Il blocco di Lunaspina

Le chiesi un Laphroaigh con un bicchier d’acqua a parte.  Me li mescolò, come fossero un Martini, mescolato, non shakerato. Poi, quando ha capito, mi ha chiesto scusa. Fa questo per campare. Per studiare in una Università che neanche le spiega cosa mettere nel piano di studi. Fa di più per campare. La domenica, credo, canta, e la sua voce è molto bella. Poi si cucina, dà il cencio per terra, si rifà il letto dove ha fatto l’amore con il suo fidanzato, un quasi ufficiale gentiluomo, coltiva i suoi fedeli amici e una manica di mattacchioni o ballerine di lap dance. Si chiama Irene, ma pretende d’esser chiamata Lunaspina, ed io obbedisco. È giovanissima, non giovane, per questo le ho fatto conoscere Christoph che come lei ha già scritto un libro. Lei lo ha pubblicato, lui è in attesa e alla Mursia si diano una mossa, per favore. Dal suo libro ho rubato questo racconto.

Lunaspina

Il blocco

Non lo ricordo nei miei giochi d’infanzia, non era presente nei giorni in cui la mia anima non aveva ancora il trucco disfatto alle palpebre e non aveva borse sotto gli occhi per le molteplici notti in bianco. Lui non era nella mia culla, né nel lettino con lenzuola candide che odoravano d’ammorbidente e detersivo. È arrivato dopo, ma… dopo quando? Non rammento il giorno esatto in cui sia comparso nella mia esistenza o l’abbia visto per la prima volta all’angolo della strada. So solo che una notte mi sono svegliata bruscamente, in preda al panico, con un forte senso di soffocamento… Il tipico spazio del mio letto pareva ora notevolmente ridotto così mi sono voltata e l’ho visto al mio fianco. Tutt’intorno era oscuro e tenebroso cosicché non potei distinguere i suoi lineamenti. Nella penombra vidi solo due labbra umide e semicarnose. Fameliche. Tentai di toccarlo per distinguerne meglio i tratti, ma tra le mani mi ritrovai solo nebbia e vento. Tesi le narici per odorare la sua essenza, ma non percepii alcun odore al di fuori del fresco delle lenzuola. Allora lui mi portò al suo membro senza che me ne rendessi conto e mi nutrì per la prima volta dei suoi umori. Non potei più farne a meno. La mattina seguente non era più nel mio letto, ma avvertivo la sua presenza tangibile, ovunque, in ogni atomo, come anidride carbonica. Era dappertutto, lo sentivo denso ed asfissiante come un foulard annodato stretto stretto al collo. Come una morsa allo stomaco: un macigno sul cuore.

Lui è uno scoglio indefinito, lo distinguo a stento, ma è presente, mi opprime, mi spinge. Non è delicato, non è amico, non è chiaro, non riscalda. È nebbia, confusione: la mia più gran finzione… mi cammina accanto sempre, non per questo è di compagnia, non spiccica parola e se cerco di parlargli, conoscerlo, Lui mera presenza canzonante appare quasi sarcastico, divertito dai miei futili tentativi di comprendere. È permeato da un alone di mistero, pallore lunare… con sorriso effimero mi si rivolge compiaciuto, ben conscio del turbamento che mi provoca. Contento e soddisfatto, non interrompe mai il distacco. Presenza muta e trascendente non risponde ai miei perché, ma mi lascia perplessa, spaurita, valutandomi indifferente mi smussa, deprime, butta giù. Mi tira verso il basso, magnetico e con un pugno, uno spintone, schiaffo, carezza, fa pressione su di me. Come un amante appiccicoso, inesperto lui… ansima. Mi sfinisce, consuma ed io sballottata e totalmente disorientata fuggo al mio niente invano, poiché non è in nessun luogo, ma principalmente è dentro di me, penetrato senza consenso, mi ha stuprata! Violata! La mia anima ha lacerato! Mi circonda con le sue braccia, a volte mi culla dolcemente, da sinistra verso destra, irretisce i sensi che lastrica d’oblio. È una puttana astuta, sa far bene il suo lavoro, rilascia endorfine che lungo il mio corpo sciupato regalano orgasmi a metà, mi scuotono, ma rimangono incompleti, lasciandomi l’amaro in bocca, acidi… scivolano lungo la nuca, le estremità del corpo. Le sento sotto la pelle, lungo le gambe e non mi saziano mai. È una droga tremenda, un allucinogeno che abbandona i suoi vapori, un dolce tormento cui non posso rinunciare. Mi nutro dei suoi umori, nessun altro ne ha d’eguali. Il suo sperma è agrodolce, un nettare divino, limpido ma denso, cristallino ma grumoso, che mi riempie gola e viscere. Lo trattengo sotto il palato, me ne delizio, io: insaziabile, immonda ingorda che non me ne faccio bastare mai, ma perenne schiava lo invoco. Lui me lo concede mestamente, m’inebria del suo vino, accorto a non farmene mancare mai, benché non risponda alle mie domande e non mi dica mai il nome, né mi dichiari il suo amore. A volte picchia, picchia forte e senza pietà. Mena duro, colpo su colpo, senza tralasciare niente, incredibilmente preciso, ma non picchia me, bensì la mia Coscienza, che come una cagna bastonata mugola, martoriata e ferita, anche se dopo i lividi spuntano sulla mia Anima, piena zeppa d’ematomi e graffi laceranti. Lei, misera barbona, si strascica tra una remora ed un rimpianto, impotente, disarmata, sedotta e viziosa, si copre con vecchi fogli del “Libertà” quasi fossero calde coperte di cashmere. Il trucco è adesso disfatto negli occhi stanchi della mia Anima, ombre viola incidono oscurandone la vista. Ha gli occhi esausti: perduti. Lui però non se ne avvede neanche un po’. Non gli interessa la mia Anima, anzi, l’annulla; il suo obbiettivo sono io… sempre e solo io… È me che vuole: consumarmi, divorarmi a grandi morsi voraci ed io d’altronde ho bisogno d’esser morsa da quelle labbra seducenti e inumidite. Ci nutriamo a vicenda, come due lupi cattivi affamati (anche se qui l’unica con le sembianze di Cappuccetto Rosso paio io), io del suo sperma che m’avvelena e lui della mia anima ormai nera. C’è da sempre e non c’è stato mai. È il nodo alla gola che mi coglie d’improvviso nel bel mezzo delle lezioni, nel traffico, nel sonno… e comanda alle mie iridi di bagnarsi. Ha il pieno controllo delle mie facoltà: corpo, mente, cuore… tutto il mio essere è alla sua mercè e se provo a ribellarmi, il foulard invisibile che mi attanaglia il collo stringe più forte che mai. Non so chi o cosa sia… Troppe volte gliel’ho chiesto nelle notti buie ma ho ottenuto solo mutismo, vacui ghigni deridenti dalla sua dannata bocca sardonica e beffarda. È la morte? La figura del padre che non ho mai avuto? L’amico immaginario o il mostro sotto il letto? Niente di tutto ciò, ne sono ormai sicura, perché ho la certezza assoluta che sarebbe sufficiente identificarlo per sconfiggerlo. Lui non mi ama, non mi vuol bene, non prova sentimenti né ha sensazioni, impressioni, emozioni. Chissà se i corpuscoli della sua pelle avvertono il contatto con la mia, se il suo olfatto respira il mio odore, se la sua lingua gusti il mio sapore. Ad essere sincera ignoro persino se ce l’abbia un naso, una pelle, delle labbra in carne ed ossa. Quando cerco di afferrarlo, scuoterlo, fargli del male, mi getto sul niente e non afferro che il niente. È capitato che io mi sia gettata a terra gridando disgraziatamente. Ho battuto i pugni sulle fredde mattonelle del pavimento. Ho riempito di lacrime amare, muco e saliva, una pozzanghera per terra, come Alice nel paese delle meraviglie. M’è parso di annegarci dentro. Gli ho urlato contro insulti scurrili, con rabbia e paura, perché ciò che non si conosce tende spesso e continuo ad incuterci timore. L’ho implorato di andarsene, di non farmi più sentire la sua opprimente, pesante presenza, di liberarmi dalla dipendenza che, mio malgrado, ho di Lui, che pure è il mio male. Sapevo che finché non me ne fossi liberata sarei rimasta incapace di vivere ed amare, di aver sogni tranquilli, ma tutte le volte che mi vedeva isterica torcermi le dita e strapparmi i capelli, restava in silenzio, rincantucciato in un angolo, assistendo indifferente, con vaga ironia. Il suo sguardo parlava al suo posto e sembrava dirmi che avevo bisogno di Lui, non potevo cacciarlo via: non volevo farlo. Quando l’avrei accettato passivamente come componente integrante della mia vita ed avessi smesso di combatterlo, avrei trovato serenità. Una trappola! Rassegnati bambina, arrenderti ti condurrà ad una pace apatica, alla non vita, non pensiero, non cuore, non niente, ma poco importa, questo è il massimo cui tu possa aspirare!

“NO!”, risposi al muto messaggio che aleggiava ancora intorno, ronzandomi fastidiosamente nelle orecchie: “io mi libererò di te! Vedrai! Riprenderò in mano le redini della mia vita, che tu hai sottratto: lo giuro!”…

Quante volte ho urlato con foga queste parole al nulla, indirizzandole a Lui, alla sua beffa, al riso di scherno. Ma dopo breve tempo ho sempre ceduto, sconfitta dal bisogno impellente ed irrinunciabile. Così, rantolando a gattoni mi sono diretta a testa bassa verso l’unica fonte cui potevo ristorarmi, a cogliere il seme di quella droga che in un asso di tempo incredibilmente tedioso mi stava contaminando il cuore. Ne succhiai fino all’ultima goccia malata.

Poi una notte accadde.

Mi ritrovai in un luogo buio in cui non distinguevo nulla. Tutto intorno l’oscurità era palpabile… pesante. Lasciava tracce d’umidità sulla pelle, mentre i vestiti si facevano fradici. D’un tratto vidi ergersi sotto i miei occhi un muro immenso. Non riuscii a vederne la fine, tanto era grande. Il cielo sopra di me era grigio scuro, privo di nuvole o sfumature; solo quel grigiore immutato, monotono e deprimente, che tuttavia non rischiarava per nulla il buio del sinistro ambiente in cui mi trovavo. Il muro era composto di mattoni ed in mezzo mi parve di scorgervi delle labbra inumidite e succose; ma fu solo un attimo, pensai ad uno scherzo della mente. Davanti quella barriera mi sentii impotente, mi feci piccola piccola, come in trappola. Bloccava non solo il mio corpo, ma tutta me stessa, cuore e pensiero. Mi sentii incapace d’amare ed un gelo profondo mi pervase dalla testa ai piedi, fin dentro le ossa. Non potevo tollerare quella muraglia. Sentivo la necessità irrinunciabile di attraversarla, di andare oltre. Allora cominciai a toccare ed esplorare la sua superficie, percorrendo la sua grandezza per intero, agli estremi dei quali c’era ancora la stessa soffocante oscurità. Man mano che le mie mani lo studiavano un mattone si scostò e poi un altro e un altro e un altro ancora. Continuai con tutte le mie forze a distruggere quell’ammasso di mattoni ed ogni volta che, con tanta fatica, ne cavavo fuori uno, me lo gettavo alle spalle ed esso scompariva dissolvendosi nel nulla. Bizzarro! Più me ne sbarazzavo, più mi sentivo leggera… da tutti i punti di vista. Il mio corpo divenne inconsistente, la mia testa trasparente, leggera leggera dopo tutto quel senso di soffocamento avuto per… chissà quanto tempo. Vedevo diminuire il volume del muro via via che eliminavo i mattoni e sembrava sempre meno imponente, sempre più fragile, quasi lo si potesse sgretolare con un soffio. Ormai ero allo stremo delle forze, madida di sudore… grondavo fatica, le braccia doloranti, la schiena a pezzi. Avevo solo voglia di mollare, di arrendermi. Chinai il volto verso terra priva di forza e speranza, ma m’imposi di continuare. Non potevo mollare proprio adesso, così armata dalla nuova volontà che la disperazione mi conferiva continuai il mio “lavoro”, mattone dopo mattone, pietra dopo pietra; peso dopo peso. Persi la cognizione del tempo e continuai con mani sanguinanti e piene di vesciche per quelle che mi parvero ore, mesi, anni. Più andavo avanti, più capivo: ogni masso era una colpa o una paura che stavo affrontando e sollevando gettandomela alle spalle, ogni pietra una parte di Lui… e fu solo rimuovendo l’ultimo pezzo che mi resi conto di essermene finalmente liberata! PUFF! Lui era scomparso come se non ci fosse mai stato. La mia gola respirò aria pura a pieni polmoni senza quel foulard, non sentii più il bisogno del bianco veleno di lui. Davanti a me, oltre quel muro ormai abbattuto, vidi me stessa in uno specchio. Osservai l’essere che ero diventata, la penosa condizione in cui avevo ridotto la mia anima. Furiosa, odiai quell’immagine perversa ed urlai con quanto fiato avevo in gola. Il mio grido si levò lancinante, privo di parvenze umane. Parve amplificato da un eco sconosciuto ed arcano. Si estese all’infinito con una violenza inaudita facendo fremere il vetro che si ruppe in mille frammenti che schizzarono attraverso lo spazio ed il tempo. La mia bocca, ottenuto lo scopo, si richiuse ponendo fine a quello scempio. Vidi una ragazza che dormiva beatamente sotto lenzuola profumate di lavanda. Il suo volto era disteso, l’espressione serena. Un lieve sorriso alitava su labbra simili a petali d’orchidea umidi di rugiada. La sua pelle era pulita, gli occhi riposati. Amai quel volto che era il mio ed abbassai le palpebre per assaporare il momento. Quando le riaprii ero io su quel letto, tra quelle lenzuola. La finestra di fronte era spalancata ed un caldo sole estivo gioiva del mio risveglio. Lui era sparito, nel sonno avevo finalmente smascherato la sua identità annientandolo.

Lui era quel muro, era quello specchio. Era la forza che mi aveva impedito di vivere per tutto quel tempo, che non mi aveva dato tregua mai.

Lui era IL BLOCCO.

Uscii fuori ed amai come si ama quando si è riconciliati con se stessi e con l’universo, come quando si ha rimarginato le ferite della coscienza, curato l’anima: con un cuore.

Lunaspina è nata a Zevio (VR) nel 1990. Attualmente frequenta il primo anno della facoltà di Lettere e Filosofia di Pisa, praticando con successo la sua dote naturale di cantante per mantenersi. Ha pubblicato nel maggio 2009 la sua opera prima, L’Iperuranio di Lunaspina, un libro insolito, originalissimo anche nella sua struttura che alterna e contamina prosa a poesia. Una enciclopedia di reazioni, provocazioni e riflessioni, una miscela esplosiva di sentimenti, ansie, sicurezze-insicurezze, speculazioni analitiche, polemiche e soprattutto tanta voglia di vivere e operare e comunicare e ancora provocare per comprendere o forse per non voler più sentire campane e campanacci… uno zibaldone di creatività letteraria sorprendente, unico e necessario a chi voglia approfondire aspetti e attese dei giovani più giovani, quelli segnati anzitempo dalle consapevolezze… Il libro (188 pagine con alcune foto e disegni originali) è nelle librerie in tutta Italia ma per i casi di librerie che non ne fossero fornite, può essere richiesto direttamente alla Casa editrice Prova d’Autore.

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