Testa fra le nuvole
Confesso che quando ho strappato il pacchetto nel quale era stato ben confezionato, ho provato sensazioni ambigue, non tutte immediatamente positive. Non ricordavo, francamente, di dover esigere un credito, vale a dire un tardivo regalo di compleanno che mi era stato preannunciato, e mi son trovato un po’ spiazzato. Le edizioni del libro contenuto nel pacchetto, poi, ignote e non sfarzose, mi hanno indotto a pensare che si trattasse di qualcosa di minore, una delle tante pubblicazioni che si affastellano e resteranno lì, e solo dopo ho riflettuto su quanto schiavo anch’io sia dell’apparenza, del logo, del cliché masticato e rimasticato, e perciò stupido.
L’autore mi era sconosciuto e chiaramente francese, per i quali, con tutto il rispetto, non provo epidermicamente la stessa attrazione che mi fa, nell’ambito delle lettere, un austriaco o un tedesco, e anche qui non posso far altro che riconoscere la mia stupidità. E poi il titolo. Una sola parola, un sostantivo maschile, un “oggetto” al quale ho guardato tante volte ed anche con molta attenzione, ma talmente familiare e consueto da sembrarmi impossibile che ci si possa dire sopra alcunché, che ci sia da scriverci, se non qualcosa di “romantico” tutto sommato liso e deja vu.
Il libro è Nuvole di Gilles Clément, pubblicato in Francia da Bayard nel 2005 e in Italia da DeriveApprodi nel 2011 (pp. 120, € 14 lo si può acquistare qui con lo sconto).
Antonella Blanco che me l’ha regalato in virtù anche, credo, di pensieri, logiche, opinioni condivise per tramite delle quali sembriamo avere analogo o medesimo apprezzamento verso certi autori e tra questi Thich Nhat Hahn, dai cui scritti questa amica ha tratto la frase usata come dedica: «Se sappiamo vivere la vita di una nuvola vediamo che è meraviglioso essere una nuvola che fluttua nel cielo, quanto lo è diventare pioggia o neve che cade sulla terra. (…) Noi siamo non solo esseri umani, ma anche fiori, montagne, acqua calma e spazio».
Dovrò decidermi un giorno a dire qualcosa di più di mio riguardo questo monaco buddhista vietnamita i cui insegnamenti ho cercato di apprendere in un ritiro spirituale dedicato alla meditazione che alcuni anni fa mi sono concesso presso uno dei monasteri che fanno capo alla sua congregazione, anche se mi piacerebbe di più dire al suo progetto di pace e benessere. Ma qui ora mi preme occuparmi del libro di Clément e spiegare perché ne consiglio la lettura.
Gilles Clément è un paesaggista, botanico e giardiniere. Qui racconta, come in un diario di bordo, di un viaggio sulla Monteverde, un cargo portacontainer salpato da Le Havre il 18 settembre 2004 e giunto a Valparaiso il 18 ottobre. Lui è un ospite, può osservare. Ha con sé un bagaglio sterminato: chimica, fisica, botanica, zoologia, tanta e tanta meteorologia, cospicue dosi di storia della scienza, certamente geografia, conosce usi e costumi, sa di astronomia, termina il suo viaggio sulla poltrona di Neruda che si chiamava Nuvola.
Il linguaggio è asciutto, frammentario, sembrano spesso appunti, in certi tratti semplici annotazioni. I paragrafi sono separati l’uno dall’altro da una riga di bianco, spaziosa, aerata, che rende il testo fluttuante come fossero nuvole appunto. Mescola report da laboratorio a osservazioni incantate, di chi prova stupore e ci riporta a quell’estasi della scoperta che deve aver scombussolato il nostro avo più antico dinanzi al fulmine che gli squarciò il cielo dinanzi ed elettrizzò la sua pelle coriacea facendolo tremare, ma anche Galileo Galilei quando osservò il lampadario del Duomo di Pisa ondeggiare e rivelarci ovvietà che ancor oggi tenderemmo a voler emarginare nel ghetto dei tabù.
Dice cose che se non si è del mestiere si ignorano, o se ne hanno solo approssimative e vaghe rappresentazioni, accenni di nozioni e che non sono affatto insignificanti, decorative o accessorie come si potrebbe credere – si dovrà prendere l’ombrello o farne a meno? ci son le pecorelle e l’acqua a catinelle? cosa è raffigurato, amore, in quel nembo lassù? – perché questo strato di umidità che ci circonda e sfugge ai nostri voleri e fa come gli pare, è vitale e Clément te lo spiega benissimo e ti accompagna in tutte le derivate, le implicazioni, i corollari.
Ma la cosa che più mi ha colpito è la ricchezza del linguaggio, la varietà delle parole, soprattutto quelle tratte dai vocabolari specifici che servono per descrivere la natura, la scienza e la tecnica – mangrovie, frattali, rugiada, cumuli, madreperlacee, batuffoli, estuario, limbi, dissipare, chiglia, alisei, fresa, carapace, pervinca, maroso – e leggendole mi è parso che la poesia possa scaturire da esse solo pronunciandole, ed anzi che essa sia già racchiusa in ciò che esse significano, nell’oggetto che indicano, e, di più, che sia la stessa natura ad essere verso, strofa, carme, come credo dicesse qualche antico di cui ora mi sfugge il nome.
Spiegando qualcosa circa il funzionamento dei sistemi biologici – dell’adattabilità o, viceversa, talvolta, della resa e del perire possibili all’interno di essi – e servendosi di un “giardiniere” come prototipo dell’agire umano che interferisce spesso con questi sistemi, Clément scrive: «La tempesta attiva i processi. L’ambiente sollecitato s’interroga, il giardiniere anche. Se vuole proseguire a fianco delle tempeste, il giardiniere deve essere elastico, inventivo e biologicamente ampio? Deve applicare questa elasticità a tutto il suo quotidiano? Costruire una casa piegabile, gonfiabile, evolutiva? O lasciare che sia fatta a pezzi dalle raffiche di vento? Fatta eccezione per il nomadismo planetario – rituale – nel quale la tenda, la iurta, la baracca fanno le veci della casa mobile, tutti abitano solidi edifici ancor più apprezzati in quanto insensibili agli eventi esteriori. La tendenza edificatrice, nella sua evoluzione, non è quella di accompagnare le forze che la circondano, ma di opporvisi»(p. 78).
Mi è venuto in mente mio fratello Davide che vive a Scrub Island nei Caraibi dove belle ragazze e baldi giovanotti dai nomi ordinati alfabeticamente – Nadine, Oscar, Patty, Rafael, Sandy, Tony, Valerie, William – si scatenano ogni anno alla festa degli uragani e dopo lungo pensare si è costruito più una capanna che una casa – Wali Nikiti – perché il respiro del vento, come dovremmo fare noi esseri umani, passi lì dentro e possa uscire com’è entrato.
Caro Daniele,
l’editore che mi era stato consigliato non ha ancora neppure sfogliato il mio scritto (racconto sulla morte di mio padre, in trecciandosi con unessere ibrido, l’ermafrodita e i tre simboli di NIetzsche (Cammello, leone e il bambino). Avresti tempo di adarmi una mano per trovare un editore che abbia voglia di una storia (vera) e insolita? Hai una email privata??? la mia grecordati@gmail.com
Adoro Thich Nhat Hahn che ho letto in francese e conosco bene la sua philosophia. Uomo interessante, molto. Devo cercarmi questo libro che non ho. Un salutone da Parigi,
Gio
Giovanna RECORDATI