Il 68 e la lingua di oggi

Alcuni giorni fa, su un quotidiano fiorentino, il professor Pietro De Marco ha constatato che gli svarioni o le aberrazioni dilaganti nel linguaggio, e soprattutto nella scrittura, di chi si accinge ora a sostenere una tesi di laurea, sono da attribuirsi ai sessantottini. Scrive De Marco: «La generazione degli studenti di questo periodo è quella dei nati attorno al 1990», muro di Berlino già caduto, preciso io.

«La loro formazione scolastica “elementare” – aggiunge De Marco – si colloca negli anni Novanta, dunque sotto le cure delle generazioni di maestri e maestre (e dei professori della scuola media dell’obbligo) operanti in quegli anni: generazioni giovani, nate nei primi anni Settanta, intermedie (i nati negli anni Cinquanta-Sessanta) e anziane».

Spiega il professore che i formatori degli attuali venti-ventiquattrenni sarebbero a loro volta stati formati, anzi, puntualizza, “plasmati”, «dalla cosiddetta rivoluzione del Sessantotto e da altre “modernità”».

Fa un po’ di esempi dell’imbarbarimento tra cui “dicano” al posto di “dicono” e punta il dito sui new-media – che volutamente scrivo in inglese –, affermando egli che quelli “classici”, il giornale su cui appunto c’è il suo articolo, «almeno osservano l’italiano standard».

Sostiene che la scuola conserverebbe il potere «di formare correggendo e contrastando. Se non lo ha fatto, se l’ultimo quarto di secolo ha consolidato il disastro linguistico (e logico) che verifichiamo nei ventenni, questo è accaduto innanzitutto per il gioco di una ideologia distruttiva».

La conclusione che tira è che «generazioni di insegnanti, di linguisti, di pedagogisti, debbono compiere un esame di coscienza e di cultura, anzi di ideologia: poiché l’assurdo rivoluzionamento dell’insegnamento della lingua negli anni Settanta-Ottanta, distruttivo anche quando non formalmente adottato da maestri e professori, è stato – nella scuola – prevalentemente ideologia e utopia del “nuovo”».

Chi mi conosce ed ha avuto occasione di scambiar parole con me sull’oggi sa quanto io ritenga responsabile – notoriamente non uso e aborrisco la parola colpevole – della situazione attuale proprio chi è, anagraficamente almeno, adulto: il suo modo di esser stato genitore, elettore, forse anche lavoratore. Non stento dunque a non assolvere la mia generazione o quella che l’ha immediatamente preceduta, i fratelli più grandi ed i padri, le sorelle maggiori e le mamme, pur così diversi tra loro, e nemmeno i fratellini e le sorelline, gli attuali quarantenni o poco più.

Si deve sapere anche che non mi considero e non potrei considerarmi un sessantottino, giocando ancora alle macchinine all’epoca delle barricate, né ho voluto farlo usurpando un titolo o facendo vanto di quel che non spetta, nella convinzione che quelle istanze, per quanto encomiabili, necessitassero di correzioni, adeguamenti, solidificazioni.

«L’immaginazione al potere», slogan basilare dell’esperienza sessantottina, che ne sintetizza il tratto culturale di fondo, ha avuto il pregio di aver scosso, pur nella sua estrema parzialità ed anche con la sua dose di stupidaggine, come avviene sempre nei grandi mutamenti a cominciare, per fare un esempio da quel lontano porgi l’altra guancia, o dai a Cesare quel che gli compete.

Ma il sessantotto è un coagulo multiforme di istanze, un fenomeno complesso e affatto monocorde, perciò trovo molto ingiusto etichettarlo come «il gioco di una ideologia distruttiva». Ingiusto, sciocco, fazioso e, molto ideologico. E una sentenza a suo carico con la motivazione di aver scardinato e immiserito la lingua mi pare anacronistica e ignorante.

Gli animatori del maggio francese o dell’autunno caldo o della rivolta di Berkeley, e pure noi che in quegli anni ascoltavamo solo la musica sentita suonare in famiglia o per strada o a casa di amici, vedevamo le foto in bianco e nero del Vietnam, del Ku Klux Klan, dell’omicidio di Dallas, sono stati e siamo stati allievi di illustri studiosi “classicissimi”, dotti, austeri, autorevoli, severi, esigenti, ma anch’essi inquieti, impazienti, carichi di speranze. Ne cito due che mi risulta abbiano dato qualche rudimento allo stesso De Marco, Garin e Ranchetti. Possiamo averli contestati, aver tentato accese discussioni con loro, ma rispettandoli, riconoscendone la statura. Volevamo probabilmente uccidere i padri, ma sappiamo badar loro nella vecchiaia, anche se con l’aiuto di forza lavoro immigrata.

Il fatto è che cercar di capire e studiare come si è fatto in quegli anni, ampliando i propri orizzonti, cercando dei nuovi capisaldi, tentando di dar risposte ad aporie evidenti, ancora insanabili logicamente, concettualmente e, peggio, nella pratica, ha inevitabilmente prodotto uno spaesamento negli studiosi che si chiedevano dove fossero i punti di contatto fra Marx, Keynes e quel che porta a Latouche, oppure fra György Lukács, Russell, Marcuse e Bateson – e forse anche qualche sindrome depressiva.

Per quella strada, purtroppo, l’altro celebre slogan del ’68, ce n’est que un debut, non è che in debutto, è rimasto lettera morta, ci si è arenati, ci si è lasciati fagocitare, si è scelto la via breve di un cartone animato come intrattenimento dei figli e l’espansione di carosello a tutti gli orari del giorno e della notte purché ci lasciassero dormire.

De Marco non vede invece il nefasto ruolo della televisione, che è vero, sì, si è anche alimentata di sessantottini o seguenti, di quella commerciale in special modo, e per questa strada del commercio e del world trade, il commercio internazionale. De Marco non vede l’ideologico omicidio delle ideologie, funzionale alla vacuità e al compulsivo ingozzare merci, immagini, icone, bugie.

Benvenga comunque il suo esame di coscienza. Che presume però, prima, la formazione di coscienze.

P.S. La sera stessa del giorno in cui è uscito l’articolo sono stato a cena da un ex compagno, di classe e di lotte, con un altro compagno, di classe e di lotte, e l’insegnante di italiano, latino, greco, storia e geografia che avevamo al ginnasio, di cui abbiamo sempre ipotizzato, forse sbagliandoci, la sua adesione al fascismo.

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2 Responses to “Il 68 e la lingua di oggi”

  1. Alla sacrosanta conclusione “Che presume, però, prima la formazione di coscienze” aggiungo: “… e di competenze”.
    Se il prof. De Marco avesse impiegato il suo tempo, invece che a dispensare urbi et orbi quelli che sono esclusivamente degli stereotipi, a leggersi “linguisti veri e seri” – e quindi capaci di ben più raffinate e complesse analisi – meglio avrebbe fatto: se proprio non sa da dove partire vada a leggersi Tullio De Mauro.
    La generazione del ‘68 – di cui certo non disconosco limiti ed errori – è la stessa che ha preteso l’innalzamento dell’obbligo scolastico e che ha saputo dire “ancor prima che insegnar letteratura bisogna insegnar lingua (anche perché altrimenti non capisci nemmeno la letteratura)”: e con questo il prof. De Marchi vada anche a (ri)leggersi Don Milani.
    Grazie per l’ospitalità.
    Patrizia Bellucci (già Università degli Studi di Firenze)

  2. maria scrive:

    che dire? I ragazzi non parlano bene, intendo grammaticalmente; noi un po’ più vecchiotti, alla loro età eravamo “tenuti” a conoscere molto più approfonditamente la lingua italiana. Inoltre conoscevamo molta più “cultura classica” (in seconda e terza media era costretta a mandare a memoria svariati canti di Dante…) …..ma quante cosa “loro” sanno di più, rispetto a noi alla loro età? I giovani, oggi, e purtroppo so che non è di tutti, hanno una cultura non classica, ma più estesa, più allargata: hanno acquisito tante informazioni su culture altre rispetto al nostro orticello, anche grazie alla immensa varietà di culture tra i compagni di banco, e magari non conoscono alcuna poesia di Leopardi a memoria, o sbagliano a scrivere conoscenza nel tema all’esame di III media, ma sanno chi è Rosa Parks, solo per fare un esempio, sanno parlare di emozioni, sanno riconoscere nelle parole di un compagno il dramma familiare che sta vivendo (tanto per fare un altro esempio), o nella sfuriata inappropriata di un’insegnante la probabilità di un problema che non riguarda la scuola, ma la vita privata dell’insegnante stesso….Noi, o almeno io, non eravamo/ero così profondi, nè colti. Conoscevamo a memoria tante informazioni, ma nessuno ci aveva educato allo spirito critico, o a collegare le informazioni stesse, e tantomeno ci aveva formato ad un’educazione emotiva. Avevamo cioè una preparazione nozionistica, e non eravamo abituati a saper utilizzare le nostre “nozioni”, collegandole, e estrapolandole, per formarsi un’opinione nostra. Trovo che queste generazioni, quelle che adesso sono proprio in erba, abbiamo delle chance culturali non indifferenti. Maggiori di quelle che avevano i nostri fratelli maggiori, quelli del 68….che erano pure tanto ma tanto noiosi!!!

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