Mario, gli scrittori, i giornalisti
Su una rivista di categoria – quella a cui spero di appartenere al più presto, o, almeno, nei tempi previsti dalla legge, ovvero sia la rivista dei giornalisti pensionati – Mario Talli, stimato collega che ha guidato Paese Sera a Firenze negli anni in cui quel giornale era una delle migliori testate che siano mai circolate in edicola, tempo fa ha pubblicato un articolo che suppongo abbia suscitato qualche ira.
Prima di darne conto e farci su qualche riflessione, vorrei spendere due parole sul collega, al quale devo un sincero ringraziamento per le parole che, privatamente, dopo averli letti, ha speso sul mio Io la salverò, signorina Else e su Sempre più verso Occidente, ma anche per l’indignazione che ha manifestato in più di un’occasione quando ha appreso che la baracca per cui ho lavorato per 32 anni m’ha dato una pacca sulla spalla o un calcio sul deretano, in entrambi i casi senza neanche dire grazie.
Perciò grazie a Mario, che appartiene alla schiera di giornalisti di un’altra generazione, diversissima da quella di oggi, ma un po’ anche dalla mia. Una generazione alla quale ho guardato con rispetto, voglia di imparare, ammirazione, senza risparmiare le critiche che, quando avevo vent’anni o giù di lì e scalpitavo e avrei girato il mondo come un calzino, ribollivano nel mio petto per, lo dico in maniera molto schematica ma sono certo che Mario comprenderà, una certa “ingessatura”. Perfortuna erano ingessati: la serietà l’ho appresa lì.
E veniamo all’articolo di Mario Talli. Si intitola Ma gli scrittori (veri) non hanno l’Ordine e reca come occhiello Si può essere giornalisti e riempire libri? Premetto che non condivido la conclusione dello scritto: «è assai preferibile che uno si accinga a scrivere piuttosto che coltivi l’idea di rapinare una banca». Rubare ai ricchi per dare ai poveri è nobile attività, praticata da Robin Hood, Sandokan e da Pat Garrett e Billy the Kid, ai quali va la sincera simpatia mia e di Bertold Brecht che da qualche parte ha scritto qualcosa a favore del colpo grosso. Ma ecco l’articolo:
Da qualche anno a questa parte, con una rigogliosa impennata negli ultimissimi tempi, il panorama delle Patrie Lettere si è arricchito di una nuova figura che in realtà non esiste: o, meglio, che esiste soltanto nella fantasia autoreferenziale dei diretti interessati: il Giornalista e scrittore.
La specificazione avrebbe senso se con questa definizione si intendesse indicare chiunque compia con una certa continuità l’atto di scrivere. Ma in tal caso moltissimi potrebbero legittimamente definirsi scrittori; che so: il medico quando redige una ricetta, il vigile urbano che compila il verbale della contravvenzione, il notaio ecc. ecc.
Se volessimo essere seri, il giornalista che dedica cento o centocinquanta pagine alle teorie tecnico-tattiche di un allenatore di calcio, il collega o la collega (ma sono molti di più gli uomini ad autopromuoversi, le donne sono notoriamente più serie) che riversa in un libro, diluendoli per raggiungere il sufficiente numero di pagine senza aggiungere nulla di nuovo, gli articoli che ha in precedenza scritto per il suo giornale su un delitto il cui autore è rimasto avvolto nell’ombra, ma anche, ad un livello convenzionalmente più alto, il notista che scrive un bel saggio, magari anche esauriente ed approfondito, su un personaggio o una determinata stagione politica, resta pur sempre e solo un giornalista, magari bravo e sagace, ma solo un giornalista. Non dovrebbe autodefinirsi giornalista e scrittore o compiacersi se sono altri a definirlo tale al posto suo. Lo scrittore, come sanno tutti, anche coloro che fanno finta di non saperlo, è tutt’altra cosa.
Nella realtà i giornalisti degni di aggiungere alla qualifica professionale anche quella di scrittore sono pochissimi. Per limitarsi all’Italia citerei Romano Bilenchi, Curzio Malaparte, Mario Soldati, Giovanni Arpino, forse Manlio Cancogni e pochi altri il cui nome adesso mi sfugge. Quello di Alberto Moravia è un caso a parte. Come si sa egli compariva nell’albo dei giornalisti professionisti, ma è stato sempre e solo uno scrittore. E lo è stato anche quando scriveva per il Corriere della sera i memorabili resoconti dei suoi viaggi nel cuore dell’Africa nera. Stesso discorso per Goffredo Parise.
Per contro grandi giornalisti come Arrigo Benedetti (lui e Bilenchi sono stati miei indimenticabili direttori) e Vittorio Gorresio hanno provato a scrivere romanzi ma non so fino a qual punto si possa dire che ci siano riusciti. Perfino il giornalista forse più bravo di tutti, Indro Montanelli, non lo definirei come vorrebbe la prassi oggi imperante “giornalista e scrittore” 7 solo perché ha scritto un certo numero di libri. Neppure lui, immagino, avrebbe accettato il binomio. Ed infatti a scrivere romanzi o racconti non ci ha nemmeno provato. Si è cimentato con il racconto della storia secondo gli stilemi anglosassoni, cioè in versione non accademica, fruibile da chiunque, non solo dagli specialisti. Ma non è andato oltre.
D’altronde, secondo alcuni (Bilenchi compreso, per averglielo sentito dire io stesso) le due attività, quella di giornalista e quella di scrittore, sarebbero addirittura incompatibili: si eliderebbero, l’una escluderebbe l’altra. A cominciare dai tempi, dalle modalità di esecuzione. La prima delle due pretende la fretta: la seconda, al contrario, esige la lunga riflessione e la lentezza. Per non parlare di tutto il resto…
Se mi si permette l’immodestia e pur senza attribuirle un grande valore, potrei citare il mio caso. Prima di fare il giornalista scrivevo racconti che sono anche apparsi nella famosa Terza Pagina del Nuovo Corriere, il giornale diretto appunto da Romano Bilenchi. Quando fui assunto e cominciai a scrivere articoli, smisi di scrivere racconti. Tra i due fatti ci sarà un rapporto di causa ed effetto? lo ho sempre pensato di si, anche se non sono in grado di dimostrarlo.
I ragionamenti che ho fatto finora non sottintendono un giudizio negativo sui giornalisti che scrivono libri. Sono più che convinto che se i giornalisti ritengono di aver qualcosa di interessante da dire in aggiunta a quanto possono scrivere, condizionati dai tempi, dagli spazi, dalla fisionomia politico-culturale del giornale in cui lavorano, fanno benissimo a scrivere libri. Ci mancherebbe altro! Anche perché – e qui si innesterebbe un altro discorso – ormai scrivono tutti: cuochi, portalettere, medici, magistrati, avvocati, attori, comici, escort, sfaccendati, politici. Soltanto fra gli operai non si annoverano casi numericamente apprezzabili di sedicenti scrittori.
Da dove proviene tanta smania creativa? Le cause sono probabilmente numerose. Ma a mio modesto avviso il principale responsabile della proliferazione è il computer. Se dovessero usare la biro o la macchina da scrivere, magari la vecchia e gloriosa lettera 22, la metà almeno degli autori di libri scomparirebbe per autoestinzione perché cancellare e riscrivere rallenterebbe e appesantirebbe l’operazione e soprattutto richiederebbe maggiore impegno e fatica.
Resta inteso, per concludere, che è assai preferibile che uno si accinga a scrivere piuttosto che coltivi l’idea di rapinare una banca.
Non credo che con questo articolo Mario abbia voluto escludere del tutto che si possa far bene entrambi i mestieri, magari in momenti diversi della propria vita, e che siano esistiti ed esistano giornalisti capaci anche di tirar fuori un buon romanzo. Del resto in una analisi completa della faccenda andrebbero presi in considerazione anche gli scrittori che hanno fatto i giornalisti o, almeno, hanno avuto un’intensa attività pubblicistica sulla stampa quotidiana e periodica: Italo Calvino, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, per dire i primi che mi vengono in mente o a cui forse sono più affezionato.
Penso anche che gli articoli di alcuni giornalisti, in qualche caso più dei loro romanzi – Gabriele Romagnoli, Jenner Meletti, Tiziano Terzani, per fare anche qui solo qualche nome, assemblati e rivestiti con una copertina, siano assai più narrativa di quanto non lo siano tanti diari date alle stampe.
Ma credo che il ragionamento di Mario vada a colpire l’inondazione del sedicente, lo straripamento del biglietto da visita, la nausea da ego. E io non posso che dargli ragione.
Qui scaricabile l’articolo integrale di Mario Talli >>
Tags: Italo Calvino, Jenner Meletti, Mario Talli, Primo Levi, Tiziano Terzani