Il diletto di Eugenio
Francesco Bucci ha scritto un saggio che si intitola Eugenio Scalfari. L’intellettuale dilettante, dopo molto girovagare ha trovato l’Agenzia letteraria Bottega editoriale al quale è piaciuto ed ha tentato di proporlo a diverse case editrice ricevendo, pare, solo rifiuti.
Rifiuti dettati, spiega il comunica stampa che accompagna il pdf del libro, non dal fatto che il testo non piacesse o non rientrasse nelle strategie editoriali, ma perché… «Qualcuno ce l’ha detto direttamente (ma solo rigorosamente a voce…); qualcun altro ce l’ha fatto capire, guardandosi bene però dal dichiararlo. La sostanza, comunque, era uguale: “Perché mettersi contro il Partito di Repubblica”? Eppure, il testo, lo ribadiamo, veniva nella gran parte dei casi giudicato valido…».
Relata refero, citando dal comunicato stampa di Bottega editoriale che s’intitola: «Parlar male di Giuseppe Garibaldi si può, ma di Eugenio Scalfari no!»
A giudizio dell’agenzia letteraria, il pilastro del giornalismo italiano – quello che ne ha sconvolto gli scenari inventando un tabloid con cui tutti hanno dovuto fare i conti, che ha insidiato la corazzata di via Solferino, e reso pressoché superflua la lettura de l’Unità a quota un milione di copie la domenica quando nacque Repubblica – sarebbe inattaccabile, vano ogni tentativo di criticarlo o mettere in cattiva luce il suo lavoro.
Francesco Bucci mi ha inviato il testo del suo libro ed il relativo comunicato stampa, spiegandomi, su mia esplicita richiesta, di averlo fatto «così come a molti altri intellettuali italiani che mi sembrava potessero essere interessati alla promozione di un’opera “controcorrente” e fastidiosa, perché mette in luce le responsabilità di una parte importante dell’industria culturale italiana (Repubblica-L’Espresso, Rizzoli, Einaudi e da ultimo Mondadori), che propina ad una massa di sprovveduti lettori prodotti di infima qualità in una logica puramente mercantile».
E aggiunge: «Scalfari (come già il Galimberti preso di mira dal mio precedente libro) è solo un esempio – anche se di particolare rilevanza – di questo diffuso malcostume».
Non mi sento, come molti altri, un intellettuale italiano, benché intelliga e appartenga al patrio suolo, e, fatte le debite differenza, son solo un giornalista come Eugenio Scalfari, ormai non più, purtroppo, dilettante. Non temo, parlando di questo libro, di inimicarmi il Partito di Repubblica che molti anni fa non ha accolto la mia proposta di adesione e più recentemente mi ha risposto di non aver budget per ospitare qualche mia considerazione.
Non credo nemmeno che nell’industria culturale italiana non ci sia chi non sarebbe disposto a dar fuoco alla barba di Barbapapà, benché i suoi libri presi in esame da Francesco Bucci siano stati pubblicati, in massima parte, o da Berlusconi o da Rcs (Einaudi e Rizzoli).
Credo anzi che avrebbe mercato dare addosso al decano e che l’ipotesi della congiura, della conventio ad excludendum, del boicottaggio e della censura siano un buon veicolo per veicolare e promuovere l’opera controcorrente.
Accetto dunque e ne scrivo. Citando un breve passo del libro e precisando che nel testo Eugenio Scalfari viene indicato, per brevità, con le sole iniziali (ES).
Allorché, verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso, ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella sua mente si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, che egli ha subito intrapreso con giovanile entusiasmo ed ancora prosegue con instancabile lena.
L’idea luminosa deve essere stata quella di lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità. E, poiché il suo mestiere è quello di scrivere, il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi. Fatto sta che ha iniziato a pubblicare un libro dopo l’altro, con una forte accelerazione negli ultimi anni: Incontro con Io (Rizzoli, 1994), Alla ricerca della morale perduta (Rizzoli, 1995), Attualità dell’Illuminismo (Laterza, 2001), L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), Per l’alto mare aperto (Einaudi, 2010) e Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, 2011).
Libri con i quali si inoltra, con piglio gagliardo e passo sicuro a dispetto dell’età, nei più vari campi del sapere: filosofia, letteratura, storia, psicologia, arte, scienza. Tutto, insomma, fuorché politica, economia e finanza, su cui – per nostra fortuna – continua a intrattenerci ogni domenica sul giornale da lui fondato.
Non più, dunque, solo il giornalista costretto ad occuparsi di questioni che, seppur importanti, sono comunque di ordine “pratico”, come le qualificherebbe il suo filosofo di riferimento, Benedetto Croce, ma l’intellettuale “puro” che, crocianamente appunto, frequenta lo Spirito nella sua forma teoretica e guarda pertanto le umane vicende non più nella loro volgare quotidianità, ma sub specie aeternitatis.
Questo, sì, è davvero un bel modo per concludere una lunga vita già piena di soddisfazioni e di successi e, soprattutto, per passare alla storia (della cultura e non solo del giornalismo), finalmente a fianco dell’amico Italo Calvino.
Ma c’è un però.
Purtroppo per ES e per le sue ambizioni, e purtroppo per i malcapitati lettori, i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale. E questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante. ES scrive infatti i suoi libri da giornalista, qual è e quale rimane. E il dilettantismo, lo sostiene ES, è caratteristica tipica di tale professione.
Avendo praticato quella professione e conoscendola dal di dentro, credo che il modo giusto di definirla sia la parola “dilettante”. Il giornalista deve tradurre i linguaggi specialistici dell’uomo politico, dell’economista, del burocrate, del tecnico, dello scienziato […] in una lingua comprensibile a tutti, chiara dove il suo interlocutore è stato oscuro, decifrandone i tecnicismi e il gergo specialistico. È naturale che il giornalista non possieda conoscenze approfondite. Sarebbe un Pico della Mirandola e non un impiegato addetto alle notizie. La sua è dunque una cultura dilettantesca, un’infarinatura approssimativa […] E tuttavia è, a suo modo, un grande specialista: specialista di dilettantismo. (L’uomo che non credeva in Dio, p. 95).
La stessa tesi l’aveva già espressa, in maniera più sintetica, in un articolo (la Repubblica, 21 maggio 2004).
[…] la funzione di giornalista è quella di essere un dilettante di professione. Importa poco che tu possa conoscere il regolamento della Camera o il clima delle piante dell’Africa centrale e via dicendo: non è pensabile che tu sappia ogni cosa, ti si chiede invece una forte infarinatura di cultura generale […]
Se sostenuta da un maestro del giornalismo, la tesi sarà senz’altro giusta. Ma in un’intervista (L’Espresso, 13 maggio 2010) ES giunge a sostenere che anche l’intellettuale debba rifuggire dagli specialismi.
Chiede l’intervistatore, con riferimento a Per l’alto mare aperto:
Lei parla tra le altre cose del ruolo degli intellettuali e spiega come questa figura sia legata all’idea di modernità. Con il passaggio d’epoca avremo ancora degli intellettuali o solo degli specialisti in determinate materie?
Risponde ES:
Il rischio che sia la tecnologia a guidare l’uomo e non l’uomo la tecnologia, esiste. E lo specialismo aumenterà, ma a questa tendenza gli ultimissimi moderni hanno reagito. Basti pensare a figure come Paul Valéry, Eugenio Montale e Italo Calvino. Sono persone che hanno parlato di tutto, perché la modernità non è specialismo. Il pensiero moderno comporta l’universalità.
Ecco subito un bell’esempio di teoria e pratica di dilettantismo intellettuale. In poche righe ben due errori: uno di tipo “linguistico-concettuale” e uno di tipo “culturale”. Il tutto, ancora, all’insegna di un crocianesimo di risulta: se i tecnici sono condannati allo specialismo, gli intellettuali devono adempiere alla loro missione “universale” occupandosi e parlando di tutto.
Peccato che il contrario di “specialismo” sia “generalismo” e non “universalità” (e che i contrari di “universalità”, a seconda dell’accezione in cui il termine viene usato, siano “particolarità” o “parzialità”). Si tratta, infatti, di parole che esprimono concetti non opposti ma eterogenei: “specialismo” indica il possesso di competenze circoscritte, ma approfondite; “universalità” indica o l’appartenenza all’intera umanità di un “qualcosa” (valori, diritti, ecc.), o un insieme di “cose” considerate nella loro totalità. L’epoca moderna, inoltre, per l’enorme sviluppo e diversificazione delle conoscenze, non può che essere un’epoca di specialismi in tutti i campi, a differenza del periodo rinascimentale, che ha annoverato tra i suoi massimi intellettuali proprio quel Pico della Mirandola citato da ES. E quindi l’intellettuale moderno non può essere un Pico, ma per il motivo opposto a quello per cui non può e non deve esserlo un giornalista: perché è tenuto a padroneggiare quella, e solo quella, porzione dello scibile di cui professionalmente si occupa. E proprio per ciò non può “parlare di tutto”, se non allo stesso titolo di un giornalista “generalista” ed allo stesso modo di questi: dilettantisticamente, appunto. Come quando, ad esempio, Antonino Zichichi parla di teologia e Gianni Vattimo di scienza.
Ho letto solo un paio di libri di Scalfari e in uno di essi rimasi sorpreso dallo sconcertante errore di parlar della nascita delle Regioni e della conseguente assunzione di personale come di un fenomeno dell’immediato dopoguerra, quando è noto che, pur essendo state inserite quali ossatura della Repubblica italiana nel 1947, entrarono in funzione solo nel 1970, 23 anni dopo.
E ricordo bene le pesanti critiche che, se non sbaglio, Luigi Spaventa mosse ad un suo articolo su John Maynard Keynes, alle quali Scalfari replicò con modestia, ammettendo le imprecisioni, le inesattezze, le erronee interpretazioni: chapeau!
Non escludo che altri errori possa aver commesso e che Francesco Bucci possa aver colto nel segno. Ma è l’impianto che non mi convince. Non solo perché l’ammissione del dilettantismo già di per sé è segno di un’onestà intellettuale assai rara proprio tra gli intellettuali, proprio tra quelli ammessi a fregiarsi di questo titolo, nella maggior parte dei casi una cattedra a disposizione.
Ma non comprendo perché aver scritto dei libro da giornalista debba esser privo «di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale». Ne esistono di scritti da analfabeti che ne hanno a dismisura, figuriamoci di questi usciti dalla penna di un uomo che ha osservato per 73 anni, ad oggi le vicende del paese, del mondo e delle persone, da quel lontano 1942 quando fu nominato caporedattore di Roma Fascista.
Ciò detto consiglio la lettura dei suoi libri e di quello di Bucci: in fondo il diletto del dilettante lo trovo dilettevole.
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Caro Pugliese, la ringrazio per l’attenzione al mio libro. L’impressione che ho è, però, che ne abbia letto solo l’Introduzione, come purtroppo fa gran parte dei recensori. Altrimenti non avrebbe scritto: “Non escludo che altri errori possa aver commesso e che Francesco Bucci possa aver colto nel segno”. Ma come? Di errori (e di orrori) commessi da Scalfari, di cui sono disseminati i suoi libri, ne esemplifico a centinaia e lei non esclude che possa averne commessi altri rispetto ai due da lei stesso citati!
Ma, anche stando alla sola Introduzione, vi viene chiarito piuttosto bene che i libri di Scalfari sono privi di qualsiasi valore culturale perché egli, con somma presunzione e imperdonabile incoscienza, si avventura in terreni impervi, che non possono essere affrontati senza adeguata, specifica preparazione (filosofia, scienza, letteratura, psicoanalisi …), preparazione che, stando ai risultati da me documentati, a lui manca del tutto. Ed è pertanto ai risultati che occorre guardare, non già alla presunta petizione di principio che lei mi addebita ed in cui sembrerebbe esaurirsi il mio scritto.Un giornalista, caro Pugliese, può certo scrivere libri, anche di grande valore culturale, ma solo se si limita a trattare materie di cui è professionalmente competente (politica, economia, finanza, costume, sport …). Parlo, ovviamente, di saggistica, ché un libro di narrativa non si nega ormai più a nessuno (neppure agli analfabeti).
Credo, infine, che l’ultima riga del suo testo contenga un mero gioco di parole. Condivido infatti appieno il fulminante aforisma di Alessandro Morandotti: “Il dilettante diletta solo se stesso”.
Cordialmente
Francesco Bucci