Tanto rubano tutti

All’epoca di tangentopoli Umberto Eco scrisse su l’Espresso un bel pezzo spiegando quanto fosse sciocco e insensato sminuire le responsabilità di chi era stato colto con le mani nel sacco dicendo che “tanto rubano tutti”. La frase “son tutti ladri” non sta in piedi. E ci ricordava il semiologo che l’unica cosa che possiamo dire di condividere indistintamente tutti è la morte: democratica e universale.

È una tiritera antica quella del vicino di casa: siccome il barista non mi batte lo scontrino ed evade il fisco, nel 730 ometto anch’io. Cioè, in altre parole, considerato che il 9 agosto 1969 Charles Manson sterminò la moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, di 26 anni e incinta di 8 mesi, il suo parrucchiere Sebring, il signor Frykowski, la signora Folger e Stephen Earl Parent, un amico del guardiano della villa dove avvenne l’eccidio, è saggio diventi anch’io un serial killer. O, siccome tutti si stanno buttando in un pozzo, li seguo.

Ma ormai il coro “son tutti uguali” dilaga, ed ovviamente non produce un’alternativa a questo sfascio, perché se son tutti uguali non ce n’è neanche uno che possa esser in altro modo, diverso, non identico. Nemmeno, ovviamente, quello che, indignato e protestatario, grida “son tutti uguali”, perché se son tutti uguali anche lui è uguale e della stessa pasta. E infatti, se si va a vedere chi sbraita, non è raro trovare qualcuno che ha in uggia la dichiarazione dei redditi, fa il doppio lavoro, riscuote in nero e, magari, fa anche stragi alla Manson.

Qualcuno o tutti? Fossero tutti, a quattro vittime sul gozzo l’uno, la demografia subirebbe un duro colpo e l’asteroide apocalittico sarebbe uno starnuto di zanzara al confronto della fine del mondo prossima ventura innescata dalla progressione geometrica del serial killer. Per cui non si senta necessariamente infamato da me chi si lascia scappare quel “son tutti uguali”, non gli ho dato di evasore ed assassino, a meno che non lo sia, ma anche in tal casa sarebbe un tribunale a dovergli appiccicare l’appellativo (e la condanna).

In virtù di queste ragioni comprendo assai bene l’indignazione dell’onesto a cui vien attribuita anche solo la frequentazione con il mascalzone, se non addirittura l’illecito. Per cui non ci sto al gioco al massacro, né che lo si faccia su uno scranno del parlamento, né che lo si consumi al bar sport esaurito l’argomento del rigore sbagliato.

C’è però un altro aspetto che va preso in considerazione quando si ragiona di queste cose in politica. Ci sono formazioni politiche che una qualche forma di disonestà la postulano e la teorizzano. Ne sono magari “onestamente” convinte, ma anche del fatto che si possa esser disonesti: arricchirsi sulle spalle altrui, allargare il baratro tra debole e forte, condonare l’illecito, sanare l’irregolarità, chiudere un occhio e all’occorrenza anche tutti e due. Ce ne sono altre, invece, che la pensano in maniera diametralmente opposta, e tra i cui ranghi può celarsi chi è “disonestamente” onesto. A entrambe sarebbe richiesta coerenza. Già: coerenza.

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