I miei editori

La prima pagina de l'Unità del 6 luglio 1978, primo giorno in cui ci ho scritto

Il mio primo editore è stato il Partito comunista italiano. Era il proprietario del suo organo di informazione, l’Unità, il giornale fondato nel 1924, lo stesso anno in cui Arthur Schnitzler pubblicò La signorina Else, da Antonio Gramsci, un intellettuale al cui modo di lavorare, desunto da ciò che ha scritto e da come lo ha fatto, ho sempre guardato con grande attenzione.

Avrei volentieri compiuto – con orgoglio e determinazione, rinunciandovi solo per via Solferino, piazza Indipendenza o corso Marengo – l’intera mia carriera professionale sotto quella testata, che solo nel 1991 ha abbandonato la specifica di organo del Pci preferendo l’omaggio al proprio fondatore, ma il massacro a cui la nuova proprietà – palazzinari e farmaceutici – e gli ultimi direttori – pescati fuori dal corpo storico della redazione – la sottoposero, benché in 123 nel 1998 ci fossimo autoridotti lo stipendio (contratto di solidarietà), portò nel 1999 prima alla chiusura delle redazioni di Bologna e Firenze e il 28 luglio 2000 alla cessazione delle pubblicazioni.

Era l’anno in cui Massimo D’Alema, che aveva diretto l’Unità fra il 1998 e il 1990, siedeva a palazzo Chigi in veste di presidente del consiglio. Gli era succeduto Renzo Foa, figlio del grande Vittorio, primo giornalista, anziché dirigente di partito, nominato a quella carica che ricoprì fino al 1992 quando arrivò Walter Veltroni.

L'ultimo numero de l'Unità in edicola nel luglio del 2000

Poi, tolto Mino Fuccillo chiamato da Repubblica senza troppi salvagenti futuri com’è avvenuto in seguito, alla direzione della vecchia Unità si sono succediti – sia detto con rispetto – burattini e marionette, o quanto meno passacarte: Giuseppe Caldarola prima, poi Paolo Gambescia preso in prestito dal Messaggero e premiato per il suo killeraggio sistematico con la direzione del Mattino di Napoli – due giornali di Caltagirone, si noti – e nuovamente Peppino bis a cui, in cambio di un posto in Parlamento fu chiesto di mettere il timbro con la parola fine quel 28 luglio del nuovo millennio al cui arrivo non c’era stata la fine del mondo.

Michele Serra, nel frattempo passato a Repubblica, dalla prima pagina del quotidiano di Scalfari definì l’operazione «quasi un “delitto perfetto”». Su l’Unità, nel corso degli anni, avevano scritto, tanto per fare qualche nome, Pierpaolo Pasolini, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Italo Calvino, Massimo Bontempelli, Cesare Pavese, Alfonso Gatto, Paul Eluard, Louis Aragon, Federico Garcia Lorca ed Ernest Hemingway.

Il 28 marzo 2001 il giornale tornò in edicola diretto da Furio Colombo, al suo fianco Antonio Padellaro e Pietro Spataro come risorsa interna recuperata dalla vecchia redazione. Qualcuno della vecchia guardia fu recuperato, molti furono tenuti fuori e iniziò l’esodo. Chi ha avuto fortuna è finito a Repubblica, alla Stampa, al Corriere, altri, anche tanti bravissimi, si sono dovuti riciclare, inventarsi cose da fare, molti come fare gli imprenditori di se stessi.

La copertina del libro degli Alinari sul sigaro

Io sono finito nella pubblica amministrazione cercando di farle comprendere che, volente o meno, svolge un ruolo da editore, ma di questo ora non voglio scrivere. Nel frattempo mi era capitato occasionalmente di collaborare con altri editori. Ho scritto saltuariamente per altre testate, anche molto distanti dalle mie passioni e dai miei pensieri: il mestiere è mestiere. Fra questi “altri” editori devo conteggiare anche quelli che mi hanno commissionato nel tempo testi che hanno dato corpo a libri anziché a giornali: Marsilio, le Edizioni del Calendario, gli Alinari, indirettamente Giunti, gli Editori Riuniti e Baldini & Castoldi.

Poi, qualche anno fa, dopo vari tentativi e rifiuti, finalmente qualcuno ha accettato di pubblicare quello che io avevo scritto, non che mi chiedeva di scrivere quello che voleva pubblicare.

Maurizio Marinelli, oltre ad essere un grande amico, è anche un editore per gioco e per passione. Dirige la Baskerville di Bologna e conosceva i miei racconti almeno dall’inizio degli anni Novanta. Li apprezzava ma nessuno dei due si era mai sbilanciato. Nel 2008 ho rotto gli indugi e la timidezza, gliel’ho chiesto: li pubblicheresti i miei racconti? Mi ha spiegato le difficoltà entro cui si muovono i piccolo editori, i conti stretti che impongono al massimo pareggi, il gioco dei monopoli, il tormento della distribuzione, dal magazzino allo scaffale della libreria, la psicologia del piccolo libraio e quella del commesso dello store che ha in vetrina Bruno Vespa e all’ingresso una montagna di Grisham.

Però i racconti gli piacevano ed era convinto ne valesse la pena – cambiandone però il titolo da La pasticca verde e altri racconti in Sempre più verso Occidente e altri racconti e l’ordine in cui erano originariamente – , per di più la Collana blu entro cui potevo essere inserito a fianco di nomi che mi fanno impallidire, stagnava da tempo e aveva bisogno di ossigeno. Incontrarci all’aeroporto di Bologna per scartare la prima copia è stata, credo per entrambi, una festa.

Recentemente ha anche accettato di pubblicare in formato e-book, e forse quando possibile su carta, una versione ridotta dei miei studi sulle apocalissi e l’idea di fine del mondo con i quali avrei dovuto laurearmi con Paolo Rossi se fossi stato uno studente di filosofia più zelante, un giornalista meno precoce e determinato, un figlio di papà, un uomo più irresponsabile riguardo i propri doveri e le proprie incombenze. L’editore fiorentino al quale lo avevo precedentemente proposto si era limitato a dire: purché ne tagli un terzo, non gli importava quale. E meglio sarebbe stato se avessi trovato qualcuno disposto a comprarne a scatola chiusa un certo numero di copie, quelle che coprivano la tiratura. Il libro è Apocalisse, il giorno dopo e Maurizio Marinelli è convinto che sia molto interessante.

Poi c’è Emilia. Emilia Aru è quella che parecchi anni fa, in contemporanea con altro che ebbe la stessa idea, si inventò le magliette che al posto del marchio della Coca Cola o del coccodrillino sul petto ti regalavano qualche istante di lettura di una frase tratta dal capolavoro di un grande scrittore. Si chiamavano Portaparole come la casa editrice che dirige ora. È una che legge come una forsennata e probabilmente è convinta che non siano l’ossigeno, l’idrogeno, il carbonio e altre robe del genere a dar forma al mondo così come lo conosciamo, ma le a, le b, gli anacoluti, le perifrasi, il piombo quando c’erano ancora le linotype e la cellulosa perché è la materia prima della carta.

Non so come, non lo ricordo, e lei mi rimprovera spesso della mia labile memoria, ma un giorno in questa sua compulsione verso la lettura finisce nel mio blog, le si accende una spia in qualche parte del cervello, forse non le disgarba qualche mia frase e si mette in contatto con me. Mi chiede se mi piace leggere e mi inonda di libri, mi manda roba italiana e roba francese perché lei è lì che sta col cuore che considera parola desueta, a mezza strada tra Testaccio e Sant Germain. Nel pacco c’è un Vercors delizioso, io ci scrivo su qualcosa, continuiamo a dialogare e scriverci, le leggo qualcosa che avevo buttato giù a suo tempo, mi chiede se ho degli inediti, gliene mando uno che si intitolava Esse O Else ed oggi è in libreria con il titolo Io la salverò, signorina Else. Poi ha altri due dattiloscritti miei sulla scrivania e prima o poi, dice, ce la faremo. Le sono grato. Ci punzecchiamo ogni tanto, ma credo di non essere il peggiore dei suoi autori e io posso parlar bene di lei. Se dovessi definirla direi che è «un editore puro» e per chi è del mestiere questo è un gran complimento. Son rari quelli che vanno a cercare i loro autori, e lei lo ha fatto.

Infine devo dire un paio di parole su un paio di editori italiani molto grandi ai quali ho mandato testi miei che ho nel cassetto chiedendo se fossero interessati a pubblicarli. In entrambi i casi ho beneficiato di conoscenze comuni che mi hanno fatto aprire la porta, quello che solitamente si dice una raccomandazione ma in realtà è solo una presentazione. In un caso mi hanno risposto motivando il loro rifiuto: non lo condivido, ma è giusto che ognuno faccia il suo lavoro, e questo è il loro. Forse da un punto di vista commerciale hanno ragione, anche se mi resta l’idea che l’editoria e la cultura non possano essere solo commercio e pecunia.

Nell’altro da anni attendo un «Grazie, il suo saggio non ci interessa». È vero che l’autore di cui parlo in quelle pagine è quello che ci ha insegnato che stare zitti è dare una risposta, ma io francamente ne attendevo un’altra. That’s life. Se c’è qualcuno interessato al grande rifiuto si faccia avanti: sono solo 300 pagine. E nel cassetto, nel frattempo, ci è finito anche il romanzo: è quasi pronto.

P.S. Noto solo ora che a l’Unità ho lavorato dal luglio 1978 al luglio 2000.

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