Il mio amico Andrea

Andrea Guermandi

La prima volta in vita mia che ho parlato con Andrea Guermandi credo di averlo mandato a fare in culo. Ne sono quasi certo. S’era preso l’arbitrio di andare a intervistare Francesco Guccini, così come, con una certa frequenza, raccoglieva i pensieri di Lucio Dalla, Tonino Guerra, Roberto Roversi e chissà quanti altri. Belle interviste, per carità!, messe giustamente in bella evidenza nelle pagine degli spettacoli de l’Unità, giornale per il quale lavoravamo tutti e due all’incirca dallo stesso anno, lui a Bologna ed io a Firenze.

Ma quella volta lì aveva oltrepassato il confine, era andato oltre ogni limite. A Pàvana. Paese natale di Guccini. Che è in provincia di Pistoia, non di Bologna. Giurisdizione della redazione di cui io ero vicecapocronista, l’intervista dunque spettava ai giornalisti che lavoravano con me. Se l’avesse invitato a bere un bicchiere di vino qualche metro più in là, a Castellina o a Borgo Capanne, in direzione di Porretta, non avrei potuto dirgli niente, ma lui era andato a intervistarlo proprio lì a casa sua, in una frazione di Sambuca Pistoiese e nell’articolo ce l’aveva scritto ben in evidenza all’inizio, subito dopo “dal nostro inviato”, lo sborrone! Lo smargiasso!

Poco mi importava che lui con Guccini, come con quell’altra gente lì, fosse in confidenza, avesse negli anni costruito rapporti che gli consentivano di alzare il telefono, chiedere un’intervista e quelli gliela davano. L’aveva intervistato in suolo patrio e qui, a far la guardia al pollaio, c’eravamo noi, quindi il vaffanculo era d’obbligo, dovevo mandarlo.

Pensavamo che se un giorno a un qualche direttore de l’Unità fosse venuto in mente di ridimensionare una redazione locale – e l’aria di crisi c’era sempre, anche quando le cose andavano bene, e sempre la ricetta era si comincia dai rami periferici, dalle appendici di provincia, lascia fare che lì si vende il giornale – avrebbe portato come motivazione che i pezzi in loco poteva farli anche uno che veniva da fuori, non eri tu a garantire il controllo del territorio, per cui come cagnolini gelosi del proprio orto, schizzavamo ogni albero per marcar ben chiaro di chi fosse.

È la strategia che poi ho adottato andando a dirigere l’Unità di Bologna: da Piacenza a Cattolica era il mio regno, guai a chi ci passava o anche solo s’avvicinava senza chiedermi il permesso. Per questo mi infuriai quando alla morte di Raul Gardini un paio di colleghi scaricarono sulle spalle della redazione nazionale gli articoli di quel giorno con l’aria impermalita di chi lamentava che della Ferruzzi-Montedison se ne fosse sempre occupata la redazione di Milano, benché avesse sede a Ravenna ed è lì che quell’uomo si suicidò.

Quando arrivai a Bologna ed incontrai ad uno ad uno tutti i miei colleghi chiedendo loro cos’avessero fatto e cosa volessero fare, Andrea Guermandi non mi fece vedere le mostrine, non mi pose le sue condizioni, non mi chiese di tener conto anche di, non mi disse si ma. L’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu: «Fammi scrivere».

L’aveva detta la sua. Lo presi in parola. Spettacoli? Cultura? Bianca? Nera? Politica? Sport? Economia? C’erano tanti colleghi bravissimi, stimo la maggior parte di loro e mi sento legato con affetto anche a qualcuno con cui ho sicuramente avuto degli screzi. Ma a Andrea chiedevo di scrivere qualunque cosa ci fosse da scrivere e mi permettevo anche talvolta di dirgli prima che scrivesse come avrei voluto che lo facesse, suggerendogli un attacco, ipotizzandogli uno scenario, chiedendogli se avrebbe potuto fare in un certo modo. Sì, gli ho fatto delle correzioni, non escludo nemmeno di avergli raramente chiesto di riscrivere qualcosa, ma leggerlo prima di metterlo in pagina era quasi sempre un piacere. Sì, intendo proprio un piacere. Il piacere della lettura.

Ricordo che a un certo punto, dopo un po’, mi toccò dirgli: «Andrea scrivi meno. Se scrivi troppo ti consumi. Non propormi troppi pezzi, in qualcuno può sfuggire la stanchezza». Non mi ha mandato a fare in culo. Oh, sì l’ho visto infuriarsi, come normalmente avviene in una redazione, e sicuramente lui ha visto me imbestialirmi. Ma da colleghi siamo presto diventati amici, consentendoci anche qualche maschia confidenza.

Orbene Andrea ha appena compiuto 58 anni. l’Unità l’ha fregato, come me e molti altri, ma è uno di quelli, e non sono pochissimi, per cui provo una rabbia infinita, perché sento che si è sprecato qualcosa, si è gettato al vento un patrimonio, si è tradito una fede, si è frustrato un impegno. È uno di quelli che, se mi avessero offerto un posto, avrei voluto fosse lui a prenderlo, perché almeno non si buttava via un talento.

Anche lui si è arrabattato e continua a farlo, fatica di qua, s’ingegna di là, e continua a metterci la stessa passione che ci metteva quando andava a raccontare della Uno Bianca o dei personaggi strani che s’incontrano sotto ai portici di Bologna. Ora però mi fa molto piacere che ha finalmente aperto un blog tutto suo, dove finalmente, chi ha imparato ad apprezzarlo, può andare a leggerselo: www.andreaguermandi.com.

Il blog è suo e non posso più correggerlo: se potessi gli toglierei questa bestemmia messa laddove si descrive, che però mi fa gonfiare come un pavone: «I miei riferimenti sono Roberto Roversi – mai raggiungibile – e i Sigur Ros – rarefatti e spirituali – e la scrittura che amo è quella di Gabriele Romagnoli e Daniele Pugliese».

Gabriele Romagnoli è uno dei miei giornalisti preferiti e esser messo accanto a lui… grazie Andrea, bevi meno la sera, tieni famiglia.

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16 Responses to “Il mio amico Andrea”

  1. andrea guermandi scrive:

    Beh, allora ti meriti il mio di commenti. Eccolo
    Ho fatto la ruota e un po’ mi vergogno ma almeno so, con certezza, che le cose che scrivi le pensi ed io di te. Sembriamo due checche innamorate, forse sarà anche così, ma gli amici veri sono pane e cuore, cervello e anima. Un mio amico vero, forse l’unico di questa dimensione globale e interiore, personalissima, sei tu caro Daniele e ti dirò di più: nessuno mi ha mai aiutato tanto come te. Grazie. Che posso dire o scrivere? Grazie del tuo cuore impavido e incorrotto.

  2. Gap scrive:

    Daniele sei uno stronzo!!!
    Andrea, grattati, scusami per il pensiero che ho avuto, ma ero preparato al peggio. Avevo già l’occhio lacrimoso.
    Marco Fiorletta

  3. Daniele Pugliese scrive:

    Lacrime da “coccodrillo”, Marco, eh? Ok, sono uno stronzo.

  4. Gap scrive:

    Coccodrillo giornalistico però.

  5. Daniele Pugliese scrive:

    Tu, Andrea, io: gente del mestiere. Mestieranti potrebbero dire.

  6. Gap scrive:

    Caro, cari,
    al massimo io sono ancora un apprendista. E non è solo questione di un pezzetto di cartoncino foderato di rosso.

  7. Daniele Pugliese scrive:

    Marco, tu sei stato il cuore del giornale. Non c’è giornale che stia in piedi se non ha una buona segreteria di redazione. Alcuni dei più bravi direttori di giornali prima hanno fatto per secoli il segretario di redazione. Andrea Liberatori, capo dell’Unità di Torino e mio mentore, ha iniziato così. Tu hai avuto bravi colleghi e brave colleghe come capi, ma loro sono cambiati, tu sei stato un’intera stagione. Sarai anche un apprendista, ma io ti assumerei ieri.

  8. Gap scrive:

    A questo punto non mi resta che fare la ruota anche a me e porre fine a questo versamento di miele altrimenti arriva Winnie The Pooh a sleccacciarci.

  9. andrea guermandi scrive:

    Ciao Marco: sono vivo e lotto insieme a voi

  10. Gap scrive:

    Ciao Andrea. Siamo rimasti in pochi ma buoni.

  11. Daniela Maffezzoli scrive:

    Sono troppo presuntuosa se dico che “non c’è giornale che stia in piedi se non ha” dei bravi poligrafici? Ciao Daniele, un abbraccio.

  12. Gap scrive:

    “fare la ruota anche a me”, mi è stato fatto notare l’errore. Faccio ammenda.

    Concordo con Daniela.

  13. Daniele Pugliese scrive:

    Credo, ma posso sbagliarmi perché è da troppo tempo che mi hanno allontanato da un giornale, che Daniela abbia torto. Direi che in passato avrebbe avuto ragione, ma oggi molto meno. Diciamo, per capirsi, avrebbe avuto ragione ai tempi di Seriano Collini. Oggi credo che stia in piedi se ha dei buoni informatici.

  14. Gap scrive:

    Daniele,
    gli informatici fanno parte dei poligrafici, sono l’evoluzione del tipografo, del linotipista, del proto. E comunque senza i tecnici di redazione, così non scontentiamo nessuno, una redazione non sarebbe completa. Se poi vogliamo parlare della decadenza dovuto alla crisi, anche questa chiamiamola così per comodità, mettiamoci comodi che di tempo ce ne vorrebbe molto.

  15. Serena Bersani scrive:

    Bellissimo ritratto! Io ho conosciuto Andrea (un bel po’ di anni fa) quando ero una giovane stagista dell’Unità alle prime armi. Rimasi incantata da quest’Uomo. Non solo perché era bello (lo è anche adesso che è già nonno, come conferma tutto il pubblico femminile) e non se la tirava neanche un po’, ma soprattutto perché era un giornalista bravissimo, i cui pezzi, dopo averli letti con il piacere di cui parla qui Daniele, diventavano dei modelli di scuola. In più era (e lo è ancora) educato, gentile, sempre pronto ad aiutare gli ultimi arrivati come me, e perbene. Ho sempre adorato Andrea. Mio marito se n’è fatto una ragione e se gli si chiede chi è il mio uomo ideale risponde senza esitazione: “Andrea Guermandi”. Vero, forse perché se l’è sposato qualcun’altra. Comunque Andrea è stato un mio maestro, così come lo è stato poi Daniele.
    Devo dire che la prima volta che ho incontrato Daniele Pugliese, invece, l’ho odiato. Ricordo ancora la data perché era il giorno in cui compivo trent’anni: 25 febbraio 1994. Daniele, che era stato mandato a Bologna con il compito che poco gli si attaglia di tagliatore di teste, mi mise molto gentilmente alla porta. Così io, dopo anni da abusiva (oggi si direbbe da precaria) in quel giornale che considero un po’ la “mamma”, venivo mandata a casa perché bisognava risparmiare. Peccato, perché nei primi dieci minuti Daniele mi aveva fatto una buona impressione: colto, affascinante, gentile, bravo giornalista. Sì, però mi toglieva il lavoro, e quindi lo odiai. Gli diedi la mano con molta signorilità, poi andai a casa e piansi.
    Ma come in tutte le storie degne di seguito, le nostre strade tornarono a incrociarsi, prima perché mi face fare un lavoro di guide turistiche da far uscire con il giornale e poi perché nacque l’avventura di Mattina. Era passato appena un anno e ora mi volevano di nuovo. Solo che io nel frattempo, giusto per non restare con le mani in mano, avevo deciso di avere un figlio (che, guarda un po’, ho chiamato Andrea…). La proposta di assunzione mi arrivò che ero incinta di nove mesi (all’Unità succedevano anche delle cose così) e io per dimostrare al capo che meritavo la sua fiducia ricominciai a lavorare che mio figlio aveva 18 giorni. Vabbé, ma questa è un’altra storia…
    Come un’altra storia, che però non posso fare a meno di accennare, è il fatto che, proprio come Andrea e Daniele, ammiro moltissimo Gabriele Romagnoli. Questo straordinario giornalista e scrittore, che ha frequentato la mia stessa scuola (qualche anno prima), incrociò la mia strada un giorno di una trentina d’anni fa. Un pomeriggio, mentre studiavo, squillò il telefono di casa. Risposi. “Sono Gabriele Romagnoli del Carlino”, dissero dall’altra parte. Ebbi un tuffo al cuore. Non tanto per Romagnoli, che allora non era ancora nessuno e non sapevo neppure chi fosse, quanto perché sperai mi chiamassero dal Carlino per offrire uno stage, una collaborazione all’aspirante giornalista che aveva spedito un po’ di richieste in giro (curriculum no, avevo appena finito il liceo). Invece Gabriele Romagnoli mi chiamava perché voleva fare un pezzo sui giovani a cui piaceva scrivere e aveva sotto mano alcuni miei raccontini che gli aveva passato Pier Vittorio Tondelli (un altro dei celebri intervistati da Guermandi tra gli anni 80 e 90, se non sbaglio) a cui li avevo mandati, come tanti altri ragazzi. Romagnoli mi disse che i miei gli erano piaciuti e voleva sapere cosa volevo fare nella mia vita. Sicuramente risposi: “La giornalista”. Il resto non lo ricordo. Il giorno dopo uscì il pezzo preannunciato sul Carlino con un mio virgolettato. L’ho tenuto come una reliquia ed è ancora da qualche parte a casa di mia madre. Si intitolava: “Da grande scrivo”. Firmato: Gabriele Romagnoli.
    Andrea, Daniele, Gabriele. Il caso li rimette qui insieme: tre grandi giornalisti, tre penne con una sensibilità nel raccontare che non si trova più in giro

  16. Daniele Pugliese scrive:

    Anche i giornalisti piangono. Quelli bravi, però, cara Serena, come te, vanno a casa a farlo. Naturalmente mi dispiace averti fatto piangere, ma non potevo fare altrimenti. Non tanto perché, come dici tu, fossi stato mandato a Bologna come tagliatore di teste: anzi, come salvatore di teste, innanzitutto quelle dei colleghi che erano assunti al giornale e, in alcuni casi, volevano che fossero i precari o gli stagisti a fare quello che spettava loro, compreso andare nelle redazioni più distaccate dove il giornale si faceva in due gatti. Per me era dolorosissimo dire a te, a Luca Bottura, ad altri, che vi avrei preso, ma al prossimo giro, senza illudervi e farvi sperare inutilmente. Ma appunto mi ero portato dietro le “Guide all’Emilia Romagna”, che a Firenze avevo curato io, per far vendere di più il giornale e, magari, chissà, tornare sulle mie decisioni. Mi rincuora che nel frattempo tu abbia fatto un’altra bella cosa. Più delle brevi, vero? Grazie per avermi in una Trinità di cui non mi sento degno.

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