Lacrime e politica

Paul Lafargue

Qualche anno fa ho letto, un po’ in tralice, un libro di cui non ricordo più titolo e autore, nel quale si sosteneva che la sinistra era geneticamente condannata a perdere e restare minoritaria, perché il suo lamentarsi, il suo accusare, la sua critica allo «stato presente di cose» ne rivelavano il volto triste, amareggiato, infelice. E come fa uno a volere dolore e sconforto? Perché si dovrebbe scegliere un tal autoflagello?

C’è del vero in quell’analisi, benché i pochi tentativi che io conosco di mettere a punto una eudaimonia, vale a dire una dottrina morale che identifichi il bene con la felicità – e, aggiungerei io per essere maggiormente preciso, più che con la felicità con uno stato di benessere, di serenità, di pienezza e anche capacità di sorridere e godere – siano stati operati proprio nell’ambito del pensiero diciamo così, genericamente, di sinistra, ammesso quest’ultima parola abbia ancora un qualche senso.

C’è una tendenza insita nelle tradizioni del pensiero di sinistra alla commiserazione, al pianto, al funereo, allo sconsolato, al catastrofico e all’apocalittico: lo spostamento della «abolizione dello stato presente di cose», per usare la più compiuta definizione messa a punto da Karl Marx dell’obiettivo da raggiungere, vale a dire della creazione di uno «stato futuro di cose», quasi automaticamente comporta un soddisfacimento non qui e ora ma e poi, lasciando all’hic et nunc il fastidio, la scontentezza, il disagio.

D’altra parte sarebbe veramente bizzarro se sfruttati e oppressi, schiavi e diseredati se la spassassero e avessero di che ridere come sfruttatori e oppressori, padroni e ereditieri. Probabilmente eliminando il divario l’insoddisfazione si scioglierebbe come neve al sole e resterebbe viva solo l’eventuale predisposizione psicologica al melanconico o al depresso. C’è insomma, nella critica contenuta in quel libro, un’evidente idiota constatazione: bravo, ha scoperto l’acqua calda. E vorrebbe anche farmi sentire in colpa per questo! Come se si dovesse piangere, oltre che per i calci presi, anche per il fatto d’averli presi!

Ma non è qui che volevo appuntare la mia attenzione. Quel libro data, se non ricordo male, all’inizio di questo millennio, dopo la scorpacciata edonista (ma perdio! ci vorrebbe un altro aggettivo per definire i furori giocosi di quell’epoca) dei Reagan e delle Tatcher. Da allora ad oggi, mi pare, anche nella sinistra si sono intrufolati sorrisi ebeti, gioviali canti, singulti idioti: non tanto nel pensiero, che nel frattempo è stato pressoché interrotto, quanto nei comportamenti, nella prassi, interrotti solo da corrucciamenti e severità molto di facciata, talmente di facciata che sembrano sceneggiate.

Le oche giulive hanno dilagato. Non è il riso cinico, satirico, anche beffardo di uno Shalom Alechem o di un Bertold Brecht o di un Paul Lafargue che invitava all’ozio e ha finito per togliersi la vita. No, è tutt’altro riso. Lo si vede benissimo sui volti giovanili e spensierati – se non negli alambicchi della fame di potere – di molti teatranti della nostra scena politica. Ma questo è «il presente stato di cose».

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