Il correttore di bozze
Per quanto ne so – e mi piacerebbe essere smentito – nei giornali, ma anche nelle case editrici e nelle tipografie più grosse, la figura del correttore di bozze è scomparsa o in via d’estinzione. Forse qualche giovane lettore ignora anche chi fosse, che ruolo avesse, cosa facesse.
Essendo anch’io sulla strada del tramonto, ed anzi già rottamato e fatto scivolare senza scivoli alla stagione dei remi in barca o della racchetta appesa al chiodo, mi sento in dovere, nei confronti di questo giovane lettore, di lasciargli testimonianza, di regalargli una memoria che, se sarà premuroso, potrà conservare e custodire per sé e per il prossimo, impedendo così che si perda traccia di un’estinzione.
Il correttore di bozze, dunque – deve sapere il mio giovane lettore –, era una persona a cui era affidato il compito, subito prima di andare in stampa, di rileggere qualsiasi cosa venisse pubblicata, onde evitare che errori, refusi, incongruenze rimanessero nel testo per distrazione dell’autore, del dattilografo, del linotipista.
Ho scritto «subito prima di andare in stampa», ed un buon correttore di bozze che stesse rileggendo avrebbe da obiettare che il suo lavoro sarebbe potuto intervenire anche molto prima, vale a dire subito dopo la composizione del testo, quando esso è ancora solo in colonna e non ancora impaginato, ovvero sia una lunga strisciata di righe, senza le interruzioni che il salto di pagina costringe potendo creare slittamenti o brutture – vedove, mozzini e disallineamenti – che vanno anch’essi eliminati.
Perciò ci poteva essere un primo giro di bozze e poi un secondo e anche un terzo, e francamente l’operazione si potrebbe ripetere all’infinito senza escludere la possibilità che ad ogni revisione si riscontri una nuova incongruenza, una distrazione, una svista, una banalissima dimenticanza come un accento saltato o una doppia laddove non ci vuole.
C’è chi sostiene che i refusi sian diavoletti dispettosi capaci – non è chiaro se per partenogenesi o a causa delle copule che in un testo non possono mai mancare – di autoriprodursi nel cuore della notte quando anche il correttore di bozze è esentato dalla veglia e dall’obbligo di tener alta la guardia. Il che indurrebbe a credere che una stesura perfetta non esista, e non necessariamente perché Shakespeare o Dostoevskij non l’abbiano raggiunta, anche se c’è da supporre che pure qualche fuoriclasse abbia fatto i suoi errori, ma perché dal loro scritto all’edizione in commercio si affastellano troppe mani su quelle pagine e ad ogni passaggio il rischio della contaminazione non è dissimile da quello a cui va incontro chi manipola gli alimenti.
È chiaro dunque che il portatore sano di errore può esser lo stesso correttore di bozze, il quale, se non è sufficientemente ammascato, del mestiere, col suo bel bagaglio di cultura ed esperienza visita questo sito, nonché animato dal sacro fuoco del dubbio e da quel pizzico di modestia che non guasta mai, o qualora si deconcentri, pisoli e vaghi altrove, anziché diserbare potrebbe sparpagliare, aspergere e disseminare.
L’eccesso di zelo con cui si ponesse dinanzi alla celebre risposta in latino «Ibis redibis non morieris in bello» – che si narra la Sibilla dette al soldato andato a consultare l’oracolo prima della battaglia –, priverebbe la frase del suo carattere volutamente ambiguo, svuotandola del suo doppio senso che la scrittura dell’epoca, dotata di pause nell’intonazione, ma non ancora di segni di interpunzione, conferiva al motto giustappunto “sibillino”.
Se, in buona fede, nel tentativo di render meno ermetica e perciò comprensibile al lettore la sentenza, vi aggiungesse un paio di virgole – che son poi due virgole? Si dice, no? «Sei una virgola» –, il disorientato centurione apprenderebbe sì la ferale notizia oppure, di contro, tirerebbe un sospiro di sollievo, ma avremmo perso la veridicità del responso e tutto il suo carattere di indeterminatezza e mistero.
Subito dopo «Ibis», immediatamente accanto senza il minimo spazio, traccerebbe un segno che potrebbe somigliare a una Y ribaltata o a una stecca con un pallino appiccicato, riportando questo stesso segno a fianco della riga dove vien fatto tale intervento, scrivendoci accanto la nostra virgola – eccola , –, e un’operazione simile – servendosi di un segno diverso dalla Y o dalla stecca con pallino, un affare fatto così ‡ per esempio –, un’operazione simile, si diceva, l’eseguirebbe a fianco di «redibis», così che noi leggeremmo la frase «Ibis, redibis, non morieris in bello» che significa «Andrai, tornerai, non morirai in guerra».
Ma se a buon diritto o ragione veduta, o anche per sbaglio, quell’affare fatto così ‡ e relativo riporto a fianco della colonna di testo corredato di virgola – questa , – la ponesse anziché dopo «redibis», dopo «non», il significato dell’intera frase, che ora risulterebbe «Ibis, redibis non, morieris in bello», cambierebbe stando a significare «Andrai, non tornerai, morirai in guerra».
L’ambiguità originaria sarebbe stata cancellata e il correttore di bozze avrebbe fatto uno sbaglio anziché toglierlo.
José Saramago, che secondo me è stato un grande scrittore anche se la sua scelta di far abbondantemente a meno della punteggiatura talvolta è esasperante e risulta artefatta, intorno all’errore volontariamente immesso in un libro da un correttore di bozze – l’aggiunta di un semplice “non” –, ci ha scritto un intero splendido romanzo, Storia dell’assedio di Lisbona, e addirittura ha cambiato la storia come i famosi dieci giorni che sconvolsero il mondo o le porte del metrò che si chiudono in faccia a Gwyneth Paltrow.
Più recentemente Francesco Recami, scrittore fiorentino che certamente ho incrociato ai tempi del liceo, ha scritto un romanzo breve pubblicato da Sellerio intitolato proprio Il correttore di bozze, che ho trovato affascinante nella parte descrittiva dell’ossessione di chi deve rimandare pulito un testo in tipografia, mondandolo di errori e refusi, più contorto e confuso nell’architettura della storia che sembra a fatica cercare un’improbabile conclusione.
Ma il tratteggio più avvincente di questa figura di lavoratore taciturno e pignolo, tenace e modesto, sempre in ombra, un passo dietro, tanto ossequioso quanto determinato, è quello che si trova nel piccolo gioiellino di George Steiner, scrittore e saggista francese, docente di letteratura comparata a Princeton, Stanford e Oxford, che nel 1992 ha mandato alle stampa Proofs, il Professore, in italiano tradotto Il correttore.
Perché si ispira, come lo stesso George Steiner dichiara in questa intervista rilasciata al Corriere della sera, a Sebastiano Timpanaro, uno degli intellettuali più raffinati e acuti – e tristemente dimenticati in questo paese – che a me sia mai capitato di leggere, una di quelle figure a cui guardare con deferenza e ammirazione, che purtroppo, benché fosse molto amico del mio ex suocero, non ho mai avuto l’opportunità di conoscere.
Timpanaro, la cui sola militanza politica sarebbe degna di memoria e rispetto, spaziava tra la filologia classica, la critica letteraria e la filosofia – impossibile capire il poeta di Recanati senza aver letto il suo La filologia di Giacomo Leopardi – con una lieve gravità oggi quasi impensabile e drammaticamente assente, che – incredibile dictu! – «scelse di rifiutare la carriera di insegnamento universitario», guadagnandosi da vivere appunto anche acchiappando sfondoni nei libri.
Forse non fu «modestia», ma «disagio personale», poco importa, ma la dice lunga, restando al nostro argomento che è quello del correttore di bozze, su un uomo che nei difficili testi classici andava a far le pulci, a cercar l’inezia che poteva stravolgere il significato, la svista potenziale causa del pregiudizio o della cantonata, l’«adde» (aggiungi) o il «delete» (cancella) che può cambiar la storia.
«Cassa», mi correggerebbe un buon correttore, ovvero elimina e fai proprio sparire, bianchetta si direbbe oggi, ché «cancella» vuol dir lasciarne traccia, solo ricoprire con un cancello simile a questo # la parola incriminata.
C’è una cosa splendida che va colta e sottolineata in questo «gergo» di simboli adottato dal correttore di bozze, dove c’è un preciso segno che indica «avvicina», un altro «distanzia», uno «metti in corsivo» e l’altro «metti in neretto», dove si chiosa, si glossa, si postilla, si introducono smarrimenti e si espungono raddoppi, distinguendo tra un linguaggio e un metalinguaggio, tra quel che è da riportare e quel che serve solo per districarsi o riflettere, ripensare, suggerire: era un linguaggio tra un intellettuale o lavoratore della mente, il correttore di bozze, un altro intellettuale più altolocato, l’autore, e lavoratore della mano, un operaio, scelto e di serie A, magari, ma pur sempre un operaio, il linotipista, il proto, il banconiere. Un dizionario che consentiva a diversi di comprendersi fra loro, a ciascuno di fare il proprio mestiere, a cooperare per raggiunger un solo medesimo tendenzialmente perfetto risultato. Un dizionario attento alla sostanza, al «putto» trasformato in «rutto» o al «rutto» trasformato in «ratto» e ovviamente al «ratto» divorato da un «gatto», per non intender fischi per fiaschi, ma attento anche alla forma, al bello, che non è come si intende oggi solo apparenza.
Un mozzino, una frase cioè che termina con un rigo il quale contiene solo la parola «ora.», era brutto da vedersi. E una vedova, la conclusione di un capoverso che va a pagina nuova restando come sospesa per aria con troppo bianco intorno, faceva inorridire quelli che, appresa la lezione di Manunzio, Bodoni o Baskerville, stavan nel settore delle «arti grafiche», localacci bui dove imperversava il tanfo dell’ammoniaca e le mani ci si sporcavano davvero, ma in altro senso.
Ovviamente la colpa di tutto la si può dare a Steve Jobs e al suo delirio di dar la tipografia in mano al popolo, e ognuno a casa sua, o a Bill Gates se si preferisce, perché su Mac gira QuarkXPress che perizia e rudimenti lo richiede, mentre la pretesa di impaginare con Word è un delirio come quello di chi a Montecarlo ci andava con l’Abarth 595 e gli scappamenti segati. O la si può dare al 68 e alla scuola per tutti. O al correttore automatico, il quale suggerisce di modificare Timpanaro in «impanato», Schnitzler in «schnitzer» che in tedesco vuol dire «papera, cantonata o strafalcione», o in «schnitzel», perché essendo viennese potrebbe forse essere una «Wiener Schnitzel», una cotoletta alla milanese, anch’essa impanata.
Io non credo, anche perché alle colpe non credo, e se devo trovar un responsabile – qualcuno a cui chieder conto, da cui pretendere una risposta e, se del caso, esigere il risarcimento –, lo trovo nel fatto che questo progresso è stato solo per far soldi, o meglio per spenderne.
Non si spiega altrimenti la scomparsa del correttore di bozze se non con questa ossessione al risparmiar da qualche parte per accrescere il profitto dall’altra, ovvero sia al disinteressarsene di far le cose bene, basta farle e venderle per poi venderne di nuove quando l’aggeggio sarà guasto come il nostro cervello.
I protocolli di controllo qualità, gli addetti alla supervisione del prodotto, i marchi che certificano e dan le stellette, fanno ridere dinanzi allo scrupolo e alla pedanteria del nostro correttore, capace di perderci la vista a scorrer quelle righe.
Il personaggio di Steiner – com’era probabilmente per certi versi davvero Timpanaro e forse prima di lui quello scassaballe di Leopardi –, votato alla cecità pur di vederci chiaro e ambire alla sinderesi – in breve il discernimento – rifiuta il refuso, ha orrore dell’errore, esalta l’esattezza e persegue la precisione. Sulla pagina e fuori.
Il risultato prodotto da questo purtroppo consapevole rifiuto della correzione è un male che si è radicato prendendo anche altre strade. Prima di analizzarlo è indispensabile precisare che la figura del correttore di bozze è, o era, diversa da quella del redattore, che ormai si è accettato, abdicando, di chiamare editor.
L’uno, come si spera di aver spiegato, si concentrava, a testo già composto, cioè scritto e trascritto con una linotype prima e un computer poi – il quale computa e compone, prima di far navigare e stare in chat – prevalentemente sulla presenza di errori tipografici, quindi, in un certo senso, leggendo solo in superficie, non nel significato delle parole e dei concetti da loro espressi nella loro concatenazione in un determinato modo.
Certo, se il significato di ciò che stava leggendo non gli era chiaro, e ignoto il contesto entro il quale si stava muovendo, difficilmente avrebbe scorto che si sarebbe trattato di un errore la frase «l’America fu scoperta nel 1942» anziché «nel 1492», o «morì per un colpo apocalittico» anziché «apoplettico».
Ma il suo compito propriamente non era quello di verificare la veridicità di quanto affermato, la congruità del sostenuto, gli abbagli concettuali, la ridondanza del periodare, la scorretta coniugazione dei verbi, l’abuso di certe parole, la presenza di ripetizioni.
Questi compiti spettano, o dovrebbero spettare, al redattore, e talvolta prima ancora al direttore di collana o al consulente specificamente ferrato nella materia di cui tratta il libro. Richiedono ovviamente un’enorme preparazione culturale. Bisogna capire, comprendere, farsi venire i dubbi, porsi domande e darsi risposte, diffidare, esser scettici, non dare per scontato, calarsi nella trattazione e restarne distaccati, rifuggire dai sensi di sudditanza o di inferiorità nei confronti del gigante di cui si ha in mano l’opera perché errare humanum est, lo sbaglio appartiene a questo mondo.
Nell’industria editoriale anche questa figura da tempo vien sempre più spesso considerata superflua e diseconomica, perché si ragiona per budget e sull’incremento dei margini di guadagno. Si è finito per chiamare questa attività editing, che dovrebbe essere invece solo la ripulitura formale del manoscritto, l’applicazione rigorosa degli standard stilistici adottati da quella casa editrice: l’uso del maiuscoletto per le sigle, per esempio, o l’eliminazione dei doppi spazi o delle tabulazioni di cui ogni utilizzatore dei programmi di videoscrittura fa un uso straripante e compulsivo. Tutta roba che si pensa possa fare uno stagista o un service dotato di un considerevole numero di computer, che se se ne guasta uno, ce n’è un altro pronto. Il cervello e quel che ci si è messo dentro, invece, possono esser considerati un accessorio, un optional per restare all’inglese che fa più in.
Tanto il redattore quanto il correttore di bozze, dipende dalla fase della lavorazione, entrano in un rapporto con l’autore oltre che fra loro. Un rapporto non facile. Perché è chiaro che «mettono in discussione», fan le pulci, vivisezionano, criticano, scorgono carenze, rinvengono lati deboli, colgono in flagrante. E più il secondo del primo, ché può prenderti con le mani nel sacco.
Qui s’innescano quelle orribili cose che noi umani siamo capaci di partorire anziché dedicarci ai piaceri del corpo e della mente e che vanno sotto il nome di invidia, senso di inferiorità, presunzione, arroganza, timori e paure varie, incapacità di accettare il limite innanzitutto il proprio.
A me è capitato di correggere la trascrizione degli atti di un convegno registrati su un supporto magnetico e l’audio ha fatto le bizze rendendo totalmente incomprensibili due lunghi brani di due relatori. Uno, all’epoca potente ma signore nell’anima fin dalla nascita, scusandosi e ringraziando, ha tentato come ha potuto di ricostruire la frase perduta; l’altro, all’epoca maestruccio di provincia, poi arrogante e inutile politico, maleducato e pieno di prosopopea, mi ha detto che se non sapevo fare il mio mestiere non era colpa sua e non sarebbe certo stato lui a tirarmi fuori dalle difficoltà, mi scordassi il perdono.
Cassai, come suggerisce il correttore, l’intera irriproducibile frase appiccicottando alla meglio i pochi triti pensieri che caratterizzavano tutto l’intervento, e ho dato in pasto al lettore luoghi comuni, banalità e un po’ di pompa così com’erano: tanto il brano era suo, con tanto di firma. E devo aver fatto un atto di giustizia, consegnando ai posteri quel che realmente è stato.
Quando si riesce invece a far piazza pulita delle miserie umane, quella collaborazione fondata sulla critica e la revisione, sul ripensamento e l’approfondimento, sulla voglia di migliorare e far una buona impressione e dare un buon prodotto, s’innesca una vera e propria magia, spesso una reciproca stima e considerazione.
Sono figlio di un uomo che quel mestiere ha fatto credo bene nella sua ormai lunga vita, e ho avuto la fortuna e il privilegio di sposare una donna che anch’essa, ascoltando anche qualche mio suggerimento, ha fatto quella professione, finendo poi per trovarmi in errore e prendermi in castagna. Alcuni ringraziamenti posti dagli autori in esergo ai volumi che hanno curato, oltre alla testimonianza delle loro doti sul lavoro, sono per me motivo di deferenza e rispetto, direi l’ennesimo incentivo a tentar di far meglio.
Io stesso ho fatto pratica a quelle botteghe: mi ci son pagato i primi studi universitari e l’approccio al giornalismo, correggendo e correggendo di notte come un forsennato fino a un ricovero in ospedale. Paradossi della vita: per l’Ente che poi, trent’anni e passa dopo, mi ha dato il benservito, un calcio nel sedere e ha scritto «delete» che i correttori di bozze indicano cosi: X.
Però è stata una scuola e, forse, di più, un’incisione a piombo, l’impressione di un carattere.
Leggo di giornalisti condannati per calunnia, di magistrati scrittori che querelano per diffamazione, di scrittori denunciati che scoprono l’esistenza della piazza, sento un gran parlare di libertà d’espressione e diritto alla critica. Penso che con meno carta bollata e più bozze corrette vivremmo meglio.
Ma, essendo anch’io sulla strada del tramonto, da qualche parte devo aver lasciato un refuso.
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Un pezzo bellissimo e sentitissimo, che condivido appieno. Da tempo, ormai – i miei amici lo sanno – sogno di fondare le Brigate Bozze… che riscattino la vergogna dei bei libri stampati però con tanti errori e orrori di stUmpa, le pubblicità che utilizzano indistintamente apostrofi e accenti, le scritte dei manifesti composte in caratteri dal corpo piccolissimo e illeggibile… Aggiungerei, Daniele, che la mancanza di attenzione allo scritto dipende sì da ragioni di tipo economico, ma anche da una divaricazione sempre maggiore tra senso e segno, forma e sostanza, utilità e bellezza; e dalla schiacciante prevalenza assegnata all’immagine: per cui, la correttezza del testo è un optional, la sua scorrettezza un accidente frequente e atteso, di secondaria importanza. Il concetto tipografico di “ingombro”, relativamente allo spazio di testo occupato in una pagina, si potrebbe oggi intendere così: “Uffa, c’è anche quel testo che ingombra, da inserire…”. E per finire questo mio intervento, che non credo privo di errori, voglio aggiungere – allargando il discorso – che spesso il refuso è uno straordinario innescatore di potenzialità creative e ricreative, e che dal lapis al lapsus al ludus (in fabula)… è questione di un attimo, spesso folgorante. Meglio se in testi “dal vivo” come facebook o la chat. Lì ci vorrebbe, al massimo, un correttore di bizze.
Oltre a quello che ha scritto qui sopra, Alessandra Berardi mi fa notare che in inglese “Proofs” non significa “Prof” abbreviativo di professore come si usa in italiano, ma “Bozze”. Primo errore, ora a caccia degli altri.
Caro Daniele Pugliese, diciamo che in fatto di correttezza sei davvero incorreggibile.
Daniele, è uno dei migliori pezzi del tuo blog, secondo me.
Provo Timore e Tremore. Ciao
Nel dimostrarle il mio apprezzamento per il Suo notevolissimo articolo (di cui potrei essere il “giovane lettore”-ideale da Lei prefigurato), segnalo anche – se la vista non m’inganna – che il suddetto “Manutius”abbisogna di una piccola correzione per ritornare al suo antico splendore.