L’omicidio della mediazione

Politica e società.it è il sito dell’omonima associazione, fondata da Vannino Chiti, di cui sono stato direttore responsabile fino a qualche mese fa, lasciando poi l’incarico che è stato assunto da Paolo Ranfagni. Sito per il quale ho scritto questo articolo intitolato Contro la mediazione rimossa: idee, identità, dialogo. Riflessioni su un articolo di Michele Ciliberto:

Michele Ciliberto

Su l’Unità del 21 agosto Michele Ciliberto ha pubblicato un interessante articolo che meriterebbe attenzione da parte dei gruppi dirigenti delle forze che si propongono una alternativa ad uno dei più orrendi periodi della storia italiana, ovvero sia una svolta radicale che consenta di arretrare dal baratro su cui il paese è in bilico.

Non intendo da parte solo del Pd, e neanche solo di Sel o Idv, ma anche di chi, pur essendo conservatore, centrista o addirittura di destra, avesse davvero a cuore le sorti degli italiani. L’articolo si intitola Chi ha ucciso la mediazione e indica appunto nella decadenza della “mediazione”, «un elemento importante della crisi attuale della democrazia italiana».

Merita ripercorrere i punti salienti del ragionamento di Ciliberto. Usando il termine mediazione, scrive, «non mi riferisco a una tecnica della discussione o a uno strumento di tipo strettamente politico, ma a una concezione generale, a un modo di considerare la realtà – compresa la politica – e di intervenire in essa. In modo esplicito o implicito, diretto o indiretto, la mediazione è stata uno dei principi fondamentali che hanno presieduto alla vita della prima Repubblica; mentre nella seconda, soprattutto nella fase della sua decomposizione, sono prevalsi in genere atteggiamenti – e un lessico- che in senso generale si possono definire di tipo “estremistico”».

Il tramonto della cultura della mediazione coincide per Ciliberto con «la crisi delle culture dell’antifascismo e la fine della politica di massa e dei partiti che hanno strutturato la vita della prima Repubblica». Erano partiti “interclassisti” «con una forte consapevolezza dell’“intero”, ma con una altrettanto vigorosa attenzione per le “parti” e per la loro specifica autonomia. In questo senso erano partiti naturaliter statali, attenti alla complessità e alle dinamiche della società civile», sia che fossero di matrice cattolica, marxista o, aggiungerei io, laica e liberale.

Condividendo la «tradizione dell’antifascismo», avevano «una forte considerazione per il bene comune, per l’interesse generale e anche per l’etica pubblica». Erano conquiste da ripristinare dopo la notte della dittatura.

Precisa Ciliberto di riferirsi all’«epoca aurea di questi partiti, prima dei processi di corruzione e disgregazione che portarono alla seconda Repubblica, quando questo impianto saltò completamente ed il principio della mediazione venne prima contestato in modo frontale, poi ridotto a una caricatura di se stesso».

Qui sarebbe opportuno ricordare che «l’epoca aurea» era quella degli aiuti internazionali da parte dei due blocchi contrapposti, per mezzo dei quali i costi della politica erano maggiormente sostenibili mediante la partecipazione democratica e spontanea, ma soprattutto mediante il sostegno di potenze tese a perseguire obiettivi in alternativa l’uno con l’altro (statalismo vs. liberismo, socialismo vs. democrazia), ma essi stessi sottoposti alla mediazione (guerra fredda).

Contrapposizione che non si è risolta con il predominio dei secondi termini dell’alternativa (il liberismo e la democrazia) ma con la nascita di un impero globale del libero mercato che mette in discussione anche l’esistenza degli Stati e delle res-publiche ed è l’estremizzazione di quelle idee, ma anche il loro svuotamento.

Tornando al ragionamento di Ciliberto, egli sostiene che «nel periodo berlusconiano, entrano in profonda crisi insieme al principio della mediazione, […] le forme della rappresentanza e della partecipazione democratica, a tutti i livelli». I partiti, aggiunge, «diventano strumenti in mano ai singoli leader». E precisa: «con l’eccezione del Pd che si sforza di ristabilire un rapporto con il proprio elettorato attraverso lo strumento delle primarie, ricorrendo cioè alla democrazia diretta. Risorsa importante, certo, ma non tale, almeno a mio giudizio, da riuscire da sola a contrastare la crisi della nostra democrazia che oggi è drammatica».

Il risultato è per Ciliberto «un processo di “feudalizzazione” del potere in molti gangli della società italiana. […] nel Paese si è formata una serie di nuovi centri di potere grandi e piccoli che, muovendosi nelle macerie della rappresentanza democratica, procedono in modo autonomo seguendo proprie logiche e propri obiettivi ed usando comportamenti e lessici coerenti e funzionali alle loro strategie».

Perciò è necessario «ristabilire le fondamenta della democrazia rappresentativa, ridare credibilità e legittimità al Parlamento anche come luogo di formazione delle élite, ricostituire l’equilibrio dei poteri, dar vita a un governo politico chiudendo la stagione dei tecnici e ripensare, anche, in una nuova prospettiva i rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta».

Si tratta dunque, sostiene ancora Ciliberto, di «sconfiggere l’ideologia “estremistica”», e ristabilire «il reciproco riconoscimento degli interlocutori, delle loro posizioni, anche dei loro “principi” (quando ci siano, naturalmente, il che non è scontato)». E quindi di recuperare la mediazione «non come rispecchiamento della situazione, né come acquiescenza allo stato di fatto. Ma come capacità di stabilire un punto di equilibrio dinamico tra esigenze e posizioni contrastanti, a volte in modo radicale, producendo una nuova situazione nella quale esse possano essere riconosciute e anche potenziate nella loro specificità e, al tempo stesso, configurarsi come momento di un nuovo più avanzato e condiviso punto di vista. Mediazione, in breve, come strumento per mettere in relazione “opposti” che sembrano irriducibili e incompatibili».

Conclude Ciliberto: «come non c’è rapporto tra estremismo e bipolarismo, così non c’è contrasto fra mediazione e bipolarismo. […] il bipolarismo della seconda Repubblica è stato, in effetti, una forma di trasformismo; mentre la mediazione è il contrario del trasformismo perché presuppone il riconoscimento dell’altro nella sua determinazione e specificità per potersi realizzare».

L’intento di chi scrive era solo quello di richiamare l’attenzione di chi segue Politica e società su queste preziose considerazioni del docente di filosofia fiorentino. Davvero possono essere utili nel momento in cui si va formando la proposta politica per la prossima legislatura che, ragionevolmente, o sarà per il prossimo ventennio o non sarà. La posta in gioco è troppo alta per il piccolo cabotaggio. O se si preferisce i problemi sono troppo grossi per essere liquidati in una tornata elettorale.

Ma allora siano consentite un paio di chiose al ragionamento di Ciliberto. La mediazione, affinché non sia un accorduccio a tarallucci e vino per conservare proprio quei «nuovi centri di potere grandi e piccoli» – la  «“feudalizzazione” del potere» – di cui riferisce lo studioso, ha bisogno di contenuti “mediabili”. Di forti e persuasive idee contrapposte che restino vive anche dopo essere state mediate e perciò siano consapevoli e provvisoriamente soddisfatte dall’essere tali, come il massimo ottenibile per ora, come ciò che garantisce il rispetto del proprio intendimento e della propria aspirazione una volta messo a confronto con l’intendimento e l’aspirazione dell’altro, del diverso. Dell’avversario inteso non come nemico ma come avverso, diverso.

E allora, tanto la cultura politica della sinistra, quanto quella della destra e pure quella del centro che non può essere un indistinto portabile di qua o di là a seconda di come tira il vento e di come suggerisce la convenienza, hanno bisogno di caratterizzarsi, di definirsi, di stabilire i pilastri del proprio pensiero e, mi sia consentito, prima ancora di essere un pensiero.

Perché è questo che l’omicidio della mediazione, o del confronto, se si preferisce, ha prodotto: la morte del mediabile, del confrontabile, del degno di esser detto anche se sgradevole e fastidioso e più difficile da dipanare.

Personalmente ritengo che il Pd non sia esente da questa malattia. Che se è riuscito a non farsi trascinare – finora almeno, anche se c’è chi lavora per questa sciagurata prospettiva –, nella fascinazione delle pailettes del “guru” di turno, non si è sottratto alle logiche della simpatia a questo o a quel volto (piacione, buonista, cinico, pasionario, imberbe, spiccio, informale), barattando talvolta su questo altare la forza delle convinzioni, dei comportamenti, della credibilità, dei valori condivisi.

Certo, c’è un problema di “mediazione” interna, la questione delle tante anime. Ed è da lì che si parte. Servono identità. Anche individualità: somme di più individui, squadre, non santini, carismi, ego, yes man. Delle loro coscienze, non delle loro facce. Il mondo non è Facebook.

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