Crescita e decrescita

In un articolo su La Stampa di oggi, mercoledì 22 agosto 2012, l’economista Irene Tinagli argomenta con ragionevoli e convincenti motivazioni le obiezioni ai sostenitori della decrescita felice, vale a dire di quelle teorie «riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche» secondo le quali si vivrebbe meglio ripensando l’attuale sistema dei consumi e sottraendosi all’assillante monito di incrementare continuamente il Prodotto interno lordo.

Irene Tinalgli

Secondo la Tinagli queste teorie «che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento» sarebbero un’illusione romantica. La conclusione del suo articolo è questa (i corsivi sono miei): «Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e non tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro».

Il Prodotto interno lordo, trascrivo da Wikipedia, è «il valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese in un certo intervallo di tempo, solitamente l’anno, e destinati al consumo dell’acquirente finale, agli investimenti, alle esportazioni. Non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi di beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi».

È insomma il valore di tutte le ciotole di riso, dei plateau di ostriche, degli I-Phon, delle colecistectomie, degli antinfiammatori non steroidei, dei Suv, delle linee Adsl, delle copie di Cinquanta sfumature di grigio, dei pieni di benzina e quant’altro consumati in un anno. Se si sommano i valori del Pil realizzato in ogni paese si ha il Pil mondiale.

Una crescita senza sosta è ipotizzabile fin quando ognuno dei sette miliardi di individui che popolano il pianeta non avrà:

1. un sufficiente apporto calorico quotidiano; 2. la possibilità di ricevere le cure necessarie qualora abbia una malattia; 3. l’istruzione necessaria a consentirgli di esercitare un mestiere e di comprendere ciò che gli sta intorno nonché a godere, qualora ne abbia voglia, dei capolavori che l’umanità ha prodotto in una decina di migliaia di anni; 4. un tetto sotto cui vivere con chi vorrà, solo o in compagnia; 5. un sostegno almeno materiale nel momento in cui il suo fisico gli impedirà di provvedere da solo a se stesso; 6. un lavoro con cui garantire a se stesso e agli altri 6.999.999.999 individui quanto previsto nei punti 1-5.

Siamo ben lontani da questa situazione, ma, per capirsi, non produciamo meno alimenti di quanti ne servirebbero per sfamare tutti. Pur di produrre profitti che rendano ricco qualcuno, buttiamo via il surplus, a volte solo per tenere alto il prezzo. Le proporzioni sono note: l’80 per cento della ricchezza è nelle mani del 20% della popolazione e di conseguenza 8 persone su dieci si accapigliano per un ventesimo della torta.

L’aumento del Pil solo in minima parte va nelle tasche anche di chi le tasche non le ha nemmeno. Per lo più incrementa il divario, allarga il fossato.

L’espressione decrescita felice a me non piace. La felicità, se esiste, sta altrove. Potremmo al massimo parlare di benessere. E di dignità.

La ricetta della Tinagli va benissimo: si cominci subito a redistribuire e a pensare a uno sviluppo sostenibile. Dove ci siano anche differenze di reddito, ma non baratri. Dove il profitto appunto venga reimpiegato per aumentare il benessere complessivo del pianeta, non per aggiungere una villa alla collezione di immobili: meglio i francobolli o le figurine, se si han di questi diletti.

Ma per redistribuire e pensare a uno sviluppo sostenibile si deve passare per una definizione di cosa è indispensabile per tutti e cosa non lo è. E lo si deve fare ora, non un giorno, si vedrà.

Qui, Irene Tinagli non è d’accordo. Contesta quello che sempre su La Stampa aveva scritto Guido Ceronetti, vale a dire la necessità di distinguere tra bisogni essenziali e bisogni che essenziali non lo sono ma sono stati instillati solo per creare nuovi profitti e, ovviamente, un’esponenziale crescita del Pil.

La «distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali – scrive Tinagli – non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia. Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro».

Il ragionamento è giusto. E infatti sarebbe sciocco essere per principio contrari alla crescita. È chiaro che se non ci sono case per 7 miliardi di individui, gli appartamenti devono crescere fino a diventare appunto 7 miliardi. E anche alla eventuale mancanza di cavolfiori o aspirine si deve provvedere in questo senso, se del caso lavorando più di quanto si è fatto finora.

Ma nel frattempo è indispensabile che i soldi per comprarsi il terzo o quarto modello di Rolex siano destinati a uno che non ha neanche lo Swatch o uno di quei baracchini in plastica da mercatino delle cianfrusaglie.

Se non continuiamo a tenere in piedi uno sviluppo che genera sottosviluppo e quest’ultima parola, sempre meno usata, è la chiave del ragionamento: sviluppo laddove non ce n’è e non ce n’è stato, decrescita laddove le merci straripano. Oppure, se lì si vuol continuare a produrre, redistribuzione del profitto lì accomulato.

La felicità davvero sta altrove e sbaglia chi continua a credere e a far credere che si possa comprare in un negozio luccicante e ben illuninato.

Un’ultima cosa. È vero, sarebbe inquietante lo «scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è». Ma non è meno inquietante quello in cui stiamo vivendo, dove qualcuno decide tutto quello che è essenziale per se, cosa deve esserlo per te, e chi sono quelli che non hanno bisogni essenziali.

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