Faber fortunae suae
La fortuna è un dono. O ce l’hai o non ce l’hai. Sì, certo, faber fortunae suae. Ognuno lo è e risponde di quel che fa. Nel bene e nel male ed anche al di là di entrambi, se se la sente. Ma un pizzico di culo non guasta: pardon, madame! Io di fortuna ne ho avuta a pacchi, a bizzeffe, a chili. Ho avuto anche le mie sfortune e pure qualche sfiga (pardon, madame!), ma se tiro una riga non vedo cifre in rosso, se non quelle che mi attendono per volere d’un giudice e per rabbia d’una donna. Va be’. Per esempio ho avuto la fortuna di lavorare in tre redazioni dove la maggior parte dei presenti non erano dei cretini e neanche delle iene e neppure delle vipere. Anche ora è così. Ne vado fiero.
Raccontare – Maurizio Maggiani ne Le parole e il silenzio di Paolo Ciampi e Massimo Orlandi
Quindi, nel 2000, l’anno che ci ha regalato un nuovo millennio e la dilazione dell’apocalisse, quando sono arrivato all’ufficio stampa della Giunta regionale toscana, ho trovato molta brava gente, professionisti seri, per la maggior parte anche con un buon carattere. Non che non abbiano i loro difetti, ma nessuno è perfetto, io certo meno di loro. Fra questi, e senza toglier nulla agli altri, Paolo Ciampi e Massimo Orlandi. Entrambi hanno rispettabilissimi orizzonti spirituali dai quali son rispettabilissimamente lontano, passione per le letture e per le lettere, qualcos’altro che certamente ci porterà, prima o poi, in un pub o sulla vetta d’una montagna o anche solo su un prato. Insieme, tralasciando il resto che hanno fatto ensemble o riservatamente, nel 2009, hanno pubblicato un libro per conto della Fondazione Giuseppe e Adele Baracchi – non vi starò a spiegare ora cos’è, se avete voglia andatevela a vedere a questo link www.fondazionebaracchi.it – e per i tipi della casa editrice Romena, ameno paesino del Pratomagno munito d’un invidiabile pieve celebrata dall’Alighieri, dove molti anni orsono sono stato insignito d’un premio letterario/giornalistico per un articolo che faceva scompisciare dalle risate. Credo. Be’, insomma, per farla breve, Paolino e Massimino, prendono Francesco Sartori, Luigi Ripamonti, Vittorino Andreoli, Maurizio Maggiani, Pier Luigi Vigna, Carol Beebe Tarantelli, Tito Barbini, Wolfgang Fasser, Elena Tuccitto, li spolpano ben bene ma con il garbo che né Michele Santoro né Augusto Minzolini hanno il dono d’avere. Li intervistano, li fanno parlare e assemblano il tutto in 190 pagine formato 19 x 12,5 a cui danno titolo Le parole e il silenzio.
Nei giorni scorsi Massimo – al quale recentemente ho chiesto laicamente perdono, per una di quelle cose che avendo responsabilità si devono fare ma si farebbe volentieri a meno di farle, e stavolta davvero l’ho fatta di fuori –, mi ha messo in contatto con Maurizio Maggiani, del quale, confesso, non ho letto nulla e vedrò quanto prima di rifarmi, il quale oltre che generoso è stato illuminante. E gliene sono grato.
Avendo scoperto in un colpo solo due belle cose, il libro di Massimo Orlandi e Paolo Ciampi, e Maurizio Maggiani, faber fortunae meae, pubblico, per gentile concessione dell’autore, nel mio blog il capitolo di Le parole e il silenzio in cui parla Maggiani, significativamente intitolate Raccontare.
Raccontare
Il dono della parola
Maurizio Maggiani. Nato a Castelnuovo Magra nel 1951 è diventato scrittore dopo aver svolto decine di professioni, da maestro carcerario a operatore cinematografico, da costruttore di pompe idrauliche a impiegato comunale. Con Il coraggio del pettirosso (1995) ha vinto il premio Viareggio e il premio Campiello, con la Regina disadorna (1998) il premio Alassio e il premio Stresa di narrativa, con Il viaggiatore notturno (2005) il premio Strega e il premio Ernest Hemingway. Ha sempre vissuto nella regione in cui è nato, la Liguria, ma intimamente si sente apolide, un cittadino del mondo.
Villa La Mausolea, Soci, 20 settembre 2008
Ci si starebbe, per ore, ad ascoltarlo. Magia dei racconti, certo, ma i racconti non bastano se non c’è chi li porta, chi li sa offrire.
Maurizio Maggiani è come un cuoco sapiente. Conosce ingredienti, tempi e ritmi di cottura. Parole, nel forno. Parole che evocano stagioni, vite, ricordi.
Una sua storia si intitola “Farsi un fuoco”. Il racconto riscalda, non solo, crea intimità, mette in comunicazione persone, mondi, epoche diverse.
Parlaci di te, gli chiediamo, in apertura di incontro. E lui parte, fila dritto con quel ritmo regolare, suadente, con quella voce calda, con il suo sguardo abbassato, come se non contasse sapere da dove vengono le parole, ma solo seguirle, andargli dietro. Le nostre domande hanno solo il senso di provocarlo affinché il racconto continui. A volte servono, a volte cozzano contro il suo spirito anarchico. Potessimo, le elimineremmo del tutto.
Maggiani ha vinto tutti i principali premi letterari italiani, ma la sua forma di letteratura più bella è questo incedere nei ricordi, è in questa sequenza di persone, di immagini, di intuizioni una sull’altra, una accanto all’altra, in un ordito ricco di immagini, ma con un filo che non si perde mai.
Ma di tutto quello che ci dice, gli chiediamo, dov’è il confine tra realtà e immaginazione? Le due categorie, spiega, si confondono, si contagiano. Neppure contano. Quand’era bambino, nella sua casa contadina, le ha viste contaminarsi nel sonno: lui che stava sveglio fino a tardi per ascoltare i racconti di casa, poi quei racconti se li portava a letto. Al mattino si erano fatti tutt’uno. Della stessa sostanza è ciò che vive. L’arte del racconto è anche questo: è la capacità di far vivere con le parole sia ciò che è stato che ciò che poteva essere.
Riccardo Goretti, attore, ci offre nell’incontro anche le parole che Maggiani ha scritto, estratte da alcuni dei suoi lavori, Il coraggio del pettirosso, È stata una vertigine, Il viaggiatore notturno.
“È bello ascoltarle – è il commento dello scrittore – anche perché io non rileggo mai quello che scrivo”. Scrivere, per lui, in fondo, è come raccontare: la parola si affida al vento, ha fiducia di farsi portare. Non conta che arrivi, conta che vada, lasciando una scia, un profumo, una traccia. Il segno del suo fluire.
Oggi cercheremo di scandagliare un verbo ricco di implicazioni per la nostra vita di tutti i giorni, anche se a volte non ne afferriamo tutta la rilevanza. O peggio: spesso pensiamo che esso si riferisca solo a un’attività specifica, da addetti ai lavori.
Raccontare: questo è il verbo cui oggi cercheremo di agganciare le nostre parole.
Riflettendo, per esempio, sul fatto che il raccontare non è esclusiva della letteratura, della cultura con la maiuscola, che il raccontare può essere – e spesso lo è – esercizio popolare, attività condivisa, a volte improvvisata. E che è bello, nonché utile, interrogarsi su questa strada, e chiedersi, per esempio, da dove nascono le storie, a chi si rivolgono, come si tramandano.
Pensiamo alle nostre tradizioni, alle veglie davanti al focolare, alle ottave lanciate nei giorni di mercato o di festa…
Ma raccontare è molte altre cose. Senza racconto non c’è ricordo, non c’è questo dono che passa di generazione in generazione e che rende così preziosi i nostri nonni, autentici depositi viventi di passato a cui rivolgersi come per fare un bancomat che ci restituisca radici, identità. E anche la memoria degli orrori che hanno segnato la nostra storia.
Orrori che hanno bisogno di voci, di testimonianze, di parole da consegnare di persona in persona, così come un tempo si faceva con i secchi di acqua in caso di incendio, passandoli di mano in mano.
Raccontare è anche uno dei migliori modi per entrare in relazione con l’altro: anzi; forse non esiste vera relazione senza questo aprirsi e porgere un racconto di se stesso.
Ognuno di noi, raccontando, si racconta, di svela e allo stesso tempo condivide. E raccontando diventa più consapevole di se se stesso, dei propri limiti, delle proprie possibilità di crescere, di andare oltre, di essere altro.
Insomma, tutto questo è raccontare. Tutto questo è il dono della parola.
IL PIACERE DELL’ASCOLTO
• “Anch’io ho una vita o per lo meno ne ho avuta una. Poco interessante che sia ha pur significato qualcosa”. Sono parole estratte dal Coraggio del pettirosso, il libro con cui ti sei avvicinato al grande pubblico. Trasferiamo questa frase dal protagonista del libro al suo autore. Chi è Maurizio Maggiani? Che cosa ha significato, sin qui la tua vita?
Buonasera, sono Maurizio Maggiani, un uomo che è nato 57 anni fa. Credo che la mia umanità consista nell’aver preso ad andare, ad andare per la strada già da piccolo, continuando ad andare.
Non sono nient’altro che un uomo molto curioso e molto fortunato. Sapete, la curiosità a volte è ingiustamente punita dalle circostanze, ma sono molto fortunato, perché sono qui dopo tanto tempo.
Molto curioso, dicevo, e con un difetto che mi ha giovato tantissimo: sono nato con un difetto alla vista congenito, per cui ci vedo molto poco. Vedendoci molto poco, avendo anche problemi particolari per cui non riesco a vedere bene gli oggetti in veloce movimento, da sempre mi avvicino molto alle cose. Così, nella mia vita, ho conosciuto molto, incontrato molto e molti perché sto sempre molto vicino alle cose. La mia vista è più tattile, come potete notare, più olfattiva che semplicemente visiva.
Vado piano perché molti incidenti della mia vita mi hanno indotto ad andare piano. Vado piano perché ho imparato molto presto che andando piano si vedono molte più cose, si incontrano molte più cose e persone, si sanno molte più cose che andando velocemente.
L’universo che c’è e che incontri, per esempio percorrendo in salita il passo che conduce sin qui, può bastare per tenerti pieno di cose per giorni, ma il tesoro di quell’universo lo puoi percepire solo andando molto piano.
Sono un uomo molto fortunato, che ha avuto una vita molto ricca partendo molto in basso in graduatoria, come si dice. Sono nato in un piccolo paese molto povero, da una famiglia di contadini miserabili, di contadini senza terre. E non saprei come ringraziare se non vivendo tutto ciò che mi è stato fatto incontrare.
Non sono uno scrittore, francamente non credo di esserlo, ne parlavo stamattina con un sacerdote e dicevo che francamente non so nemmeno se credo in Dio. E questo non lo trovo nemmeno interessante, perché non è una domanda interessante, se io credo in Dio, semmai la domanda interessante da fare è se Dio crede in me.
Se Dio crede in me, se mi riconosce, se mi vede, allora un giorno mi fermerà, un giorno mi chiamerà.
È il giorno in cui si dice che aprirà il libro e dirà: “Mi ricordo di Maurizio Maggiani, fu Dino e fu Adorna Venturini, nato a Castelnuovo, vediamo un po’…”
Quel giorno lì non mi chiederà quanti libri ho scritto, quante copie ho venduto, non mi chiederà come erano le pompe idrauliche che andavo a vendere in giro, non mi chiederà se le fotografie che facevo erano belle o brutte. Mi chiederà cosa ho costruito, cosa ho fatto della mia vita.
E allora, quanta vita ho fatto con la mia vita? Quanta felicità ho prodotto con la mia felicità? Quanta speranza ho messo al mondo con la mia speranza? Quanta gioia ho creato con la mia gioia? Ho dato vita, ho fatto vita, ho costruito vita intorno a me?
Perché è di questo che Dio si occupa, esclusivamente della vita. Magari gli risponderò: “Un po’ sì , qualcosina nel 1975, nel 1994 e nel 2008”. E lui dirà “sì, mi ricordo” e segnerà.
Forse mi andrà bene o forse no, ma se ho un lavoro, se penso di avere un lavoro, qual è il mio lavoro di uomo?
Il mio lavoro di uomo è avere abbastanza anima per rendere giustizia alla vita che mi è stata data, per saperla lavorare e per crearne altra. Sono qui per costruire la vita.
• Qual è l’impronta più forte, più decisa che hai ereditato dalle tue radici contadine.
Sono cresciuto in una famiglia, in un paese e tra gente che ha sempre pensato alla propria signorilità, gente orgogliosa, fiera, che ha sempre pensato alla propria regalità
Regalità che portavano nella strada, nella vita. Eleganza di veri signori. Signorilità che veniva dal lavoro, nonostante fosse un lavoro duro, pesante, sfinente. Ma era gente che sapeva fare bene ciò che faceva e da questo ne ricavava orgoglio e credeva che in questo risiedesse la bellezza. La bellezza delle cose, di chi le cose le sa far bene.
• La bellezza, per chi nasce e cresce in campagna è anche legata all’ambiente, al paesaggio. È una bellezza che resta dentro, no?
Oggi, quando sono venuto da Firenze, prima del passo, ho detto a chi mi accompagnava: “Ma guarda, che bello, fermiamoci un po’”. E dov’era la bellezza? Era nelle proporzioni del paesaggio, nelle misure, nell’opera che l’uomo ha messo in quel paesaggio. Ciò che mi colpisce non è la bellezza in assoluto, ma quell’ordine interiore, quella domesticità che definisce l’orizzonte di un paesaggio, lo racchiude, lo circoscrive, lo delimita, lo disegna, lo ridisegna, lo scompone, lo ricompone.
Ho delle difficoltà a percepire la natura in quanto tale, come tutti i contadini al cospetto di una natura, diciamo incontaminata. Prendete per esempio mio zio Berto, portatelo sul Monviso che con un dito si tocca il cielo: lì, in quello splendido gioco di montagne alpine, mio zio rimane interdetto, semmai cerca di vagare con lo sguardo finché non trova un pezzo di terra che andrebbe bene per un pascolo, per poterci lavorare.
Il contadino delimita. Magari è un torto, un difetto un’ignoranza, ma il contadino di fronte alla natura incontaminata si ritrae o avanza. E avanza se pensa di poterci mettere mano. La natura non esiste di per sé se non come un pericolo, uno scuro di là dal filare di pioppi, di là dall’aratro con cui lui interviene e crea.
• Hai raccontato che il primo giorno di vita tuo nonno ti ha preso e ti ha portato nell’orto e laggiù in fondo c’era il mare: terra e mare, la terra dove sei cresciuto, e il mare davanti. Come si sono combinate in te queste pulsioni?
Io sono nato in un paese, Castelnuovo di Magra in linea d’aria a un chilometro dal mare, Versilia estrema, verso Bocca di Magra. Però mio nonno non è mai stato al mare, mai. Lavorava la terra, ma non si spingeva verso la riva. Al mare semmai andava a fare le canne perché il nostro mare è sempre stato separato dalla terra da una barriera molto folta di canne, come è ovvio, perché i venti meridionali non portassero sabbia nei coltivi.
Queste canne servono ai contadini, le prendono per legare i pomodori e le viti… però non ci spingeva mai oltre le canne. Quando la modernista della famiglia, la rivoluzionaria, quella che ci ha introdotto tutti nella modernità del Novecento, ovvero mia zia Carla, costrinse mio nonno a venire con noi al mare, sulla sabbia, sulla spiaggia, lui si mise davanti al mare e lo scrutò.
A cosa serve il mare per un contadino? L’acqua non la puoi bere, non la puoi dare nei campi, serve a una cosa che lo turba e lo rattrista, serve ad andare via. Il mare per un contadino è andare via.
La morte di un contadino è legata alla sua terra ed è un difetto anche questo. Vi sto parlando di me adesso. C’è un paese vicino a dove sono nato io che adesso è un paese ricchissimo, bellissimo, pieno di turismo raffinatissimo. Si chiama Montemarcello, è un posto meraviglioso sul mare, ma in quel posto meraviglioso fino agli anni Cinquanta non c’era abbastanza terra per viverci, la gente non ci viveva e allora da lì andavano a navigare, andavano per mare. Noi li vedevamo come reietti, miserabili, diseredati.
Mia zia mi aveva insegnato un ritornello per sbeffeggiare le donne di Montemarcello: “A Montemarcello la grande gabbia di grandi osei”, perché gli uomini erano tutti via e i marinai, guardate che io parlo di una terra di mare, vanno in esilio. La meraviglia dell’orizzonte marino, che può essere a trecentosessanta gradi, è una cosa che sconvolge il contadino.
Il contadino pone i filari per delimitare, racchiudere, per confortarsi per sentirsi al riparo.
Io sono questi due uomini insieme; un uomo che si è messo per strada e si è messo a camminare e non si è ancora fermato, e il figlio di contadini.
Sono per strada ma sono legato al luogo dove sono nato, penso che il dovere della mia vita sia tenere la mia terra in ordine, tenere a posto la mia vita, lavorare, saper lavorare.
• Prima di diventare scrittore hai fatto tanti mestieri, anche molto diversi. C’è un filo che unisce tante esperienze e tanti modi diversi di esprimersi attraverso il lavoro?
Mio padre, operaio, non è mai stato sotto padrone, come non ci sono stato io se non per un breve periodo che è stato il peggiore. Faceva i preventivi con la matita, con un foglio di quaderno e ci scriveva in fondo “tutto a regola d’arte”. Questo è il lavoro, questa è la bellezza che porta in sé il lavoro: il saper fare, il poter fare, l’aver fatto tutto a regola d’arte.
Per mantenere la mia famiglia, anche piuttosto allargata, per mantenere me stesso, ho fatto diversi lavori. Sono nato nel 1951 e nel 1968 avevo diciassette anni ed ero in pieno fulgore rivoluzionario. Era un’epoca in cui il lavoro c’era, più di oggi sicuramente, in cui l’idea della precarietà era un’idea molto più creativa di oggi.
Non avevo l’idea di un posto fisso, non l’ho avuta se non quando ho rischiato di rimanere senza una gamba e allora mi sono posto il problema: ho mantenuto un posto fisso per quattro anni poi son venuto via.
Era un’epoca molto più fortunata di questa. La fortuna della mia vita è stata aver fatto molti lavori, e fare quel che mi piaceva fare.
Il lavoro che mi è piaciuto più di tutti è stato il maestro di scuola, ho insegnato per molti anni. Insegnavo, poi facevo un’altra cosa, poi tornavo a insegnare. Ho fatto anche il fotografo industriale, il produttore televisivo, ho venduto le pompe idrauliche, con un brevetto falso per altro. Lavori un po’ border line, però funzionavano.
Ho fatto mille cose e a un certo punto per pura coincidenza sono diventato un romanziere. Se io dovessi dire che ho avuto, come la chiamate voi che siete del ramo, la vocazione, direi nemmeno morto.
Finché non ho scritto il mio primo romanzo l’idea di saperlo fare non ce l’avevo. A scuola ho avuto una carriera tra il 4/5 e il 5/6 in italiano, con giudizio: troppe idee e confuse.
• Parlando di te involontariamente hai aperto le porte al nostro tema: raccontare. È un piacere ascoltare qualcuno, come te, che racconta. Si starebbe per ore a sentirti, mentre racconti.
Il piacere dell’ascolto è direttamente relazionato al piacere del narrare: e questa deve essere una cosa chiara a tutti voi e a me in qualunque occasione.
A parte la scenografia studiata apposta per dare l’idea che io sia un po’ più sopra a voi, qui le cose funzionano solo ed esclusivamente se in qualche modo fra noi e voi si stabilisce una relazione di complicità, una relazione, anche minima, anche microscopica, di amicizia.
Fino a un’ora fa voi non sapevate nemmeno come ero fatto, ora è possibile che tra noi si stabilisca una piccola relazione di amicizia, complicità, fraternità: io e voi, perché se non ci siete voi io non ci sarò mai e se non ci sono io ovviamente non ci siete voi, è inutile che siate qua, cosa siete venuti a fare?
Questa è una cosa che appartiene a me e a voi insieme: il piacere di stare qua è misurabile nel grado di complicità che sappiamo costruire. Qui non c’è il cinema, non ci sono due squadre di calcio che disputano una partita di campionato, qui non c’è nemmeno una spogliarellista che fa un numero straordinario. Qui ci sono parole, solo parole, la roba più antica, più semplice, più usata, meno moderna o meno contemporanea: eppure funziona. Funziona solo se gli autori di questa sera, di questa conferenza siamo noi. Se voi non foste un po’ complici, chi ve lo farebbe fare di darmi retta?
VOCE E PASSIONE
Lo diceva Victor Hugo: «Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora».
Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.
Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.
Eppure, cosa si sa davvero di Omero? Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.
Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?
Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia. Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.
Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.
Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere.
È bello perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.
Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.
• Ciascuno di noi è un po’ Omero, ciascuno ha, in sé, il dono di raccontare e di tramandare con le parole ciò che è stato, e ciò che ha visto…
Sono legato alla questione di Omero e credo che Omero sia un altro. Per me è importante, se non fosse così vacillerei. Omero a Troia c’era, non so se era fuori o dentro le mura, se stava con quelli che sono andati là a riprendersi Elena o quelli che stavano dentro, ma c’era.
Voi avete mai visto una vista aerea degli scavi di Troia? Se l’avete vista non potete non notare che è una robetta così, qualunque scavo etrusco qui è più grande degli scavi di Troia. Troia non era Cartagine, non era Efeso, non era Smirne, non era Babilonia, non era Corinto. Troia era una piccola città, una delle centinaia di piccole città sparse in tutto il Mediterraneo e l’Asia Minore.
Se noi dovessimo rendere, da un punto di vista squisitamente giornalistico, l’episodio della guerra di Troia, inseriremmo forse una riga in una storia di diverse decine di volumi dei conflitti mediterranei perché è un conflitto che se lo confrontiamo alle relazioni aggressive tra Grecia e Persia o tra Roma e il resto del mondo… insomma è solo una delle centinaia, migliaia di piccole guerre che si sono combattute, in quello che noi chiamiamo con cinismo, il mare di pace: e dove la pace non si è mai vista, nemmeno un giorno.
Troia era una piccola città, la sua era una delle tante guerre. E poi Patroclo, Achille, Ettore… pensateci, a quegli uomini che noi riteniamo i più belli, i più coraggiosi, i più generosi, i più fieri… secondo voi quante migliaia, quanti milioni di giovani senza un nome sono morti nelle migliaia di guerre che si sono combattute fino a oggi e magari erano altrettanto belli e coraggiosi? Quanti?
Chi ci dice che Ettore fosse più buono, più coscienzioso di John, che è morto con la divisione Buffalo a Porretta Terme? E pensiamo davvero che Elena fosse davvero la più bella del mondo? Le donne più belle del mondo sono milioni, ognuno di noi conosce la donna più bella del mondo, forse ogni paese ha la donna più bella del mondo, ogni città, ogni cultura.
Ma a Troia è successa una cosa là che non è successa altrove, là c’era uno che ha vissuto quella guerra. E chi vive quella guerra, ogni guerra, non pensate che possa dire: “Sono qui che mi sto vivendo la mia piccola guerra”. Ovviamente anche se vive in una piccola città la sua città è la più bella del mondo. E la sua guerra è la più tragica, ovvio che sia così.
Chiunque viva una situazione così drammatica non può che pensare che sia la più drammatica. E se ti muore tuo figlio o il tuo amico è certo l’uomo più coraggioso, più bello, più generoso, più fiero che tu abbia mai conosciuto. Chi se non colui che ti muore fra le braccia è il più forte, il più bello?
Allora a Troia c’era un uomo che di quello che ha visto si è fatta una passione. Era un uomo che aveva voce e una passione. Poi se n’è andato via di lì o per tornare a casa o per scappare. Se n’è andato via di lì e ha cominciato a cantare alla gente e dire: “Lo sapete cosa ho visto, lo sapete cosa è successo?” e la gente: “No, cosa?” E lui: “Una tragedia, ho visto morire tanti di quegli uomini” E ancora la gente: “Ma dove vieni?”. E lui: “Da Troia… come non conoscete Troia? È la città più bella, abbiamo le torri tutte d’oro, le mura non riuscivano a sfondarle nemmeno gli alieni, eppure è successo di tutto…”. E la gente si fermava, perché di fronte alla voce e alla passione la gente si ferma.
Lui continuava ad andare avanti, a fermarsi e a raccontare. E la gente continuava a fermarsi ad ascoltare di questa tragedia spaventosa, di questi uomini, di queste donne così belle. Qualcuno magari li conosceva, qualcuno conosceva qualche altra tragedia altrettanto tremenda. Ovviamente qualcuno gli avrà dato un bicchiere d’acqua e qualcuno avrà detto: “Parla da ore, dategli qualcosa da mangiare, ma dove va? Fatelo dormire”. Non avrà avuto più fame, più sete e avrà avuto un posto per dormire.
Con la sua passione e la sua voce ci ha vissuto tutta una vita e c’erano migliaia di persone che ascoltavano queste storie mentre lui andava raccontandole e le raccontavano a loro volta. E certamente ci sarà stato quello che ha detto: “Aspetta che me la scrivo, prima che me la dimentichi”.
Così è nato il corpus, come forse sono nati i corpus di tutti i grandi romanzi dell’antichità, della classicità, anzi credo che così siano nati tutti i grandi romanzi che conosciamo da Gilgamesh fino alla Chanson. Credo che siano stati scritti da grandi romanzieri che avevano due cose che purtroppo raramente si trovano insieme: voce e passione. Questi sono i veri e grandi romanzieri.
• È il racconto, dunque, che fa storia, che crea storia…
I grandi romanzieri, come Omero hanno fatto la storia, hanno costruito la storia degli uomini.
Noi avremmo il dovere di conoscere i nomi delle centinaia, delle decine e decine di migliaia di ragazzi e ragazze, uomini e donne, vecchi e bambini morti tragicamente, così come tragicamente è morto Ettore, oppure Patroclo. È un dovere di giustizia, perché ogni vita vale l’altra. Ogni vita è una vita grande. Purtroppo noi non possiamo saperli questi nomi, perché raramente là dove si svolgono realmente i fatti c’è qualcuno che ha insieme grande voce e grande passione.
Questa cosa di Troia vuol dire che qualunque posto, qualunque città ha la bellezza di Troia, che qualunque uomo e qualunque donna hanno la bellezza e la forza, solo che dovremmo avere ovunque qualcuno che abbia abbastanza voce e passione da dare voce a chi non ce l’ha, perché non è detto che la voce ce la possiamo avere tutti.
È la solita storia di un lavoro a regola d’arte. Insomma, è una vita che mi voglio fare un tavolo, avrò diritto a farmi un tavolo? No, perché non sono capace, devo andare da un falegname. Io ce l’ho il mio tavolo interiore, però devo dire a un falegname se mi fa un tavolo che assomiglia al mio tavolo interiore che in realtà è una mediazione fra il mio tavolo interiore e il suo tavolo, così è questo. Ognuno di noi ha una grande vita e conseguentemente ha un romanzo interiore della sua vita. Sono pochi, però quelli che hanno voce, i narratori.
REALTÀ E IMMAGINAZIONE
• Chissà chi ha ragione, su Omero. Quello che è certo è che, con le tue parole, tu lo hai portato qui, lo hai reso presente. E questo mi fa nascere una domanda: nel tuo raccontare che rapporto c’è tra realtà e immaginazione, tra realtà e sogno?
Parto da un mio disturbo, che è la ragione per cui sono un romanziere di fatto; ho voce, passione e in più un disturbo mentale cioè una cattiva percezione della realtà, una scorretta percezione della realtà. Chissà perché alla fine io vedo sempre cose che gli altri non vedono e gli altri vedono cose che io non ho visto.
Quando siamo arrivati qui, prima, voi due avete subito visto la mia ragazza, l’unico che non l’aveva vista ero io. Io invece avevo visto un laghetto, e chissà perché mi ha attratto, in realtà non è nemmeno un laghetto, è una gora, quindi acqua regolata. A me piace la terra lavorata, quella incolta mi mette ansia, così l’acqua quando è regolata… ecco, dovendo scegliere tra una ragazza e una gora, in questo caso scelgo la gora, con la vista intendo dire…
Come ho già detto, sono nato in una casa contadina, dove la vita era la stessa di tutte le case contadine di tutto il mondo.
I contadini, con o senza terra, d’estate lavorano quattordici ore al giorno. E la porta delle loro porta…dove? In un tinello? No, in una cucina.
Le loro case sono fatte con una cucina e poi le stanze intorno dove quando si può si va a dormire. Le case dei contadini hanno una cucina grande perché deve starci un sacco di gente e ci si devono fare un sacco di cose.
A proposito, la casa non è un’architettura, la casa è uno stato dell’anima, la casa è chi ci vive in quella casa, è uno stato dell’anima collettivo, è la famiglia. Se mi dite: “Com’è la casa tua, com’è fatta?”, non ve la saprei descrivere fisicamente, a parte che è stata cambiata tante volte nel corso di questi cinquanta anni in base alle necessità, tanto che penso che mio nonno e mia zia Carla fossero nati palazzinari perché avevano sempre cemento e mattoni in una parte dell’aia ed erano sempre lì a mettere qualcosa, perché era una famiglia in continua evoluzione.
Casa, io non vedo una casa sento una voce, la voce di mia nonna Anita che mi chiama quando va giù il sole, io sono in mezzo ai campi, sporco come il lezzo, che avrò fatto a botte con i miei compagni, sarò andato a pescare le rane, a schiacciare le cecchine al canale con la bicicletta, avrò fatto tutte queste cose rischiando di morire più volte al giorno.
Ancora oggi quando il sole va giù io mi sento che devo tornare a casa, anche se adesso ci sono le luci elettriche, lo sento come una sorta di imprinting. Se non tornavo la nonna urlava: Gnò che sta per gnocco, ma nella severità della nostra lingua è una delle parole dolci che abbiamo, lo dice un uomo a una donna come per dire amore mio, oppure si dice a un bambino. E poi aggiungeva la parola sostio, che significa casa, riparo. Non riparo di tegole ma dell’anima, dell’anima che arriva e si mette a riparo dell’anima della casa.
Quindi la cucina è questo, il sostio, il riparo. Dopo aver lavorato quattordici ore uno arrivava e cenava intorno a un tavolo, che mi ricordo era di castagno, grande che ci volevano due tovaglie, massiccio, tagliato perché sopra si tagliava il maiale. Mi ricordo la lampadina con quindici candele sopra, la stufa economica, le sedie spaiate intorno. Tutta la famiglia la sera si ritrovava a cena, per l’unico pasto della giornata. Un pasto nutriente perché si era lavorato tutto il giorno, magari un piatto unico, come gli ossetti di maiale con polenta di castagne, un piatto che non si fa più: gli ossetti di maiale, sono quelli che avanzano quando si lavora il maiale.
Comunque la cena era così e dopo una cena abbondante invece di andare a letto perché la gente era sfinita, restavano lì. Ho proprio davanti a me questa immagine: siamo intorno al tavolo, con il piatto ripulito, chi si mangia le mollichine di pane, chi beve l’ultimo sorso di vino, poi, spostano il piatto da un lato, iniziamo a parlare di quello che è successo il giorno.
Io ero piccolo e mi addormentavo sentendo queste storie che crescevano dentro di me. Qualcuno mi prendeva in braccio e mi portava di là, di solito una delle mie zie, perché vedete, la famiglia contadina della valle del Magra è strutturata in maniera rigida e matriarcale come quella delle isole Samoa, le giovani zie sostituiscono la madre nei lavori più umili.
Comunque quando mi portano a letto sento ancora questo pissi pissi di sottofondo e sogno mescolando le storie che di là si stanno raccontando e che trasformano il mio sogno, lo costruiscono, lo creano.
La mattina quel bambino si sveglia, mette i piedi per terra e cosa vede per primo? Certo vedrà la scuola e la maestra ma è ancora dentro al suo sogno, è ancora dentro alle storie sentite e poi mescolate nel sogno che a sua volta si mescola con quello che legge nel libro, con quello che scrive nel quaderno e diventa sempre più difficile per il bambino che cresce distinguere nettamente ciò che vede da ciò che immagina, da ciò che ha sentito, da ciò che ricorda, da ciò che sogna.
Per me è stato un problema, un problema di natura psichiatrica, una sofferenza della mente se la vedete in questo modo… io ormai non sono più interessato a farmene una passione, ho accettato questa malattia e me la tengo, non ho più un interesse vero a voler distinguere ciò che ho sognato da ciò che è vero. E infatti non faccio il giornalista ma faccio il romanziere.
LA CREATIVITÀ
Issa e la bellezza dell’“eppure”
È un peccato che a scuola non si studiano mai i poeti dell’antico Giappone. Non si parla mai nemmeno degli haiku, la poesia che con tre versi e una manciata di parole, solitamente non più di diciassette sillabe, cattura un’emozione, una verità, perfino una visione del mondo.
Issa è stato l’ultimo grande compositore di haiku, uno di quei poeti monaci che vagabondavano per tutto il Giappone, calpestando la polvere con i suoi sandali di bambù. Pare che ci abbia lasciato qualcosa come ventimila poesie. Poesie semplici, quasi istintive, poesie intrise di parole quotidiane e capaci di arrivare dritte al cuore, poesie per avvicinarsi a tutto quanto è piccolo e di poca importanza per i più e che per lui, invece, valeva come l’universo intero.
Issa vedeva la bellezza ovunque, nelle cose di ogni giorno, nei gesti comuni, in tutto quanto non è appariscente, negli animali meno vistosi, come le lumache, i grilli, perfino le zanzare…
Si può pensare che sia facile cantare la bellezza quando le cose vanno bene, quando la vita scorre senza troppi intoppi. Ma non è stata questa la vita di Issa.
Issa, in effetti, ha conosciuto il dolore più intenso che un uomo possa conoscere, un inimmaginabile abisso di dolore provocato dalla morte di tutti e tre i suoi figli, uno dopo l’altro.
Ed ecco, la sua poesia più bella nasce proprio al cospetto della figlioletta appena morta. Ruota tutto intorno a una parola semplice, semplice: “eppure”. La vita è dolore, la vita è impermanenza, la vita è un soffio: “eppure” merita di essere vissuta, “eppure” ha una sua irresistibile bellezza.
La poesia è questa: semplicemente.
È di rugiada
È un mondo di rugiada;
Eppure, eppure
• Sono diciassette sillabe da scolpire nel cuore: perché regalano la bellezza che fiorisce anche dal dolore più tremendo…
È una cosa stupenda, scanditevela bene, ogni parola è santa, anche la congiunzione, a parte il punto e virgola che non serve a niente, è un ermafrodito, al massimo serve per far capire a qualcuno che forse siete stati all’università, però ogni interposizione ha un senso. “È un mondo di rugiada, eppure, eppure”: cercate di dare a questi due “eppure” l’inflessione che sentite. Possono essere pronunciati in modo molto diverso l’uno dall’altro… Io non conosco quest’uomo, Issa, ma forse lui in questi due “eppure” ha messo significati diversi e quindi inflessioni diverse.
• Parliamo del tuo percorso creativo. Dove, come nascono le cose che scrivi.
Il senso creativo si alimenta regolarmente con sei uova fresche di giornata, un etto e mezzo di zucchero, un etto e mezzo di farina, una scorza di limone, un po’ di alchermes… girate bene, fate una bella pasta, mettete al forno a 250 gradi. Viene fuori un bel buccellato che vi mangiate la mattina appena alzati e si comincia bene la giornata… è fondamentale.
Il processo creativo non si sa, ragazzi: lo dico francamente, è roba dell’interiora, tra l’esofago, i polmoni, il cuore e le trippe. Gli studiosi, i critici, devono essere in grado di capire i processi, lo scrittore, allo stesso modo di un pittore, non ha necessità di essere intelligente – a cosa gli serve? – gli serve la sensibilità, gli serve la così detta arte.
Io non so cosa succede. Sto un anno, due anni a rimuginare. Il lavoro a regola d’arte rende liberi, ma non il fare per il fare. Se non ho un’idea non mi ci metto, è come Geppetto che finché non ha trovato quel pezzo di legno e solo quello non ci si è messo a lavorare. Io penso, ripenso… poi cos’è che di solito mi spinge a cominciare? Magari è l’editore che mi ha pagato l’anticipo e allora faccio quello che fa ogni bravo lavoratore, apro la bottega la mattina e la chiudo la sera.
La mia bottega è una scrivania con il computer con schermo a cristalli liquidi, sono stato tra i primi ad acquistarlo in Italia, credo, un quindici pollici costava quattro milioni e mezzo di lire, più di dieci anni fa. L’ho comprato perché era essenziale per il mio lavoro a regola d’arte, perché il grosso pericolo in cui può incorrere uno scrittore che usa il computer – avete presente i vecchi monitor? – il peggior errore in cui può incappare uno scrittore è vedere la propria immagine impressa nel monitor e confonderla per un lettore….
Ma quello sei tu, insomma, non è quello a cui vuoi raccontare una storia, sei tu e se racconti una storia la capirai solo tu e servirà solo per te. La morte di un romanzo è il prolasso dell’io, l’io dell’autore che si riversa nella pagina. Io già mi sento un po’ disturbato perché parlo da solo. Se dovessi poi scrivere solo per me sarei veramente da ricovero.
• Chi è il tuo pubblico, chi sono i tuoi lettori?
Io scrivo e racconto per i miei fratelli, sostanzialmente. Chi ho stasera davanti a me? Qui davanti a me ci sono dei fratelli e sorelle, degli sguardi amici, li vedo. Vedo delle persone e io sono lì insieme a loro, io guardo, loro mi guardano, e allora funziona. È a loro che parlo, scrivo, racconto.
Ci sono sempre almeno due autori; uno che scrive e uno che legge, uno che parla e uno che ascolta. E poi ci sono i miei fratelli, che sono tanti, che cambiano, ne vengono di nuovi, altri se ne vanno.
Io mi ricordo di tutti voi, di quelli che mi hanno guardato io mi ricordo. Mi ricordo di quelli di ieri, domani mi ricorderò di voi.
IL PESO DELLE PAROLE
• Chi vive di parole ne usa molte, perciò deve anche saperle usare bene. Che rapporto hai con le parole?
Da un po’ di anni cerco di usare meno parole possibili, sembra strano, però, anche se non ve ne siete accorti, certe parole, soprattutto quelle più importanti, cerco di usarle sempre con molta parsimonia.
Cerco di usare le parole con molta parsimonia perché le parole sono veramente importanti: voi sapete che Dio ha pensato che la solitudine di Adamo potesse essere colmata soltanto con le parole.
Non so se qualcuno di voi ha letto la Bibbia, la Genesi, quando Adamo è lì che ha la depressione, è solo e Dio lo vede e si chiede: “Cosa posso fare per quest’uomo?”. Così chiama al cospetto di Adamo tutto il creato, e dice ad Adamo: “Dai un nome ad ogni cosa”. In questo modo pensava che la sua solitudine si sarebbe fatta più mite, più dolce.
Le parole sono importanti e a questo punto della mia vita mi posso mettere con coscienza a conteggiare i danni che ho fatto con le mie parole.
Quanti danni abbiamo fatto con la parola amore, usandola impropriamente, con superficialità e leggerezza? Nella vita di ciascuno voglio dire… io prima di pronunciare la parola amore ci metto anni, epoche… E la parola pace?
Ho fatto una conferenza a Bologna, c’era insieme a me un prete, e gli ho detto: “Sai, la parola pace da quando la sento sempre in bocca ai generali non la uso più. Se devono essere proprio i generali a parlare di pace c’è qualcosa che non funziona”. E lui mi ha risposto: “Sai, io la parola pace me la metto da parte per la domenica”.
• In ogni racconto contano le parole. Ma conta anche il silenzio che le accoglie. Che cos’è il silenzio e che cosa si comunica con il silenzio?
Il silenzio per me è il peso delle parole, il giusto peso delle parole.
Se per caso vi capita di incontrare una persona, di guardarla, abbracciarla e dirle “ti amo”, questa persona può andare a casa una settimana per godersi questa parola. Quel silenzio di sette giorni è il grande peso, la grande importanza, la grande solidità della parola ti amo.
E così altre parole che io metto via, da parte, per i momenti migliori.
Questi non sono momenti buoni per le parole. Ci sono parole che non oso nemmeno pronunciare… onore, per esempio, una bella parola, una grande parola. Oggi non saprei neanche a chi parlare di onore nella vita comune, a che gliene frega dell’onore? Allora me la metto da parte.
Oppure la parola gioia. Alzi la mano chi ha sentito dire nell’ultima settimana: “Mi sento gioioso”. Eppure la gioia appartiene allo spirito, è una condizione, la gioiosità, che appartiene al piano divino della creazione. Non siamo nati per soffrire, il piano divino è un altro.
Non è il silenzio dell’assenza di parole, è il silenzio necessario per dare il giusto peso a queste parole.
Cosa posso dirvi, se non questo: coltivate le parole come si impara a coltivare il sedano, cosa che a me non è mai riuscita. Le parole crescono e quando sono grandi bastano due o tre parole e riempi una giornata.
Oggi ho lavorato bene, oggi ho lavorato male, uno ha tutte le informazioni a disposizione. Però solo se il lavoro significa qualcosa, se bene e male significano davvero qualcosa, se non è solo aria che vola nel cielo.
Il silenzio è la condizione per cui noi possiamo ascoltare ciò che diciamo. Senza essere troppo pretesco, perché mi si accusa di essere uno che fa delle omelie, io penso che questo non sia un bel momento. Come è scritto nella pieve di Romena, questo è tempo di miseria, epoca di fame.
L’epoca di fame è il momento perfetto, è il momento più promettente per mettere a profitto una buona idea di parsimonia. La parsimonia è feconda, è creativa, è senso delle proporzioni.
Questa è un’epoca di poco, di poche cose a disposizione, e tutte vanno elargite con il buon gusto della parsimonia. Compreso le parole.
Troppo spesso ci nutriamo di ciò che è bene che siamo, di ciò che sembriamo essere. Questo è un buon tempo per parlare e ascoltare noi prima di cominciare a parlare agli altri.
È tempo di fame di noi stessi. Di fame di ciò che siamo.
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Caro daniele, questo blog non finisce di stupirmi, piacevolmente intendo, e che dirti, per ora mi fermo al rigo che ci dà una buona prospettiva per il futuro. Ritrovarsi, appunto. Un pub o la vetta di una montagna sono due mete agli antipodi solo in apparenza, in realtà ragionevolmente simili per chi vuole avere miglior cura di se stesso e delle relazioni con le persone che ha care. Un pub o la vetta di una montagna… basta che sia. A prestissimo, paolo