Con questi giovani
Non conosco tutte le carte, i documenti, le eventuali risoluzioni prese o messe a punto dagli indignati ed ho già scritto ieri (Domande alla politica) che non sono indignato: non lo sono neanche per gli scontri a Roma, non perché non provi fastidio, disprezzo e una distanza abissale che mi porta a condannare senza appello quella teppaglia, ma perché sono abbastanza convinto che fosse prevedibile, e su questo punto semmai tornerò in seguito. Mi limito, qui, a segnalare un link per mostrare inequivocabilmente che gli animatori della manifestazione hanno preso le distanze dai violenti, il che è confermato dal fatto che in altre città del mondo i cortei si sono svolti pacificamente.
Non conosco bene, dicevo, le loro carte, ma cerco di trovare qualche appiglio che consenta di capire di che cosa stiamo parlando. Ho pubblicato su Facebook la lettera che gli Indignados hanno inviato al Presidente Napolitano (a una carica istituzionale, la più alta che c’è!) e qui la ripropongo, perché penso possa aiutarci a capire e a fare qualche ragionamento che non sia “sì/no”, “mi piace/non mi piace”:
Caro Presidente Napolitano,
in Italia non si fa altro che parlare di giovani. La questione è semplice: c’è una generazione esclusa dai diritti e dal benessere, che oggi campa grazie al welfare familiare, e sulla quale si sta scaricando tutto il peso della crisi. La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati (i genitori), ma riconoscendoli a chi non li ha (i figli) e per far questo ci vogliono risorse.
Ora ci chiediamo, come è possibile invertire la tendenza e promuovere delle politiche per le giovani generazioni prendendo sul serio le lettere estive di Trichet e Draghi? Come è possibile farlo se il pareggio di bilancio diventa regola aurea, da inserire nella Costituzione di cui Lei è garante?
Caro Presidente, garantire e difendere la Costituzione oggi vuol dire rifiutarsi di pagare il debito, così come consigliano diversi premi Nobel per l’Economia; vuol dire partire dai 27 milioni di italiani che hanno votato ai referendum; vuol dire partire dalle mobilitazioni giovanili e studentesche che da anni, inascoltate e respinte, hanno preteso di cambiare dal basso la scuola e l’università, chiedendo risorse e democrazia; vuol dire partire dalla domanda diffusa nel Paese di un nuovo sistema di garanzie, che tenga conto delle differenze generazionali, ma che non metta le generazioni l’una contro l’altra: così si tiene unita l’Italia!
Sarebbe un atto di giustizia fare in modo che la crisi la paghino coloro che l’hanno prodotta: con una tassazione delle rendite finanziarie, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari. Bisognerebbe avere il coraggio, dopo il disastro del ventennio berlusconiano e della Seconda Repubblica, di costruirne una terza di Repubblica, fondata sui beni comuni e non sugli interessi privati. La invitiamo a riflettere, perché questa generazione tradita non si arrenderà, ma da Tunisi a New York ha imparato ad alzare la testa.
Quello che mi colpisce è questo passaggio: «Bisognerebbe avere il coraggio (…) di costruirne una terza di Repubblica, fondata sui beni comuni e non sugli interessi privati. La invitiamo a riflettere, perché questa generazione tradita non si arrenderà, ma da Tunisi a New York ha imparato ad alzare la testa». Fatta la tara a quel tanto di pur apprezzabile e comprensibile retorica contenuto nell’ultima frase, ci sono due cose molto importanti in queste parole. L’invito al Presidente a “riflettere”, non a fare un colpo di Stato o il babbo che va in soccorso ai figli. Ma a “con-siderare” dall’alto dell’età, del ruolo, dell’esperienza e dell’autorevolezza. E, soprattutto, la richiesta di “coraggio” per costruire non un niente, ma una Res-publica, una cosa di tutti, anzi della sola cosa che ci rende comunità. Una “istituzione”.
Questi intenti sarebbero già di per sé più che sufficienti a prendere in seria considerazione il malessere, l’orientamento, le istanze espressi da quei giovani. Poi, proprio il fatto che siano prevalentemente, o sedicenti, giovani, aggiunge un motivo, validissimo, al “prendersi cura”, al “farsi carico”, a ritrovare quel coraggio che, con il passare degli anni, inevitabilmente scema.
Su Facebook ho dato risalto anche all’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica di oggi intitolato Stato sconfitto da un pugno di teppisti. Barbapapà rileva che quella protesta numericamente rilevante, di massa si sarebbe detto un tempo, è stata «in tutte le piazze dell’Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid», dove si è sfilato anche pacificamente, e che «il fatto certo è comunque l’esistenza ormai evidente di un movimento internazionale», che ha una stretta relazione con quella “primavera araba” a cui abbiamo guardato tutti con speranza, «senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle “banlieue” parigine». Scalfari nota anche che le dimensioni globali del movimento affondano nei «danni provocati dalla globalizzazione». Aggiungerei: da questa globalizzazione, sempre meno caduta di frontiere e avvicinamento dei popoli, sempre più “spaesamento” (cioè anonimato) del dove si prendono le decisioni o del dove finiscono le risorse.
Per queste ragioni Scalfari non giudica “effimero” questo vasto movimento: «Esprime la rabbia d’una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune». Eppure, come ho evidenziato, qui scrivono a Napolitano. E molti ieri hanno plaudito la polizia che è un’istituzione tradizionale.
Accetto la definizione di Scalfari che «Gli “indignati” non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori». Quindi, se non sono conservatori, sono progressisti, e infatti puntano a un futuro che consenta anche a loro di esistere. Perciò penso che chi si definisce progressista debba tentare di capirli, dialogare con loro, farsene , almeno in parte, interprete.
Scrive Scalfari: «Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche». Forse è così, ma implicitamente affermano che esiste un “bene comune” che prima di essere l’acqua, le foreste o le reti di comunicazione è lo scopo della politica, l’agorà, la res-publica.
Anche le risorse, certo. Troppo mal distribuite. Stipendi da fame, addirittura niente lavoro, e compensi spropositati. Pensionati all’opera e laureati per strada, impiegati inamovibili e adulti al call center, pensionandi per i quali il riposo è uno spettro balenato davanti agli occhi, manager tutelati anche dopo i loro fallimenti e ognuno allunghi la lista con quello che sa. Così come la questione dei beni d’uso e dei beni di scambio o di consumo.
Scalfari giustamente mette in guardia dai pericoli dell’utopismo insito in questa protesta e dagli ancor più pericolosi nessi fra utopismo, populismo e demagogia. E tuttavia non s’è mossa foglia nella storia dell’umanità che non sia stata ispirata da una certa dose, se non di utopia, di “thelos trascendente”, di capacità di guardare più in là, di volere di più, anche di sperare e sognare.
E questo è quello che la politica fa sempre di meno. Sembra non volersi porre degli obiettivi che vadano, nel migliore dei casi, anche solo appena appena al di là della gestione dell’esistente. Si iniziasse a leggere programmi elettorali che parlano, come dice Scalfari, di foreste che non vanno abbattute, di aria che non va inquinata, di banche che non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Di scuole e università che incentivano gli studenti anziché essere incentivate dai loro genitori.
Scalfari invita gli indignati, o forse più in generale i giovani, a utilizzare il proprio sacrosanto entusiasmo e la propria sacrosanta pacifica ribellione, «per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato – il malfatto insieme al benfatto – sarete diventati “vecchi e tardi” come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d’Ercole e subito dopo naufragarono».
Sì, questo facciano i giovani, ma noi che non lo siamo più, che si sia rottamati o meno, stiamo dalla loro parte, schieriamoci, prendiamo posizione, mettiamo anche a disposizione le conoscenze e l’esperienza che abbiamo accumulato, perché un giorno non debbano scrivere come fa Scalfari oggi «a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d’un furto da poco».