è la depressione, il decadentismo esistenziale a cui si allude in Specchio retrovisore: una parola questa, decadentismo, nella quale è presente lo stesso termine cadutache si trova anche nella parola Occidente. La vita appare così come quel buco, quel sentirsi inutili, quell’annegare in un mare d’inutilità di cui parla Anna nel primo racconto, è l’incapacità di far durare i rapporti affettivi, altro tema ricorrente. È il senso del fallimento, il sentire di essere d’argilla, presente in Nemmeno fermare su questo pensiero. È quel torrione de La pasticca verde, che è il neo che impedisce di godere la vita perché ricorda sempre che nulla dura, e quindi rappresenta la precarietà e la nullità di tutto, di fronte alla quale il suicidio può davvero apparire come il rimedio autentico.
Certamente, prima del suicidio, l’uomo tenta di difendersi dal pensiero della nullità e della tragicità della vita, e dal sentimento di angoscia che esso suscita, con altri rimedi, con i quali cerca di sopportare la vita e di convincersi che essa valga la pena di essere vissuta. Ma in realtà questi rimedi sono tutte droghe, illusioni, e perciò impotenti. Sono tentativi temporanei di sfuggire al vuoto, dopo i quali, inevitabilmente, torna sempre il vuoto. Rientrano fra questi rimedi apparenti, e quindi falsi, lo stesso fattore L, la pasticca verde e il fumo. Proprio il fumo è un altro dei temi ricorrenti del libro, e si potrebbe dire con Epicuro che rappresenta uno dei mezzi sbagliati per raggiungere un fine giusto. Giusto è porsi il fine del piacere ma sbagliato è il fumo come mezzo per raggiungerlo perché toglie la salute e alla lunga non dà piacere ma dolore, affrettando la morte come nel caso di Fausto.
Dunque è chiara la tendenza di fondo del libro: andare sempre più verso Occidente vuol dire che l’umanità vuole il tramonto, il suicidio, vuole il nulla. La tendenza di fondo del nostro tempo è il nihilismo, la volontà del nulla.
E tuttavia, se questo, nihilistico, pessimistico, è il filo conduttore del libro, che, come uno specchio, rispecchia e quindi rivela la tendenza fondamentale del nostro tempo, ossia andare sempre più verso Occidente cioè verso il tramonto, questa non è l’unica tendenza. Se lo fosse il libro sarebbe chiuso, prigioniero di questo soffocante pessimismo, e il suicidio dell’umanità apparirebbe alla lunga davvero inevitabile. Ma il libro non si esaurisce qui, e anzi esso è aperto proprio perché, se mostra una tendenza, guidata da amore di morte, mostra anche una controtendenza, guidata dal suo antagonista, amore di vita, la quale rimette in discussione la partita e la mantiene aperta, non dando affatto per scontato il risultato.
E allora nel libro c’è la tendenza, andare sempre più verso Occidente, e questo è ciò che subito, fin dal titolo, è detto, ma c’è anche la controtendenza, che resiste a questo movimento e invece orienta, cioè volge verso Oriente, e questo è ciò che non è detto. Il libro dice Sempre più verso Occidente, non dice verso Oriente. Anzi la parola Oriente nel libro non viene mai detta. Ma, di nuovo, nel libro ciò che non è detto è altrettanto importante di ciò che è detto. Proprio l’Oriente e il movimento verso Oriente che, non essendo detti, stanno nell’invisibile, sono componente decisiva del libro il cui senso di fondo, se non si ha occhi capaci di vedere questi aspetti, sfugge. Anche perché è proprio la controtendenza che consiste nell’andare verso Oriente che proibisce di etichettare semplicemente il libro sotto le voci nihilismo e pessimismo. Va detto in modo esplicito: questo libro non è un libro semplicemente pessimistico o nihilistico, né sì può vedere nel solo sentimento dell’angoscia la cifra che lo esaurisce. Leggerlo così sarebbe leggerlo in modo riduttivo, sarebbe individuare una parte e trasformarla nel tutto, là dove invece il libro è assai più ricco e complesso.
Qual è dunque questa controtendenza, che si contrappone alla tendenza come il positivo al negativo? Essa si manifesta in più luoghi del libro, in modi diversi, ma potrebbe essere rappresentata con un’unica immagine: una Bic.
La Bic, di cui si parla in conclusione di Ebrei erranti, è una penna, che rappresenta però la speranza, la speranza di pace tra israeliani e palestinesi ma, per estensione, tra ogni nemico. La Bic rappresenta la parola, non la parola falsa o vuota e nemmeno la totalità delle parole della biblioteca universale, ma la parola vera, la parola che tocca, che crea un contatto, una relazione autentica, la parola che trasforma, la parola potente. Un freudiano potrebbe osservare che la penna è per Freud simbolo fallico, di potenza. È questa la parola che unisce, che stabilisce un dialogo, la parola che salva, la parola creativa, capace di generare, per esempio quel figlio alto dell’amore che è il perdono, verso la propria ex moglie o verso ogni nemico, come accade al protagonista di Ebrei erranti. Ecco si tratta di capire che in questo luogo del libro, armati non di un fucile ma di una Bic, ci troviamo in cammino verso Oriente (scherzosamente si potrebbe dire Medioriente), perché qui nasce il sole, la luce, di qualcosa di nuovo. Cos’è un nemico? Si potrebbe forse dire che nemico è colui nel rapporto col quale manca la parola.
Ma, oltre ad Ebrei erranti, un altro luogo in cui si manifesta la controtendenza è il racconto Nemmeno fermare su questo pensiero. Il protagonista è lì, nella casa di campagna della ex moglie, per suicidarsi, ma scrivere, e leggere, cioè lavorare con la parola, produce una trasformazione. La parola non è più un mezzo per scrivere la propria morte ma diventa un mezzo per scrivere il libro della propria vita. Amore di morte, grazie alla potenza della parola, diventa amore di vita. La parola vera, che consiste prima di tutto nel dire la verità a se stessi, cioè la parola che è dialogo, con sé e con l’altro, è potente perché consente di elaborare, cioè di lavorare, su un proprio tema fino a trasformarlo. Anche in questo racconto dunque il viaggio verso Occidente subisce una drastica inversione di rotta verso Oriente. Il protagonista voleva il suicidio e ottiene invece alla fine una rinascita.
Un terzo luogo nel quale si manifesta la controtendenza è il racconto Alla ricerca di Trachi, alla fine, con l’abbraccio di Silvia e Alberto, dove di nuovo la parola, il nome di lei, suona «come una eco capace di confermare l’esistenza del mondo in un deserto fatto di nulla», e dove l’abbraccio avviene mentre sorge il suono dolcissimo della parola della canzone meravigliosa cantata da Trachi.
Un quarto luogo è infine la luce del leggero sorriso sulle labbra di Fausto, quel sorriso ambiguo mezzo triste e mezzo sereno, e lo splendore del bianco dei suoi capelli, un sorriso ed un biancore che rivelano l’umanità di una condizione di vita in cui è più semplice accettare le vicende umane, una saggezza che sa accogliere la vita nella sua totalità, amore di vita ed amore di morte, Oriente ed Occidente, e che rappresenta, di Fausto, la più importante eredità.
Ecco a questa luce, al chiarore della luce del sole che sorge ad Oriente in più luoghi del libro, è possibile forse illuminare, chiarire, ciò che all’inizio restava invisibile, nell’ombra. Torno dunque al principio, alla domanda d’inizio che avevo temporaneamente accantonato: qual è la colpa? L’impressione è che non si riesca a vedere la vera colpa, invisibile, che sta dietro ogni falsa colpa, visibile, non tanto perché essa sia troppo nascosta o troppo lontana, ma, al contrario, proprio perché è troppo evidente e troppo vicina. La colpa, leggendo il libro, è proprio ciò che ci è massimamente davanti, ciò che è più visibile, che non vediamo proprio perché ci è troppo vicina fin dall’inizio, fin dal primo racconto, anzi fin dal titolo, così come non vediamo più un quadro se lo poniamo troppo vicino ai nostri occhi. Nel libro la colpa, nel momento stesso in cui si rivela, si nasconde. Ossia l’impressione è che il libro, sia pure senza dirlo, di nuovo comunicando il messaggio attraverso il non detto, voglia dirci che la colpa oggi è proprio andare sempre più verso Occidente, cioè contribuire, anche con i nostri semplici e piccoli comportamenti quotidiani, al suicidio dell’umanità, farsi complici del cammino verso il nulla, e, arroccandoci sempre di più verso Occidente, perdere amore per la parola che unisce e fa dialogo, negando questa parola all’altro, al diverso, a chi viene da un altro luogo, magari trasformandolo in un nemico, e facendoci servi di amore di morte. Questa colpa è oggi follia come quella del protagonista di Amore in buca, che, mosso apparentemente da amore, con il suo delirio va sempre di più verso Occidente, ossia verso il suicidio, verso l’annullamento di sé.
Ma questo libro di pensiero e di poesia non ha nell’annullamento la sua ultima parola. Anche la frase Sempre più verso Occidente è stata scritta, originariamente, (orior, Oriente), da una penna, e ancor prima dell’angoscia e della volontà del nulla, evocati dalla frase, si trova la speranza di quella Bic. In fondo andando sempre più verso Occidente ci ritroviamo inevitabilmente, alla fine, ad Oriente, e lo spettacolo di ogni tramonto, ad Occidente, è sempre seguito, ad Oriente, dallo spettacolo di una nuova alba.
Paolo Vannini
Tags: Corrado Tumiati, Enzo Enriques Agnoletti, Paolo Vannini, Piero Calamandrei, Vittore Branca
Hai fatto bene a pubblicare questa recensione. Fa venire ancor di più la voglia di leggere il tuo libro. Un libro, da quanto mi è dato di capire, che va giù (come dico io) di coltello dentro a sè stessi. Sai quei coltelli affilati che scarnificano sino all’osso? I disossatori, li chiamo, del proprio Io.
Ancora non mi è stato possibile “aggiudicarmelo”. In certe situazioni, ahimè, l’acquisto di un libro, è un lusso! L’ho comunque in lista.
Sì, conosco “certe situazioni”. Per cui grazie due volte.
Gentile Daniele Pugliese,
mi ha colpito ritrovarla per caso su internet eppoi accanto al Prof. Mennonna, due persone che sembrerebbero distanti e con cui negli anni passati e molto passati ho avuto occasione di fugaci quanto gentili incontri restati soltanto nella mia memoria; ho letto quindi oltre che con interesse anche con curiosità commenti e recensioni riguardo al suo ” Sempre più verso Occidente” e, come succede, mi è venuta una gran voglia di leggerlo, ma non riesco a trovarlo e qui a Prato, dove adesso vivo, mi sono rivolta alla libreria Feltrinelli: un ottimo ragazzo si è prodigato telefonando anche alla casa editrice, ma niente da fare.
Può aiutarmi dicendomi come potrei acquistarlo?
La ringrazio e le auguro molte buone cose per il futuro.
Luisa Croce