L’intervista di Fräulein Valentine
Io stesso, per primo, ho stentato a crederci. Mi sembrava impossibile che un libro uscito da appena un anno e di un autore «felice e sconosciuto», potesse essere argomento di… una tesi di laurea. Eppure le cose stanno così, perché la gentilissima Valentina Amodeo, si è laureata il 7 maggio scorso in Lingua e letteratura tedesca presso le Università di Cassino e della Tuscia, discutendo con il professor Maurizio Basili una tesi su… Io la salverò, signorina Else. Certo, il docente di quella materia è anche il traduttore dell’edizione bilingue, italiano e tedesco, del capolavoro di Arthur Schnitzler appena pubblicato dalla casa editrice Portaparole che in libreria ha anche mandato la mia novella, e quindi qualcosa si spiega, ma da qui a ritenere le mie carte degne di una attenzione universitaria francamente stentavo a crederlo.
Fatto è che tempo fa Fräulein Amodeo, o più colloquialmente e germanizzandola, Fräulein Valentine, mi ha scritto dicendomi che appunto stava preparando un testo universitario sul mio scritto e aveva una decina di domande da farmi per allegarle poi al suo studio. Io le ho risposto ed ecco quel che ne è venuto fuori:
1) Il suo libro si può considerare una riscrittura dell’opera di Schnitzler?
Non credo. Non credo nemmeno che spetti a me dirlo e posso solo riferire del bisogno, sì proprio bisogno, di tornare sull’argomento dopo aver riletto per la seconda volta quel capolavoro molto tempo fa. Una vera e propria spinta interiore. Però Schnitzler ha scritto un capolavoro, anzi, parecchi, io ho solo cercato di aggiungere qualche considerazione in più, alla luce di conoscenze e riflessioni che allora forse erano impossibili, a quella gran quantità di questioni poste dallo scrittore austriaco, le quali, a mio giudizio, sono di grande attualità. Direi, per rispondere più precisamente alla sua domanda, che Schnitzler ha scritto il suo libro, ed io il mio, che tiene ovviamente di conto, parte, si ispira, dialoga, sviluppa, chiosa, cita l’opera precedente, ma vivendo una vita sua propria. Certo, se non fosse esistita la Fraülein Else di Schnitzler nemmeno mi sarei accinto alla scrivania o almeno non per scrivere quelle cose nel modo in cui le ho scritte, ancorché mi venga da supporre che mi sarei occupato in altro modo dei temi presenti nel libro.
2) Perché ha deciso di salvare Else? Ha sentito il bisogno di salvare la fanciulla o un capolavoro, il cui finale però forse non Le dava soddisfazione?
Quando ho scritto il libro, il titolo che avevo in testa era un altro e non escludo fosse proprio quella striminzita e criptica frase – che ora si può leggere a pagina 28, una specie di aforisma o gioco di parole per specialisti e amanti dell’autore – il germe da cui ha preso le mosse il resto. Quella frase è “esse o Else”. Mi suonava cioè nella testa un’assonanza tra il nome del personaggio – la ragazza diciannovenne assillata nella sua testa ancora bisognosa di crescita da un ronzio di verità, menzogne, luoghi comuni, pregiudizi e molto altro – e il modo con cui nell’alfabeto Morse, finché è rimasto in uso e l’informatica non l’ha affossato, si esprimeva una richiesta d’aiuto, si lanciava un grido d’allarme. Dal confronto con l’editore prima della pubblicazione del libro si è giunti poi insieme al titolo attuale. Giustamente: è senz’altro più bello e invitante di un SOS trasformato in esseoElse e mi ha consentito di introdurre una citazione ad Alfred Hitchcock che, come Schnitzler, era un altro parecchio attento agli strani giochi della mente e ai suoi labili confini. Però il titolo originale rispondeva maggiormente all’esigenza mia di correre in aiuto, al mio impulso a prendermi cura e farmi carico, più che riuscire nell’intento. Certo penso che quando ci si ripromette qualcosa è bene andare fino in fondo, farcela più che provarci, giungere a conclusione dell’intrapreso e non lasciar niente di incompiuto, ma l’incertezza e il dubbio fan parte del nostro Dna e in occasione di alcune presentazioni del libro, nel corso delle quali si dava troppo per scontato che DP fossi proprio io e che Else venga salvata, mi sono trovato a precisare che il primo è comunque un mio personaggio, per quanto possa aver di comune con me, ed al termine della novella la signorina è sì in vita, ma niente certifica che rinunci al suo proposito: questo non c’è scritto. Del resto, ad esser precisi, si deve dire che lo stesso Schnitzler su questo argomento e al finale dell’opera mostra una certa ambiguità se non un che di incredibile: è infatti la stessa povera Else che, trascinata dal suo monologo interiore, descrive nei minimi dettagli la sua morte già avvenuta e le reazioni degli astanti dinanzi al cadavere, il che, risulterà ovvio a tutti, è impossibile, perché, come diceva Epicuro, quando c’è la morte non ci siamo più noi, perciò non merita temerla. Dunque troverei più appropriato che lei mi domandasse perché ho deciso di “tentar di salvare” la signorina Else. Prima di risponderle passo alla sua seconda domanda che ci aiuta a capire anche la prima. Certamente non ho sentito il bisogno di salvare un capolavoro, perché quel capolavoro non ha bisogno di alcun salvataggio, sta benissimo così com’è. Certo, se ho contribuito a farlo riscoprire, a farlo conoscere a qualcuno che lo ignorava, a riprenderlo in mano da parte di chi l’aveva accantonato, non posso che esserne contento, perché Fraülein Else è davvero un libro straordinario e forse nemmeno il più bello scritto dal suo autore. Non posso neanche dire che il suo finale – per quanto come ho appena spiegato contenga un’irrealtà, una cosa possibile solo nella fantasia, – non mi abbia dato soddisfazione, perché è azzeccatissimo per quella novella, è come doveva andare, è funzionale a rendere chiare le problematiche che quel libro mette in luce con grande lucidità e un’ottima penna. Il fatto è che lascia aperte delle porte, o pone delle domande alle quali si può ancora rispondere, e magari non nello stesso modo con cui sono state formulate quelle che lì si trovano, non con la stessa logica adottata nel 1924, a Vienna, a Prima guerra mondiale appena conclusa, da un ex medico, da uno che conosceva solo di sfuggita Freud, da uno che aveva già all’attivo numerosi libri di successo e, come ho scritto, un catalogo di conquiste femminili paragonabili a quelle editate da Leporello. Direi, come ho sostenuto nel libro, che bisogna imparare la lezione di quel film che ci dice come le cose possano andare diversamente se solo si chiude la porta di una metropolitana: una frazione di secondo e il gioco è fatto. Mi viene in mente una celebre massima di Mao Tze Tung che ho appreso quando ero adolescente da mio padre, il quale l’aveva fatta stampare a caratteri cubitali e se l’era appesa nello studio, e mi si è fissata subito nel cervello in maniera indelebile tanto da poterla citare a memoria: «Una delle cose più difficili nella vita è quella di essere precisi e attenti. Se si potesse essere così sia nelle grandi che nelle piccole cose, si scoprirebbe che persino la santità non è difficile da raggiungere. D’altra parte la trascuratezza di un momento può procurare una grande rovina». Sì, la trascuratezza di un momento. Ora possiamo tentare di rispondere alla sua prima domanda diversamente formulata.
3) Prima di riformularle questa domanda vorrei soffermarmi sulla morte di Else nella novella di Schnitzler. Anche a me sembra che il libro non termini con una morte certa. Questo le fa credere che Schnitzler volesse ucciderla veramente oppure uccidere solo la sua identità?
In senso narrativo, nella descrizione degli avvenimenti intendo, credo che Schnitzler intendesse portare la giovane ragazza al gesto estremo. Togliersi la vita è la conseguenza della fragilità dei pensieri che fin dalle prime pagine le si agitano in testa e che, in un crescendo quasi parossistico, la spingono a prendere la dose letale di Veronal. Da una parte c’è della suspance, un crescendo via via che si va avanti nelle pagine, ma dall’altra mi sembra si possa dire che l’esito è scontato fin dall’inizio, addirittura quasi prevedibile. Comunque vien da sospettarlo senza essere arrivati in fondo. È il castello di carte che le hanno costruito, che si è costruita o nel quale vive che vacilla e annuncia di precipitare. Ed Else è quasi solo l’incarnazione, il corpo nel quale si concretizza quel marasma psicologico o morale o emotivo o storico. Schnitzler esclude, ne accenno nel libro, che quella sia la rappresentazione di un mondo in frantumi, giunto al crepuscolo e sull’orlo del precipizio, e c’è da prenderlo in parola, ma è difficile sottrarsi all’impressione che quella catastrofe sia nell’aria. Parimenti lo scrittore esclude che quella sia la narrazione di un’esperienza diretta personale – che tuttavia dovrà invece patire veramente – ed afferma che di signorine Else in giro ce ne sono tante, di averle potute osservare con i suoi occhi. Non credo che tutte quelle che lui ha visto si siano votate al suicidio, ma certamente provavano un forte disagio e si alimentavano di quei pensieri e di quei modi di pensare, ed è questo ciò che Schnitzler ci racconta. Ci racconta qualcosa che probabilmente era particolarmente sentito nella Vienna Borghese di inizio secolo prossima al tracollo ma che mi pare avvertibile anche oggi in generale nell’Occidente. Sta qui la sua grande forza, non nella storia in sé. Io non direi, anche se lei ha ragione ad ipotizzarlo, che al termine del libro non ci sia la morte certa, benché, come notavo, sia bizzarramente narrata da chi la esperisce e questo è un assurdo concettuale. Non mi sento nemmeno di dire che Schnitzler volesse uccidere Else, semmai che la lasci morire, o si limiti a raccontare come lei si lasci morire, come ci si possa lasciar morire. Else è un pretesto, un pretesto come ogni personaggio probabilmente. Lascia morire una donna, una giovane donna, la figlia di borghesi, forse un “tipo” sociale come quelli che danzano in Girotondo o una maschera come quelle che si indossano in Doppio sogno. Lascia morire un’identità? Forse bisognerebbe dire che lascia morire l’identità, il riconoscersi in un irriducibile, il chiudersi in un immodificabile. Forse qualcuno più acuto di me e maggiormente dotato degli strumenti che proprio Schnitzler ci mette a disposizione, quelli dell’indagine del profondo, potrebbe ipotizzare che lasci morire la propria identità. Servendosi di Else. Ma c’è anche un’altra lettura che andrebbe fatta. Intervistandomi per Radio Vaticana, una brava giornalista, Laura De Luca, ha suggerito di leggere il suicidio di Else come una forma estrema di ribellione e riscatto femminile, l’unica arma per sottrarsi alla violenza a cui la sottopone von Dorsday e più in generale la cultura maschilista dell’epoca. A quel sopruso, secondo Laura De Luca, si aggiungerebbe il mio che la riporto in vita quando lei ha deciso di morire, mutilando la sua scelta, vanificando la sua volontà, imponendo nuovamente l’arbitrio di un altro maschio. La trovo una lettura intelligente e interessante. Non dico di condividerla, ma certamente coglie aspetti non secondari. Del resto c’era nella novella di Schnitzler e rimane nella mia questa bipolarità maschile-femminile che è alla base del nostro esistere.
4) Torniamo alla domanda di prima. Perché Else dovrebbe essere salvata? Perché lei si propone di farlo?
La risposta più ovvia ed onesta è per scrivere un libro. Il fine è quello. Ma, come le ho detto, nell’accingermi a farlo ho solo assecondato un bisogno interiore molto potente, capace di inchiodarmi alla scrivania fino a che non sono giunto in fondo. E il bisogno era insieme quello di scrivere il libro, di andare in soccorso alla piccola e raccogliere il suo messaggio in bottiglia affidato alle onde, di non lasciare inevase alcune questioni rimaste in sospeso nella novella originale che nel mio sviluppo mentale, con uno scarto di novant’anni, avevano preso una direzione diversa da quella ipotizzata da Schnitzler e a cui appunto, come ho detto, una portiera della metropolitana che si sta chiudendo aveva fatto prendere un’altra piega. Forse nel mio proposito c’è anche della pietà, e qui la intendo nel senso cattolico del termine, assimilabile alla misericordia e al compatimento, quello che amo di meno: sono più attratto da questa nella sua accezione originaria di sentimento che induce l’uomo ad amare e rispettare il prossimo e di divinità preposta al compimento del proprio dovere in virtù di una compassione che sia sentire insieme in maniera empatica. Sì, si allarga il cuore anche a un cinico dinanzi al gesto estremo di una ragazzina diciannovenne, lo ammetto. Ma il mio intendimento, la ragione che mi ha spinto a tentare quel salvataggio e il temerario confronto con uno scrittore tanto grande, dinanzi al quale ci si può solo sentire delle formiche, ritengo che risieda in due convinzioni. La prima è quella dell’importanza della consapevolezza. Non c’è pensiero, gesto, emozione che non meriti di essere vissuto e rispettato purché sia consapevole. Anzi, veda tutti i suoi protagonisti consapevoli, a costo di un furibondo scontro tra di loro. A me sembrava che alcune considerazioni sfuggissero a Else, non fossero a sua disposizione ed ho preso l’arbitrio di mettergliele dinanzi. Poi faccia quel che vuole. La seconda convinzione è che ci sia poco di immorale, se non il sopruso e, appunto, la mancanza di consapevolezza. Io non trovo immorali le pulsioni e le fantasie della ragazzina viennese e nemmeno la sua decisione di togliersi la vita. Il suicidio merita rispetto. Sempre. Ma alla comprensione, al prendere insieme, che automaticamente esclude il sopruso, essendo questo un prendere da soli, non si può e non si deve rinunciare, avendo presente che per prendere insieme, per comprendere, bisogna prendere da soli, in assoluta solitudine. A differenza di Schnitzler che magistralmente si serve di un monologo interiore per sviscerare le questioni, io mi avvalgo di un dialogo, di una condivisione, quindi, ma quel dialogo, come il dialogo quand’è veramente tale, presume posizioni ben distinte e delineate di chi vi partecipa. Presuppone individualità e poi comunanza. Ecco perché mi sono proposto di salvare la signorina Else.
5) Ha già accennato a una non perfetta coincidenza fra Daniele Pugliese e DP. Cosa li discosta? Perché dobbiamo distinguere autore e narratore?
Dobbiamo distinguerli per il semplice fatto che uno è un autore e l’altro un narratore. È vero, anche l’autore narra, ma il narratore del libro è un personaggio, non un autore. Non si dice che scriva libri o abbia fatto il giornalista per tre quinti della sua vita. Magari è così, ma non viene detto, è inespresso. Le iniziali di entrambi sono le medesime, ed anche l’età anagrafica, se non ricordo male. Condividono anche la lettura di Schnitzler che il personaggio narratore cita puntualmente ed entrambi direi sono sensibili al fascino femminile, ma sa quanti individui ci sono che hanno queste medesime caratteristiche. Non è questo a identificarli, tutt’al più li associa, li assimila. È vero anch’io non sono mai stato a San Martino di Castrozza mentre conosco bene Prato Piazza, ma di qui a dir che siamo la stessa persona… e poi lui non è una persona, è un personaggio giustappunto. C’è una bella differenza. Io tento di scrivere distaccandomi dal mio vissuto e se lo porto sulla carta cerco di metabolizzarlo e filtrarlo, di spersonalizzarlo, direi. Questo penso debba fare la narrativa. Per ciò mi da un po’ fastidio che qualcuno dica che io sarei innamorato di Else. Ma le pare?
6) Crede sia giusto, nei confronti dell’autore originario, cambiare il destino della protagonista?
Schnitzler è morto e suppongo che nemmeno i suoi eredi possano più accampare diritti o sollevare polemiche. E tuttavia mi dichiaro disposto ad onorare i miei eventuali debiti, ad assumermi le mie responsabilità e a sostenere le mie ragioni dinanzi a qualunque consesso. Credo che il termine “giusto” qui sia inappropriato. Non credo di aver commesso un’ingiustizia, niente di ingiusto. Ho citato la fonte e quello che ho citato è testuale. Ho riconosciuto la paternità e non ho preso meriti che non sono miei. Penso che semmai potrebbe essere Else, non Schnitzler a lamentare qualcosa, ma a lei do facoltà di parola nel libro, a Schnitzler non l’ho concessa, ma nemmeno ho cambiato il suo destino come tento invece di fare con la signorina. Ripeto: credo che il mio libro viva di una vita sua propria, non abbia bisogno dell’altro per essere letto e semmai invogli a farlo. Da questo punto di vista, semmai, non mi dispiacerebbe accampare la richiesta di qualche frazione di diritto d’autore sulle copie dell’originale venduto in virtù di questo rimescolamento di carte. Ma lo so che nessuno prenderà in considerazione le mie istanze. Insomma mi sento di dire che io non mi sono limitato a cambiare il destino di una protagonista di un libro.
7) Come colloca il suo libro nell’attuale panorama letterario?
Non lo colloco ed anzi sarei curioso di sapere come l’attuale panorama letterario colloca il mio libro. Ammesso che lo faccia.
Se un giorno un altro autore decidesse di farla morire nuovamente, quale sarebbe la sua reazione?
Non so, dipende. Potrei limitarmi a prenderne atto. Oppure scrivere una filippica in favore della mia causa. O accingermi alla stesura di “Ho detto che salverò Else, chiaro?” Vediamo quando sarà quel giorno. Spero solo che qualcuno mi informi. E soprattutto di esserci.
9) Perché puntare sul lato erotico per salvarla?
Onestamente non credo di aver puntato sul lato erotico. In particolare non credo di averlo fatto per salvarla. Signora Amodeo, lei è una donna ed io sono un uomo e probabilmente la percezione che abbiamo dell’erotismo non è la medesima, e questo ha un suo senso oltre a qualche complicazione. Forse ha ragione lei perché c’è dell’eros, dell’amore, del sentimento che corre tra me e il signor DP, tra me e la signorina Else, tra il signor DP e la signorina Else. Corrisposto da parte della signorina Else è solo il signor DP, a me neanche un’attenzione, un cenno di ringraziamento, un omaggio floreale. Ma io da maschio ho un’idea copulativa dell’erotismo, qualcuno direbbe fallica. Non dico che debba esserci necessariamente penetrazione, tanto meno consumo o consumazione e si può provar piacere anche senza giungere all’apice, il che potrebbe essere considerato un gioco, una perversione, una tara psichica, un’effusione, una lussuria, un lusso. Ma dico che senza coinvolgimento degli organi genitali, certo non solo essi, ma senz’altro anche essi, non si da erotismo. Sarà una visione limitata, son disposto ad ammetterlo, ma è l’unica di cui dispongo, e lo dico perché lo sento, non perché lo penso. Ora, nel libro l’erotismo come lo considero io e probabilmente un buon numero di maschi, non c’è quasi, solo un accenno e tutto verbale, niente di esperito. Capisco: ho dichiarato prima di non essere innamorato di Else e questo potrebbe aver inibito la concessione fisica della ragazza, la quale vorrebbe anche altro, magari un coinvolgimento mentale, una penetrazione nel cervello e nel cuore anziché altrove. Come se tutte le parole che ho speso per lei non le fossero arrivate dritte e profonde nel cuore e nel cervello, ingrata! Ad essere sinceri ed onesti bisognerebbe dire che di erotismo è impregnata prima di me la signorina Else schnitzleriana ed io ho cercato in tutti i modi di far venire fuori libero, selvaggio e festoso questo suo lato che non è minimamente sottaciuto nell’originale. La ragazza è vergine, non ha consumato, non ha copulato, non si è lasciata penetrare, ma ribolle e le sue fantasie sono degne di un hard core. Presentando il mio libro, un illustre neurochirurgo fiorentino, Pasquale Mennonna, che aveva ipotizzato una mia omosessualità latente alla lettura dei miei racconti Sempre più verso Occidente, ha affermato che in questo libro il mio rapporto con il sesso è migliorato ma che sono reo di non soddisfare le voglie esuberanti e manifeste della fanciulla. Certo devo ammettere che l’eros, mettiamoci d’accordo su come dobbiamo intenderlo, non solo sia il motore del mondo senza il quale nemmen saremmo qui a ragionare, ma abbia anche un potere curativo e salutare che nemmeno gli psicofarmaci o le droghe hanno scalzato, e perciò mi sono direi trovato costretto a condurre il mio DP a spingere la signorina Else in quei territori, nei quali, lo ripeto, è lei che si muove, anzi ci sguazza, fino ad arrovellarsi e perdersi.
10) Perché abbiamo bisogno di salvare gli altri per salvare noi stessi?
Ecco la domanda delle cento pistole! Complimenti. Io non so, in realtà, se abbiamo bisogno di salvare gli altri per salvare noi stessi. Lo ipotizzo nel libro, è vero, lo sospetto, e continuo ad avere l’impressione che spesso sia così. Salvare gli altri o convincersi che lo si stia facendo spesso è più facile che badare a se stessi accudendosi e tenendosi sotto controllo. Se non altro la prima cosa la si può fare non in solitudine e questo è un potentissimo alibi. Poi c’è il fatto che ci si può fare facilmente l’idea che solo un altro salvato possa all’occorrenza salvarci, esser lui che ci viene in soccorso nel momento del bisogno. Sospetto anche che esista una sottile, strisciante cultura che ci spinge in questa direzione e si finisca per farla propria, interiorizzarla, senza più riuscire ad identificarla per quello che è. Credo che un libro come Padre Sergio di Tolstoj spieghi bene questo bisogno di egoistico altruismo al quale suggerisco di contrapporre consapevolmente un altruistico egoismo. Anche perché nel salvataggio dell’altro è insito, e di questo posso ovviamente essere accusato per quanto riguarda le mie attenzioni verso la signorina Else, un più o meno conscio desiderio di manipolazione, un tentativo di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza, o, peggio, a nostro tornaconto. Quante sono le donne che scelgono il bel tenebroso un po’ scapestrato e non si danno pace finché non l’hanno trasformato in un damerino, o gli uomini che s’ingegnano di redimere la prostituta e riportarla sulla retta via come fosse la pecorella smarrita, per poi provare entrambi frustrazione – delusi e insoddisfatti – di non avere più per le mani la persona che tanto aveva scaldato il loro cuore e infiammato i loro sensi? Le mie, però, sono solo sensazioni, ed io credo che per rispondere alla sua domanda servirebbe uno che s’intenda dell’animo umano, magari uno psicoterapeuta che abbia potuto esaminare almeno un po’ di casi come quello in questione.
11) Else riuscirebbe a vivere in quest’epoca di corruzione e mercificazione del corpo femminile?
La Else di Schnitzler certamente no: si suiciderebbe perché von Dorsday le chiederebbe molto di più, con meno cautele e, soprattutto, non così disposto alla contropartita. Le Else di oggi sono molto cambiate e cresciute. Ce ne sono di quelle capaci di difendersi, sferrare un bel calcio nei testicoli del loro assalitore o cospargergli il volto di spray al peperoncino, che sia un gesto reale o un’immagine figurata della reazione. Ce ne sono altre che non sono immuni all’epoca di corruzione. L’economia del baratto suppongo sia sempre esistita e il corpo e la mente spesso li si devono mettere sul mercato con prezzi al ribasso oggi quanto ieri. Se la mia Else alla fine del libro ha raggiunto un po’ più di consapevolezza, e con lei il suo pubblico di lettori, il suo soccorritore e l’artefice stesso di tutto questo marasma, allora forse l’epoca della corruzione e della mercificazione del corpo potrebbe avviarsi alla fine. Questo è il compito dei diciannovenni di oggi.
Una precisazione: “Fräulein Amodeo” si è laureata presso l’Università degli Studi della Tuscia. E’ il sottoscritto – suo relatore – a dividersi (indegnamente aggiungerei) tra l’Università della Tuscia e quella di Cassino, due realtà accademiche distinte.
Per dimostrare la stima nei confronti di Daniele Pugliese, aggiungo che ho inserito la sua opera anche nel mio programma per l’esame di Letteratura Tedesca del corrente anno accademico. Insomma, Else è viva e siede tra i banchi delle aule universitarie!