Statali in bilico
Che l’avrebbero fatto era immaginabile. Se vai giù di scure con l’abolizione dell’articolo 18 nel privato, e stai lì a dire che bisogna tagliare, togliere sprechi e dimagrire, non puoi poi non finire (si fa per dire) per toccare gli statali. Così, leggo sul Corriere della Sera, i dipendenti pubblici dovranno dire addio al posto fisso, potranno veder toccare il proprio stipendio, rischieranno la mobilità obbligatoria, non saranno più costretti alle vacanze forzate nella settimana di Ferragosto e in quella tra Natale e Capodanno.
La questione è delicata e da qualunque parte la si voglia guardare, bisogna stare attenti a non essere demagogici, giustizialisti, invidiosi o vendicativi. Quello che ho scritto ieri nel post La caccia all’untore, dovrebbe fugare ogni dubbio sul fatto che si pensi di risolvere i problemi accanendosi su questa o quella categoria sociale, ed in particolar modo che i licenziamenti siano una medicina per alcunché.
Ciò detto è vero che è sempre stata una lapalissiana ingiustizia che ci fossero lavoratori dipendenti il cui destino e la cui possibilità di sopravvivenza erano sottoposti ai capricci dell’imprenditore o dell’andamento di mercato, ed altri per cui neanche il comportamento scorretto in azienda poteva essere causa di perdita dei diritti acquisiti.
Ci sono rispettabilissime persone che dipendono dallo Stato e da esso percepiscono il salario, anche se inevitabilmente la dimensione mastodontica della macchina nella quale lavorano favorisce, pur con l’impegno e la dedizione, non alti livelli di produttività, mediamente, ma non in assoluto, più bassi di quelli nel privato, e forse non solo per il fiato sul collo, ma per una diversa cultura che si matura in azienda o in ufficio.
Io ribadisco che per me ogni cittadino, raggiunta la maturità e terminati gli studi, dovrebbe avere il diritto ad esercitare un lavoro e potere con quello provvedere a se stesso, contribuire all’andamento della propria famiglia, onorare il patto fiscale con la società, tutelare la propria dignità. E che la punizione per il mal lavorare non è l’inattività, ma un altro lavoro, semmai più duro, più faticoso. Per quanto mi riguarda farei lavorare anche chi ha un debito con la giustizia e deve alla comunità. E questo finché non matura un’età, da concordare mediante un patto, raggiunta la quale si ha il diritto di riposarsi e il dovere di non privare i più giovani delle opportunità di lavoro.
Per cui non plaudo all’introduzione della licenziabilità nel pubblico impiego, soprattutto non nei termini di una manovra economica, semmai sì lo farei come affermazione del dovere che tutti abbiamo di far bene ciò per cui si vien pagati. Avrei pareggiato la disparità tra dipendenti pubblici e privati non attingendo alle regole del caso per cui domani non si sa di cosa si vivrà, ma rendendo praticabile il motto che chi sgarra paga.
Ho lavorato mio malgrado, da Co.co.co di lusso, per dieci anni nella pubblica amministrazione, convinto di dover far bene, con coscienza, scrupolo e professionalità per mantenere il mio posto (mi sbagliavo, altro conta), e so per esperienza che punire il lavativo o istigare al decoro verso se stessi o pretendere professionalità è praticamente impossibile, il massimo a cui si può arrivare è la non premiabilità. E ho visto lì sindacati appiattiti sulla tutela del privilegio e la protezione dell’amicizia, sulla battaglia di principio per i propri mal di pancia e la resa incondizionata dinanzi ai soprusi e all’affossamento dei principi. Ipotizzo anche che vi sia un esubero di manodopera nella macchina pubblica, che tuttavia s’inventa ogni giorno bisogni fasulli per quell’elefantiasi. Ma niente di tutto ciò mi porta a rallegrarmi di una falcidiata ragionieristica dei colletti bianchi o simili.
Suppongo tuttavia che anche questo sarà digerito, perché purtroppo la conquista dei diritti ha instillato anche un’odiosa deresponsabilizzazione dietro la quale molti si nascondono finché non giungerà il loro turno.
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