Difesa d’ufficio
Caro Francesco Bucci,
o mi sono spiegato male o sono stato frainteso. E propendo per la prima. Scrivere come ho scritto di Scalfari in Il diletto di Eugenio «Non escludo che altri errori possa aver commesso e che Francesco Bucci possa aver colto nel segno», non vuol dire che ES non li abbia commessi e FB non li abbia colti. Vuol dire lasciare aperta la questione al giudizio altrui, non pronunciarsi nel merito, astenersi dal giudizio, sospendere la sentenza.
Anzi, vuol dire «suppongo che ES li abbia commessi e FB li abbia colti». Non li ho citati uno ad uno perché è il suo libro che lo fa, e il mio sarebbe stato plagio o il gioco della eco. Io mi sono limitato a quelli che conosco di persona e di cui ho memoria. Lasciando che il lettore interessato a scoprirli legga Eugenio Scalfari. L’intellettuale dilettante, di Francesco Bucci, e non solo il comunicato stampa di Bottega editoriale, che su Google gode già di una certa fama e diffusione.
Naturalmente posso essere sminuito per essermi spiegato male od essere stato frainteso, affermando che io «abbia letto solo l’Introduzione, come purtroppo fa gran parte dei recensori», per lo più giornalisti e perciò, come afferma lo stesso ES con il beneplacito di FB, dilettanti. Oppure l’ipotesi potrebbe essere che già lì è contenuto quello che le sue 118 pagine intendono dimostrare e che nella replica al mio scritto ripete: «i libri di Scalfari sono privi di qualsiasi valore culturale perché egli, con somma presunzione e imperdonabile incoscienza, si avventura in terreni impervi, che non possono essere affrontati senza adeguata, specifica preparazione (filosofia, scienza, letteratura, psicoanalisi …), preparazione che, stando ai risultati da me documentati, a lui manca del tutto».
Affermazione che non condivido, avendo letto solo L’uomo che non credeva in Dio e Per l’alto mare aperto, nei quali anch’io ho trovato talune superficialità o eccessive semplificazioni tipiche del giornalista, ed ammettendo che se quei libri li avesse scritti DP o PP o AZ, anziché ES, né Rizzoli né Mondadori li avrebbero pubblicati. Parte del loro valore sta nel fatto che li abbia scritti ES, ma del resto non c’è libreria che non ci propini BV, FV, MR, ELJ, DB che stanno rispettivamente per Vespa, Volo, Renzi, James, Brown (e non mi dica che devo specificare che James non è Henry, ma E.L. alias Erika Leonard e Brown non è il personaggio in tonaca dei gialli di Gilbert Keith Chesterton ma Dan, autore del recentissimo pluriosannato Inferno), per non dire dei fondi di magazzino di GGM, a tutti noto come Gabriel García Márquez.
Non la condivido perché ho presente il filo del ragionamento che Scalfari fa, pur con qualche scivolone, come minimo dal 14 gennaio 1976, giorno in cui uscì in edicola la Repubblica, alla quale, nel bene e nel male – perché c’è anche del male, tant’è che oggi il giornalismo non è quello prima di Repubblica – si deve l’affermazione di un disegno culturale, discutibile quanto si vuole, ma piuttosto ben delineato, ed il pensiero del suo fondatore, del suo Barbapapà, si può, a mio modestissimo giudizio, leggere come una weltanshauung dotata del suo «valore culturale».
Può anche darsi che sia la cultura del dilettantismo, non mi sento di escluderlo, io ci vedo di più la ricerca di una religione laica, il disperato bisogno di affermare valori svalutati e difficilmente rivalutabili nell’epoca, non imputabile a ES, del crollo delle ideologie e del relativismo culturale portato alle sue estreme e inevitabili conseguenze.
E mi sembra importante che ci abbia provato un giornalista letto quotidianamente da 7-800 mila lettori anziché un apprezzabilissimo e stimatissimo topo di biblioteca seguito dal risicato manipolo dei suoi accoliti.
Perciò le molte chiose alle singole affermazioni del grande ES, per quanto probabilmente pertinenti e corrette, supportate da vasta cultura e ampie letture, il contraddittorio plurispecialistico sulle plurispecialistiche invasioni di campo di Barbapapà, mi sembrano non cogliere l’insieme e mi lasciano perplesso. Del resto, se ES si fosse limitato, come sostiene lei, «a trattare materie di cui è professionalmente competente (politica, economia, finanza, costume, sport …)», avrebbe commesso errori analoghi, non essendo segretario di partito (se non quello di Repubblica), economista, broker, pettegolo o giocatore di football.
Non per questo, lo ripeto, sconsiglio la lettura del suo libro. Dico di leggerlo con delle avvertenze: l’editoriale L’Espresso non fallirà per questo.
Mi spiace invece che disprezzi chi scrive (anche) di narrativa, come se a questi fossero aperte le porte del paradiso anche se convinti che la squola si scriva così: che mi dice di quei saggisti in cattedra, autori di libri per i licei secondo i quali Galileo ha avuto il torto di non comprendere la teoria della relatività? Mi creda, esistono.
Forse, lo confesso, pur avendo pubblicato nel blog le preziose considerazioni di Mario Talli sull’insulsa etichetta “giornalista-scrittore” (Mario, gli scrittori, i giornalisti) mi sono sentito in dovere di una difesa d’ufficio verso la categoria dalla quale mi sento oggi molto distante, non sentendomi nemmeno ammissibile a quella degli scrittori o, come ho scritto, degli intellettuali, quantunque condivida l’opinione di Antonio Gramsci secondo il quale tutti quelli che fanno un lavoro intellettuale hanno diritto di fregiarsi del titolo, così come chi cuoce le uova per mestiere è un cuoco, ed un giornalista, come ES almeno, lavoro intellettuale l’ha fatto, idee ne ha messe.
Sa, caro signor Bucci, mi verrebbe da citare Karl Kraus, giornalista antigiornalista, insuperabile aforista, e oggi riconosciuta mente pensante, pur senza cattedra sotto al sedere: «Non avere un’idea e saperla esprimere: è questo che fa di uno un giornalista».
Ma forse è più opportuno che citi l’Alfieri: «Dare e tôr quel che non s’ha / è una nuova abilità. / Chi dà fama? / I giornalisti. / Chi diffama? / I giornalisti? / Chi s’infama? / I giornalisti. / Ma chi sfama / i giornalisti? / Gli oziosi, ignoranti, / invidi e tristi».
Quanto ad Alessandro Morandotti non lo conoscevo prima che lei me ne parlasse, e scopro trattasi di docente di storia dell’arte all’Università della mia amata Torino. Che abbia scritto per diletto l’aforisma sui dilettanti?
La ringrazio per avermi donato il suo libro, per l’attenzione, la pazienza e spero di poter continuare anche su altri temi il nostro dialogo a distanza.
Cordialmente
Daniele Pugliese
Tags: Antonio Gramsci, Eugenio Scalfari, Karl Kraus, La Repubblica, Vittorio Alfieri
Caro Pugliese, la ringrazio ancora davvero, soprattutto per il tempo che mi sta dedicando.
Nel merito, continuo a pensare che se avesse letto il libro per intero non le sarebbe sfuggita la tesi di fondo, ribadita e argomentata in tutti i modi: ES è un grande giornalista come da lei sottolineato (io stesso ne sono lettore da sempre), ma un pessimo saggista, per i motivi più volte detti. Di più: l’ES saggista va assai spesso in rotta di collisione con l’ES giornalista. La modestia degli strumenti culturali (e quindi la spregiudicatezza) con cui maneggia temi specialistici a lui estranei non gli consente neppure di cogliere le numerose, clamorose contraddizioni tra le fantasiose, strampalate tesi esposte nei suoi libri e quanto va scrivendo da decenni sulle pagine di Repubblica.
Questo, caro Pugliese, è il punto: l’ES “intellettuale universale” negli ultimi venti anni è progressivamente sprofondato, con patetica baldanza e beata inconsapevolezza, nel grottesco e nel patetico, senza che nessuno abbia avuto il coraggio – nel suo stesso interesse – di dissuaderlo dall’insana impresa, ed anzi con uno stuolo di recensori che, cantandone le lodi, lo spronava di fatto a proseguire. Anche i più “perplessi” (come Ferroni) si sono limitati a esprimere, a mezza bocca, velatissime critiche. Unica eccezione, che io sappia, fu Garboli con la sua ironica recensione di Incontro con Io.
Questo è dunque lo “scandalo”, noto certamente agli addetti ai lavori, ma non alla generalità dei numerosissimi lettori di Scalfari e, più in generale, agli utenti di un’ industria culturale più attenta agli interessi di bottega che alla qualità dei suoi prodotti.
Con viva cordialità
Francesco Bucci
Caro Bucci, il tempo dedicato al suo libro, come ho scritto, deriva dalla considerazione che consiglio di leggerlo a chi si interessa di informazione e maestri del giornalismo, anche se non condivido il senso di fondo. Lei continui a pensare che io non abbia letto il libro per intero e mi sia sfuggita la tesi di fondo, vale a dire che ES è un grande giornalista, ma un pessimo saggista. Ma può anche darsi sia così, perché gli specialismi dovrebbero esser lasciati agli specialisti, ed io, da non specialista mi fermo. Ricordo solo quel che diceva Lenin proprio degli specialisti: “Gli specialisti sono coloro che sanno sempre più cose su meno cose, fino a sapere tutto su niente”. Naturalmente condivido in pieno la sua considerazione sull’industria culturale più attenta agli interessi di bottega che alla qualità dei suoi prodotti. Ma questa è un’altra faccenda.
Un caro saluto
Daniele Pugliese