Epicurei e edonisti

Epicuro

C’è chi dice – l’ho udito con le mie orecchie e non ho avvertito malizia – che il mio difetto peggiore sia l’esser epicureo. Io invece mi dispiaccio di non esserlo a sufficienza, di non aver completamente interiorizzato e fatto miei, fino a sentirli come istinti che s’azionano senza starci su a riflettere, gli insegnamenti di quel filosofo, o forse i fondamenti di un buon senso che “il soccorritore” – questo significa il suo nome – si limitò a raccogliere, mettere in fila e diffondere tra i suoi discepoli nel giardino, al quale inusitatamente erano ammessi anche gli schiavi e finanche le donne!

Francesco Adorno

L’ho studiato all’Università e a farmelo conoscere fu il professor Francesco Adorno, da me con poca fantasia ribattezzato professor Orcaime – in virtù dell’appartenenza dell’altro Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, e di Max Horkheimer alla scuola di Francoforte –, trasponendolo in un personaggio nel racconto Camera di rianimazione che si può leggere in Sempre più verso Occidente. Fui io però a chiedergli di svelarmi quell’autore per sostenere l’esame di filosofia antica, e la ragione fu ovviamente la tesi di laurea di Karl Marx che, come molti sanno, fu proprio su Epicuro.

C’è forse un’altra ragione che mi ha spinto verso il saggio venuto da Samo, una cosa che condividiamo, ma di cui sono venuto a conoscenza molto tempo dopo: i calcoli renali, dei quali ho sofferto in passato e si ritiene lo abbiano condotto alla morte all’età di 70 anni: «Ermippo – scrive Diogene Laerzio – riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d’un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma: “Siate felici e memori del mio pensiero”, furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte. Tale fu la sua vita e tale la sua fine».

Orbene, è noto il luogo comune secondo il quale epicureo è sinonimo di gaudente, edonista, sensuale, voluttuoso, oltre che, più correttamente, di materialista.

Da quest’ultimo attributo merita partire perché è noto che in seguito i materialisti son stati contrapposti agli spiritualisti o agli idealisti e per questa strada i primi associati agli atei o ai deterministi e i secondi ai devoti o ai sostenitori del libero arbitrio.

Epicuro sappiamo che era un atomista, come in precedenza lo erano stati Democrito e Leucippo. Rispetto a quest’ultimo, attento alla forma degli atomi e al loro vorticoso moto dal quale scaturiva lo scontro che consentiva la formazione dei corpi, Epicuro pose la sua attenzione sul peso di essi, sul fatto che fossero infiniti, eternamente in moto secondo percorsi rettilinei e fra loro paralleli in un vuoto anch’esso infinito. Incontrarsi seguendo dei binari è notoriamente impossibile tranne che nella teoria politica delle convergenze parallele coniata da Aldo Moro, e quest’impossibilità avrebbe comportato anche quella della aggregazione degli atomi e, quindi, della formazione dei corpi. Ma dinanzi agli occhi di Epicuro c’erano oggetti, corpi e materia, la cui spiegazione in termini fisici era data dal concetto di parenklisis, ovvero sia la deviazione o se si preferisce l’inclinazione casuale, alla quale gli atomi son sottoposti nella loro caduta in verticale, che li porta a collisioni, ad aggregarsi, a divenire carne ed ossa o altre sostanze.

Il suo, dunque, è un determinismo casualistico e si potrebbe aggiungere che in lui, come nella maggior parte dei materialisti, c’è fin dalle origini spazio per l’energia, senza la quale non ci si muove, ed anche per il transeunte, ciò che resta dopo e si conserva post mortem, ancorché non nella forma angelica e fantasmagorica di chi predice gli aldilà. Insomma i materialisti non sono così rozzi e primitivi come a volte si è tentato di farli credere.

Gli altri aggettivi usati per definir con altre parole cos’è un epicureo – gaudente, edonista, sensuale e voluttuoso – non rendono pienamente giustizia al pensiero del nostro filosofo e al comportamento di coloro i quali con quel termine vengono definiti, così come socratico, platonico o cinico evidenziano spesso solo un lato di chi può esser detto tale.

Rispetto a quelle scuole di pensiero, così come rispetto all’aristotelismo o allo stoicismo, Epicuro fu in dichiarata polemica, ma molte cose del suo pensiero non le conosciamo perché dei suoi scritti c’è rimasto pochissimo e la testimonianza, un po’ come è avvenuto fra gli apostoli e Gesù, ce l’ha data Diogene Laerzio. Abbiamo poco di vergato di pugno da Epicuro. Anche a Cicerone e a Lucrezio si deve la conoscenza di quello che noi consideriamo il pensiero epicureo, dei suoi trattati scientifici, delle sue lettere, delle sue massime, dei suoi aforismi, delle sue lettere ed ovviamente dobbiamo esser cauti nel ritenerlo quanto effettivamente lui sosteneva.

Non può perciò stupire che la sua figura sia a lungo stata avvolta da un’aura di sacralità. Lucrezio lo chiamava «un Dio» e Luciano di Samosata «divino sacerdote della verità» o «liberatore di coloro che ne seguono le dottrine», appellativi che poi sono stati attribuiti ad altri geniacci in giro per il mondo.

Certo è che la sua dottrina si diffuse dal IV secolo a. C. fino al II d. C., quando subì un rapido declino dettato dall’avversità dei Padri della Chiesa, i quali lo accusavano – come fanno oggi i superficiali, gli stolti e i bacchettoni – di perorare uno stile di vita rozzo e materiale, indegno dell’uomo. Solo Umanesimo e Rinascimento, e poi il razionalismo laico illuminista di Pierre Gassendi nel ‘600 lo riabilitarono.

La parola che getta le ombre del moralismo sulla figura di Epicuro è ovviamente il piacere: dici Epicuro e pensi a orge, crapule, bagordi, al pari di dionisiaco, benché il suo stesso nome, che come s’è detto significa “soccorritore”, gli fu dato in onore di Apollo perché questo era uno degli epiteti con cui veniva chiamato il dio.

A battezzarlo così furono un maestro di scuola, Neocle, e una maga, Cherestrata, che, oltre a far questi ignobili lavori, erano i suoi genitori.

Per Epicuro il piacere, a differenza di quel che sostenevano i Cirenaici con il loro edonismo, non era una defatigante e continua, insopprimibile ricerca di soddisfazione, un godimento effimero e aleatorio, bensì l’eliminazione del dolore, una situazione statica che sottrae l’animo all’affanno.

E dunque è innanzitutto liberazione dalla paura. Anzi, dalle paure: degli dèi, della morte, di qualunque altra afflizione.

Nella Lettera sulla felicità a Meneceo scrive: «Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Temerla è stolto perché essa è privazione di sensazioni.

Epicuro si pone interrogativi analoghi a quelli che assillavano Giobbe e che poi inquieteranno Hans Jonas, vale a dire su come sia possibile che un dio, anzi il loro dio, chieda a un pio il sacrificio di suo figlio o consenta lo sterminio del suo popolo.

Vivono negli intermundia gli dèi, risponde Epicuro, in spazi situati fra gli infiniti mondi reali e da essi del tutto separati. Che esperienza possono avere dell’uomo? Che ne sanno di lui?

Sono buoni ma impotenti dinanzi al male degli uomini? Potrebbero evitarlo ma non vogliono farlo e dunque sono cattivi? Non possono e non vogliono evitare il male degli uomini: sono cioè cattivi e impotenti? Tre ipotesi che appaiono impossibili a Epicuro. Il fatto è che vivono là, e là non possono interessarsi all’uomo: sono indifferenti alle vicende umane, chiusi nella loro perfezione.

Non ne nega l’esistenza, non professa ateismo, non rischia scomuniche e richieste d’abiura. All’incirca come dirà molti molti secoli dopo Paul Lafargue riferendosi alla scienza, non nega l’esistenza di dio, lo rende inutile.

Dunque all’uomo merita pensare a se stesso e alla propria felicità, e conquistarla facendo sparire paure e timori – terreni ed ultraterreni – che condizionano l’esistenza in modo negativo. Il male, dice, deriva dai desideri inappagati. Quando sono inappagati procurano insoddisfazione e dolore. Ma attenzione, aggiunge, ci son desideri e desideri. Ce ne sono di naturali e di artificiali, di necessari e di superflui. Non è al supermarket che li si soddisfano, lì anzi se ne ingenerano di nuovi e la storia allora non ha fine, il pozzo divien senza fondo.

I mali, dice, sono essenzialmente quattro. C’è il dolore fisico, una brutta bestia. Ma, aggiunge, se è lieve è sopportabile, e non arriva ad offuscare la gioia dell’animo; se è acuto passa, e passa presto; se è acutissimo conduce rapidamente alla morte, e questa è assoluta insensibilità.

Gli altri tre mali non riguardano il corpo, ma l’anima e son prodotti da opinioni fallaci ed errori della mente.

C’è appunto la paura della morte, ma, come si è riferito, Epicuro invita a ricordare che quando c’è lei, noi non ci siamo più.

C’è la paura della vita dopo la morte e questa ha a che fare con la paura degli dèi rispetto ai quali ci ha già suggerito di considerare il loro sostanziale disinteresse verso le faccende umane essendo tutti presi dalla loro perfezione, perciò non han modo di impartire premi ma nemmeno castighi, di che preoccuparsi, dunque.

C’è, infine, il male che deriva dalla mancanza di piacere e qui Epicuro si sofferma a spiegare quali siano e come vadano soddisfatti i bisogni veri, quelli che appunto possono farci star bene: «Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana opinione».

Propone un «tetrafarmaco» o «quadruplice rimedio» ed esso si fonda essenzialmente su filosofia e saggezza, che possono aiutarci a raggiungere la felicità liberandoci dalle passioni irrequiete.

«Non si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici», ed aggiunge che possono esserlo uomini e donne, ricchi e poveri. Per esserlo devono perseguire il piacere (edonè), che è il sommo bene, e dunque devono distinguere tra piacere cinetico (dinamico) e piacere catastematico (statico). Il primo, legato al corpo e ai sensi, è transeunte, dura un istante e lascia insoddisfatti più di prima. Il secondo è durevole, e si ottiene imparando ad accontentarsi di quel che si ha e di quel che si è, cioè della propria vita, da godersi ogni istante come fosse l’ultimo, senza pensare a quel che era o a quel che sarà, a quel che ci attende o ci è capitato in sorte. Meno si possiede, dice, meno si ha da perdere, nemmeno la paura di perderlo.

Se si beve acqua per dissetarsi, spiega, si soddisfa un bisogno naturale e necessario, limitato e colmabile. Se invece userò il vino, mi disseterò, ma avrò desiderio di vini sempre più raffinati e questo mi lascerà in parte insoddisfatto. Avrò placato un bisogno naturale, ma non necessario. Se invece sarò assetato di gloria e ricchezza, non sarò mai soddisfatto, perché questi non hanno limite non essendo bisogni né naturali né necessari.

È così che si può giungere all’eudemonia, lo “star bene insieme a un buon demone”, in altre parole alla serenità.

Epicuro demanda alla ragione stabilire quali siano i bisogni essenziali e naturali, tenendo conto della propria personalità.

Affascinante è anche la filosofia del linguaggio elaborata da Epicuro basata sull’idea che convivano aspetti naturali ad altri convenzionali e che ci sia un incontro di “atomi linguistici” che soffiano suoni, esistenti in natura e identici per tutti gli uomini, capaci però di produrre linguaggi diversi.

Tralascio le considerazioni sull’amicizia, benché siano strettamente correlate a quelle sulla felicità e sulla soddisfazione del piacere, giacché, dice Epicuro, «di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia», ed essendo questa lo strumento capace «di destarci per darci gioia l’un con l’altro», mi vien da dire che l’ambito potrebbe essere esteso fino all’amore.

Tralascio anche le considerazioni sulle relazioni tra amicizia, rapporti sociali e politica, quest’ultima considerata «un inutile affanno» dal quale proteggersi «vivendo nascostamente», appartati. Non è un apologo del disimpegno, è un altro invito a quella moderazione che se può procurar piacere a chi la pratica, può estenderlo a chi lo circonda, ed espandersi e contaminare.

L’epicureismo nulla ha a che vedere con l’edonismo egoistico. Ci invita al piacere ma prima a saperlo riconoscere. Ci invita a sentire e a riflettere. Ad esser laici e privi di pregiudizi e superstizioni, capaci di accettare di buon grado e in letizia i propri limiti e di pascerci delle proprie potenzialità, senza temere d’essere un po’ narcisisti.

Non trovo perciò limitativo, sminuente e prosaico che in questo ricco mondo di argomenti che ci propone l’antico filosofo ci sia spazio anche per quel complesso di reazioni neuro-muscolari involontarie conseguente alla stimolazione fisica e psicologica di zone e organi nell’uomo e nella donna.

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