Al lavoro il 1 maggio

Il quarto stato di Giovanni Pellizza da Volpedo

Mio fratello Andrea, consigliere comunale del Pd in Palazzo Vecchio, ha avuto a suo tempo da ridire (se ne trova traccia qui) sulla decisione del sindaco di Firenze Matteo Renzi di concedere l’apertura dei negozi e, soprattutto, degli ipermercati, buona parte dei quali sono della Coop, il 1 maggio, quasi universalmente riconosciuta come festa del lavoro e dei lavoratori da quel giorno del 1886 quando a Chicago negli Usa iniziò la rivolta di Haymarket, durante la quale due manifestanti furono uccisi e molti altri feriti dalla polizia.

Un'espressione "familiare" e irriverente di mio fratello Andrea

Non ne scrivo per riaprire la polemica ma per buttar lì una proposta: perché, se proprio si deve, quel giorno come in altre festività non si tiene aperto lasciando il posto a chi un lavoro non ce l’ha? No, sia chiaro, questo non può essere un espediente per legittimare la disoccupazione e togliersi un peso dalla coscienza, sembrare tutti più buoni anche se c’è chi non ha di che campare. Lo propongo solo per sentirsi davvero più solidali e invischiati nella faccenda, per comprendere che cosa vuol dire vedere solo segni meno in una busta paga che nemmeno c’è, diciamo come uno strumento di lotta perché i governanti impongano agli imprenditori una suddivisione della torta tale che ciascuno ne abbia un assaggino e nessuno s’ingordi.

Qualcosa di simile si potrebbe fare anche il 25 aprile, giorno della Liberazione, che in molti noiosamente e strumentalmente dicono di abolire perché distribuisce torti e ragioni, sta dalla parte di chi ha vinto e non ricorda la morte di chi ha perso, sottace qualche eccesso avvenuto nella concitazione e nell’entusiasmo. Io propongo che quel giorno qualcuno si metta a dar ordini in tedesco o in qualunque altra lingua capace di far tremare, dica Raus e Kaputt con la bava alla bocca e tutti gli altri a strisciare, finché non venga dalle viscere il desiderio di ribellarsi e scegliere la Liberazione.

Non m’intendo di feste religiose e ignoro quelle ricorrenze, fatto salvo il Natale che è noto è un compleanno e parimenti il ricordo di un parto e ci parla di nascita, vita e creazione, ma suppongo che si possa santificare l’ascesa al calvario con la croce sul groppone, gli sputi in faccia, quel che si pativa anche nelle prigioni di Franco o a Guantanamo o sotto Pol Pot. Festeggerei l’abolizione, per la prima volta in Toscana, della pena di morte, purtroppo rapidamente reintrodotta, più che la nascita della garrota, della ghigliottina o d’altri strumenti di torture, mantenendo tuttavia desto il ricordo che quegli orrori si son compiuti e li tolleriamo ancora.

Ma insomma renderei vive le celebrazioni, dense del loro significato originale, capaci di suscitare un sentire almeno simile a quello che dette loro origine: bisogna non mangiare per sapere cosa sia la fame, o almeno aver avuto dei genitori, com’è capitato a me e credo a molti altri della mia generazione, che ti dicano cos’è mentre in qualche modo riempiono il piatto.

Non ci farebbe neanche male rammentarci dei solstizi, di quella gratitudine alla natura che a volte consentiva il raccolto, o l’omaggio al sole che tramonta o che nuovamente sorge, e l’ebbrezza del primo bacio o, almeno, del primo che sia valsa la pena scambiarsi.

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