Dalla parte dei lettori

Una delle lezioni che credo di aver imparato nei tanti anni in cui ho fatto il mio mestiere, quello del giornalista, è di domandarsi, prima di mettersi a scrivere, per chi lo si sta facendo. In altre parole di chi è composto il pubblico al quale ci si rivolge e, quindi, quale tipo di linguaggio va adottato, quali sensibilità vanno condivise, su quali elementi si deve far perno perché il messaggio giunga a destinazione. Se si sta lavorando per Topolino piuttosto che per Playboy, per il Corriere della Sera piuttosto che per il Manifesto, per la collana Harmony piuttosto che per i Coralli, cambia il registro.

Dubito di essermi fatto consapevolmente quella domanda ogni volta che mi sono accinto a scrivere nel silenzio e nella solitudine della mia stanza per il piacere o per il bisogno di scrivere, perché un’idea, una storia, un grumo di considerazioni e sentimenti stavano prendendo la forma di parole messe in fila, una dietro l’altra, e poi frasi, capoversi, capitoli. Forse quella domanda e una qualche relativa risposta restavano vivide e presenti ma in sottofondo, come un retrogusto provato sorseggiando un vino che non sia solo gradazione alcolica.

Perciò vado incontro a toccanti sorprese e riesco a stupirmi fino a restar senza parole quando, presentando i miei libri o leggendo cosa di essi vien scritto o mi si domanda intervistandomi o mi si dice volendomi esprimere le impressioni avute, ascolto e ricevo quello che gli altri vi ci leggono, i pensieri che suscitano, le interpretazioni che si danno. Mi si disvelano talvolta punti di vista o suggestioni che nemmen mi avevano sfiorato, delle quali sono totalmente ignaro e può addirittura succedere che mi debba chiedere se è dei miei scritti che stiamo parlando o c’è stata una qualche confusione, uno “scambio di persona”.

Ieri sera, per esempio, incontrando gli esigenti lettori di libri che si danno periodicamente appuntamento al Salotto letterario Conti di Sesto Fiorentino dov’ero già stato per Sempre più verso Occidente, ho dovuto fare i conti con domande e affermazioni e notazioni gradevoli o scomode, estasianti o imbarazzanti, perché ciascuno di quelli che hanno preso la parola ha posto l’accento su qualcosa che lo ha colpito e che magari non è quanto io ho tentato di mettere al cuore della narrazione.

L’animatore del salotto, Gianni Conti, divoratore di libri, lui stesso autore e premuroso “agricoltore” che semina, annaffia, pota, raccoglie i suoi studenti spingendoli là dove c’è la buona scrittura e tutto quello che essa può contenere ed esprimere, ha, per esempio, rimarcato un carattere “saggistico”, “critico” della mia novella, del quale ignoravo l’esistenza o non ne avevo pienamente colto l’estensione, finché il professor Roberto Venuti, alla presentazione fatta alla libreria Feltrinelli il 12 settembre scorso, non me l’ha messo dinanzi agli occhi come un carattere invece fondante e originale di questo scritto.

Mi son dovuto schermire dinanzi a tali apprezzamenti sapendo di non essere un “critico”, tutt’al più, come avrebbe detto Karl Kraus, un “criticone”, ma il primo è un mestiere e una dote, il secondo solo una condanna per chi esercita e per chi cade in quella maglia (ma a onor del vero anche un proficuo supporto). E tuttavia ho dovuto prender atto, perché il giudizio del lettore, anche se non condiviso, dissonante, addirittura potenzialmente “paranoico”, è “sacro”, autorevole e pesante, anche quando è leggero e denso di leggerezze e leggiadrie.

Anche gli accostamenti che tanto nel caso di Sempre più verso Occidente quanto di Io la salvero, signorina Else, sono stati fatti fra la mia scrittura e i temi da me perlustrati da un lato e dall’altro illustri e impareggiabili possibili precursori o suggestioni o affinità, talvolta mi erano addirittura ignoti, non sempre mi sono sembrati pertinenti, solo in qualche caso sapevo di esservi debitore, ma accolgo, e nella maggior parte dei casi più che di buon grado, il rimando, la relazione, l’apparentamento, ed anzi, ringrazio.

Così ieri sera sono stato “spiazzato” da quella giovane lettrice di cui ora mi sfugge il nome, ma potrebbe essere Sara, la quale ha rinvenuto tracce pirandelliane nelle mie pagine, e che si è arrovellata e mi ha chiesto di dar conto della scelta del condizionale nella declinazione dei verbi, dandomi l’opportunità di chiarire che il proposito di salvare la signorina Else e per suo tramite di gettare una scialuppa in mezzo all’oceano acciocché se ne serva chiunque dovesse averne bisogno, 1924 o 2012 che sia.

Un’altra ospite del salotto, di professione psicoterapeuta, mi ha interrogato sulle “tecniche” adottate per sottrarre almeno ipoteticamente una giovane donna cacciata da un perfido scrittore viennese rapito dall’analisi del profondo, al cul de sac in cui, talvolta ha detto lei, spesso ho aggiunto io, ci si ritrova dovendo fare una scelta tra due opzioni ognuna delle quali avrà un esito catastrofico, costringendomi così in qualche maniera a confessare pubblicamente che nel mio vissuto c’è una collezione di casi limite o situazioni estreme o drammatiche scissioni in cui quel dubbio si è posto.

Che dire poi di Paolo Vannini, il quale ha una capacità di vivisezionarmi straordinaria. Lo aveva già fatto con la raccolta di racconti (vedi qui), l’ha rifatto ieri sera, cogliendo l’importanza che io esplicitamente ho attribuito agli scritti e al modo di ragionare di Gregory Bateson, e apparentando me o il mio personaggio a Orfeo che deve scender negli inferi per salvar la sua innamorata, per altro, primo fra tutti, a notare la non insignificante dedica in esergo al libro a E: Else, Euridice, o chi altro? E perché no, aggiungo io, “e”?

Non ho una conclusione da tratte dalle considerazioni scaturite dopo una densa serata come quella di ieri, se non una conferma a un concetto che altri prima di me hanno perfettamente colto e ben enunciato: che un libro, una volta uscito dal cassetto di chi l’ha scritto, prende una strada tutta sua, per certi versi non è più minimamente debitore al suo autore e questa sua libertà si incontra con la libertà di ogni singolo lettore. Io stesso, del resto, mi son preso la libertà di leggere niente popò di meno che Schnitzler e le sue parole di cui mi servo alla fine del libro sono proprio quelle che dicono del “prendersi la libertà”. La quale comporta sempre una responsabile e consapevole scelta.

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