Silenzio e rispetto

Avrei già voluto scrivere nei giorni scorsi del suicidio di Lucio Magri, che ovviamente ha colpito, innescando un proliferare di commenti che riguardano lui e più in generale la questione del togliersi la vita e della liceità o meno del modo in cui l’ha fatto. Non escludo di tornarvi prossimamente, perché sento di aver qualcosa da dire sull’argomento, ma preferisco far sedimentare i pensieri e placare le emozioni. Una delle prime cose che mi sono venute in mente quando ho appreso la notizia è stato un articolo che, nel febbraio del 1979, pubblicai sul periodico degli studenti universitari comunisti di cui ero direttore senza specificarlo in gerenza. Il periodico si chiamava Concentramentorenove in debito alla scritta con cui si chiudevano tutti i volantini che convocavano uno sciopero dando appuntamento a quell’ora in piazza San Marco da cui solitamente muovevano i cortei e l’autore dell’articolo, intitolato Riflessioni sul suicidio di un compagno, era Fabio Palchetti, mio compagno di classe e d’ideali, lui leader del Manifesto mentre io stavo nella Fgci, o più esattamente nel Movimento studentesco. Nella mia testa era vivissimo il ricordo, che non mi ha mai abbandonato, delle parole con cui si concludeva l’articolo in prima pagina, prima dell’errato rimando al seguito del testo all’interno del giornale: «Sarebbe meglio riconoscere i limiti del nostro linguaggio e delle nostre parole. Silenzio sarebbe opportuno: silenzio e rispetto».

Lucio Magri

Ho chiesto a Fabio il permesso di evocare quei pensieri di allora, quand’eravamo tutti, forse, un po’ più intrisi di belle speranze e illusioni, ma magari non meno melanconici e smarriti, e ottenuta l’autorizzazione mi limito per ora a riproporre quell’articolo senza aggiungere altre considerazioni, sperando facciano riflettere anche chi si è già avventurato, nel caso di Lucio Magri, a non proprio rispettose conclusioni.

Riflessioni sul suicidio di un compagno

Fabio Palchetti ai tempi del liceo

Alcuni giorni fa un compagno, redattore del Quotidiano dei Lavoratori, 22 anni, si è ucciso lasciandoci una lettera in cui, tra le altre cose, ci chiede di non essere giudicato.

Non l’abbiamo del tutto rispettato; molta stampa ha violentato questa sua ultima volontà, altri hanno riproposto un tipo di lettura fuorviante e superficiale: mi riferisco soprattutto a un articolo di S. Corsivieri – «gli errori del 68» – apparso su Repubblica. Il suo ragionamento (che a me pare in larga parte il senso comune di tanta sinistra) era sostanzialmente questo: il suicidio di questo compagno è leggibile politicamente; crisi della sinistra (in particolare la nuova), crisi della militanza, crollo dei «miti» del 68 sono gli elementi per capirne le motivazioni; ora quello che ci serve è una maggiore laicizzazione della politica; un po’ più di realismo; le «magnifiche sorti e progressive» anche se più nascoste continuano a governare questo mondo; in questa rinnovata militanza politica è possibile trovare senso alla propria vita e soluzione ai grovigli contraddittori del nostro personale.

Io non credo sia questo il modo più giusto per affrontare la drammaticità di tali fatti, non solo perché nel suo volto rassicurante non ci fa capire molto (lasciandoci un comprensibile senso di insoddisfazione anche a livello semplicemente latente); ma perché ripropone una visione del rapporto politica-vita oggi in crisi e decisamente inadeguata a comprendere nuove forme di coscienza e di pratica reale.

Ma ancora prima; mi pare, intanto, discutibile la pretesa di entrare dentro il più irriducibile ed ermeticamente chiuso degli atti umani con la capacità di leggere tutto ciò che gli sta dentro più o meno facilmente. È un punto importante, credo, che dovremo tenere spesso in testa: la voglia di capire non deve farci dimenticare la nostra inadeguatezza: non sappiamo niente di quest’uomo, della sua più profonda individualità; non sappiamo cosa sia avvenuto un giorno dentro di lui per spingerlo a tanto. E non possiamo giudicare come se si trattasse di qualcosa di semplice, facilmente comprensibile e collocabile dentro possibili, astratti ragionamenti logici. La specificità di questo gesto ha un «peso» che, lo sentiamo tutti (e forse lo possiamo solo «sentire»), va oltre.

Sarebbe meglio riconoscere i limiti del nostro linguaggio e delle nostre parole. Silenzio sarebbe opportuno: silenzio e rispetto.

Una cosa ci dice questo compagno e ce lo lascia scritto con una poesia dell’Antologia di Spoon River:

«Il fiore della mia vita avrebbe potuto sbocciare da ogni lato se un vento crudele non avesse intristito i miei petali dal lato di me che potevate vedere nel lato del villaggio».

Di questo ci parla e di nient’altro: il fallimento di un uomo. Questo è il senso su cui dobbiamo interrogarci e cercare di capire. Proporre una maggior laicizzazione della politica e poi sempre e comunque di fronte a qualsiasi avvenimento del reale risfoderare la solita vecchia e facile lettura politica, da militante, mi sembra proprio una palese contraddizione. Non credo che le categorie politiche o sociologiche ci servano a molto; le motivazioni sono più profonde e più celate: riguardano il senso della vita e dell’esistenza, la singolarità del proprio vissuto. Scegliere la morte è un atto troppo razionale e lucido per non implicare una capacità di «guardarsi dentro» tanto disperata quanto forse mai così profonda, un fare emergere alla coscienza gli aspetti più inspiegabili e sconosciuti della nostra anima e, con segno negativo, spiegarli, e conoscerli.

È un’autoanalisi che chiede senso al nostro esserci, al nostro muoversi, che cerca la possibilità di risentire quel senso di pienezza infinito della vita, a volte avvertito, ma poi in modo sempre più sfumato.

A questo compagno quello che bruciava, solo di fronte a se stesso, era un vuoto di speranze sul suo lato in fiore, un vuoto di rapporti umani così grande da fargli preferire la perdita per sempre del legame con il mondo e con gli altri.

A noi rimanga l’interrogativo sulle nostre insufficienze che sono di uomini: incapaci di sorreggerlo, di noi gli abbiamo dato solo il lato di presenza cupa ed estranea.

Non ho mai creduto e non credo al nesso più o meno immediato fra gioia di vivere e rivoluzione, come si diceva un tempo; l’impegno politico collettivo è solo un lato (anche se forse il più importante) della vita di un uomo; è solo un aspetto di una personalità il più possibile ricca e multiforme che si sviluppa e cresce secondo più direzioni.

Se un compagno ha scelto la morte non è perché la rivoluzione gli si è allontanata.

Fabio Palchetti

Concentramentorenove, n. 3, febbraio 1979

Tags: , ,

Leave a Reply