Quel dire “sto meglio”

Gilberto Briani (a destra) con Guido Guidoni alla presentazione dei miei racconti alle Oblate (Foto Andrea Ruggeri)
La legge sulla privacy dice che i dati relativi alla salute di una persona sono sensibili e pertanto devono restare riservati. Se in banca, o anche alla posta, ti chiedono di restare a una certa distanza dal bancone, non oltrepassando una certa linea, appunto per rispettare il diritto al segreto di chi ti sta davanti ed è prima di te in fila, nelle sale d’attesa degli ambulatori medici ci si può invece vedere in faccia e sapere che tizia è andata dal ginecologo e caio dall’urologo. Negli studi degli psicanalisti in genere le cose vanno diversamente, a chi attende viene impedito di sapere chi c’è dentro e, se non ci si incrocia proprio sull’uscio di quello specialista, l’anonimato è garantito.
La norma credo che innanzitutto tenda a evitare possibili interazioni tra due pazienti e ancor più specificamente a salvaguardare l’assoluta esclusività di quello che avviene e vien detto in quella stanza, quasi che il fuori non esistesse, in una sorta di patto segreto che lega terapeuta e paziente. Una quota di questa scrupolosa discrezione tuttavia dev’essere rivolta a celare il fatto che uno sia in cura da uno psicoterapeuta perché indirettamente questo può far credere che se sei andato lì, sei pazzo, quindi da guardare con sospetto e diffidenza.
Non credo di aver mai celato, senza per questo andarlo a sbandierare ai quattro venti o a gridarlo in piazza, di aver intrapreso ben due percorsi “analitici” o “psicoterapeutici”, e già dalla scelta di questi due aggettivi qualcuno potrebbe essere in grado di dire che cosa ci sono andato a fare e da chi, perché solitamente vengono usati nel primo caso per definire il percorso con chi ha avuto una formazione junghiana e, nel secondo, le terapie di tipo cognitivo comportamentale, dizione in vero assai limitante sotto la quale vengono accomunati i non junghiani e i non freudiani, iscritti alle rispettive società.
Dunque, io sono stato effettivamente prima da una psicanalista di formazione junghiana (non so quanto coinvolta nel monastero di appartenenza) e poi da uno psicoterapeuta al quale non ho mai chiesto a che santo si votasse e quando è capitato di parlarne mi ha detto chi gli aveva insegnato il mestiere, ed anche a chi fosse grato, ma non ha voluto appiccicarsi etichette addosso. Fin da subito è stato chiaro che la sua era una analisi di tipo psico-corporeo, perché ha insistito molto affinché mi rendessi conto di tenere le braccia incrociate dinanzi al petto come una corazza mentre gli parlavo e affinché passassi da respiri brevi e frequenti, a inspirazioni più ampie, dilatando il diaframma la cui esistenza mi era nota solo come nozione linguistico-fisiologica, niente a che fare con il punto di congiunzione tra i miei polmoni e il mio stomaco, anch’essi percepibili solo in caso di tosse o mal di pancia.
Volevo che mi aiutasse a stare meglio, a non soffrire senza motivo, a non trovarmi motivi per soffrire, a farmi sentire, a sentirmi, ad essere vicino agli altri ma senza esserne schiavo perché da me sottomesso, ad accettarmi geniale o pazzoide, meritevole o carente, presente e sopportabilmente assente.
Poi, quando ho capito quali sono le modalità della sua scuola, ho potuto constatare che in parte le ha seguite ed in parte le ha adattate e credo che la sua bravura sia stata proprio nel modulare in base al mio percorso.
Da molto tempo non vado più da lui, anche se ci vediamo talvolta, magari per mangiare qualcosa insieme e scambiarci due parole. Mi è capitato di chiedergli ancora aiuto, di darmi una mano a dipanare quello che non comprendo, o semplicemente rifiuto, o patisco ad accettare. L’ho sempre trovato disponibile. Anche a prendere in carico qualcuno a cui voglio molto bene e speravo che potesse far stare meglio.
Mi sono chiesto più volte se il mio percorso sia finito. E quand’è che si può dire che un percorso di quel tipo è finito. So che non mi ha trasformato in quello che non sarei potuto essere. Credo di aver consapevolezza di cosa sono stato e di cosa sono. Direi che mi accetto. Non escludo di poter avere in futuro ancora bisogno di aiuto. Direi comunque che oggi sto meglio, indipendentemente da ciò che mi fa stare meglio o peggio: io sto meglio.
Non credo che ai percorsi psicanalitici o similari si debba chiedere altro. Non l’essere migliori. Non l’essere come si vorrebbe, o come si pensa, o come ci hanno fatto immaginare. Per cui il bilancio è positivo. Al punto che se mi vedessero uscire dalla sua porta e pensassero che sono pazzo, pazienza per loro.
Il mio psicoterapeuta, più esattamente lo psicoterapeuta con il quale ho fatto il percorso che mi ha condotto a stare meglio, si chiama Gilberto Briani, è stato un allievo di Alexander Lowen che è il fondatore della Bioenergetica e prossimamente pubblicherò, con il suo consenso, un articolo che prende spunto dall’intervista fatta con Guido Guidoni a Lorna Smith Benjamin e un suo scritto che spiega che cos’è la Bioenergetica.
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