Roaring eighty

Un'icona degli anni Ottanta: Miami Vice

Tanto Michele Serra su Repubblica quanto Massimo Gramellini sulla Stampa commentano il risultato del voto alle amministrative soprattutto a Milano scrivendo che sono, finalmente, finiti gli anni Ottanta, per capirci quel luccichio di luci stroboscopiche, fiumi e fumi di borotalco, ombrellini di carta in cima a calici con scorze di (si)lime, (si)limone, si-licone e quant’altro, e insomma la Milano dabbere lascia il posto a quella dabbene che tutti quanti dicevano addavene.

Condivido la loro passione e le loro nausee, per quanto mi dispiaccia mandare in soffitta Stewie Wonder, Peter Gabriel e Sting che sono stati la colonna sonora di quel decennio. Ma temo che la rivoluzione culturale che traspare dai loro commenti sia ben lontana davvenire. Loro hanno fatto bene a scrivere quello che hanno scritto e lo apprezzo, perché nelle loro parole è racchiuso in poche righe un universo di simboli di cui abbiamo fatto indigestione, inquinandoci ben bene, e perché i giornali vivono un giorno solo ed oggi è quello giusto per suonar un po’ di tromba e dar la squilla a quanti come me storcono il naso e restano pieni di dubbi.

Non c’è progetto politico che stia in piedi senza un po’ d’entusiasmo e di emozione, per cui chi ne ha le balle piene farebbe bene a non star tanto lì a cavillare ora e a guardar dritto all’obiettivo. Ma la consapevolezza del radicamento di vizi, abitudini, usanze e mode è obbligatoria. Siamo ancora molto lontani da un agire in politica che sia per il bene comune, questo è quello che io sospetto. Ci saranno un po’ meno ballerine, interruzioni di film, piste ciclabili e nasabili, griffe e gaffes. Ma se questo è l’anno zero, come scrive Gramellini, c’è da rimboccarsi le maniche.

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