Rivoluzioni e tradimenti

John Stuart Mill

Un articolo comparso sul Corriere della Sera del 6 giugno scorso che mi ero ritagliato abbandonandolo nel fondo della tasca di una giacca, riporta parte dell’intervento di Giulio Giorello al festival letterario di Cagliari “Leggendo metropolitano” dedicato al tema dei legami.

Giulio Giorello

Nell’articolo Giorello cita il Saggio sulla libertà (1859) di John Stuart Mill: «Ogni vincolo, in quanto tale, è un male».

Spiega che per il filosofo il contesto era quello della dottrina del libero scambio, ovvero sia, aggiungo io, il fondamento di quello che ci vien strombazzato tutti i giorni e in tutte le salse come l’unico mondo possibile, dal quale la sola idea di poter uscirne suona come una bestemmia e quasi costituisce un reato, come se disponessimo di un unico pensiero detto il pensiero unico al quale appellarci nel nostro bisogno di darci risposte.

Ma l’idea per Mill, prosegue Giorello, «aveva una portata ben più ampia, tanto che il liberismo economico non era per lui necessariamente connesso a un più generale principio di libertà individuale». Era insomma capace di «abbandonare la sua vittoriana imperturbabilità per prendere le difese di chi contro la tirannide era disposto a ricorrere ai mezzi più radicali».

Esser liberali, dunque, non sarebbe solo auspicare la libera impresa, certo anche, ma pure non soggiogare ed accettar la soggezione, non esser ridotti in schiavitù, non aver mani e piedi legati, non sottostare all’impedimento o alla costrizione.

Sprezzante del «conformismo ispirato da qualsiasi religione», Mill, secondo Giorello, aveva tuttavia fatto suo «in chiave laica un passo di Isaia (58, 6): il digiuno che il Signore raccomanda ai suoi eletti non è quello di astenersi da particolari cibi o bevande, ma “sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni gioco”».

Giorello, che ha all’attivo un libro dedicato proprio al tradimento, sostiene che l’economista inglese coniugasse tale digiuno con la responsabilità e l’esposizione al rischio, perché chi s’intende di «infrangere dei legami, imposti dalla forza o consolidati dall’abitudine, può sempre incappare nell’accusa di tradimento». Il traditore, infatti, sarebbe «ribelle perfino contro il Signore, se si pensa che il potere venga da Dio», ma di pari passo «difensore della libertà propria e dei suoi compagni di avventura, se si pensa invece che il tradimento sia stato commesso da coloro che si sono eretti ad autorità in modo illegittimo».

È la qualità del legame, dunque, ciò che conta: «come spiegavano agli esordi della nostra modernità coloro che criticavano l’indissolubilità del matrimonio e però non escludevano una equa regolazione del divorzio. Ma come una relazione sbagliata può fare di una famiglia una prigione, così un governo dispotico può tramutare un intero Paese in una terra ove regnano solo paura e oppressione».

La conclusione di Giorello è che il traditore «può trasformarsi nel protagonista di un cambiamento che apre nuovi orizzonti»; in ogni caso, anche nel peggiore, gli va riconosciuto il merito di essersi opposto «alla pretesa inevitabilità del corso della storia mostrando che il nostro libero arbitrio non può essere del tutto spento».

I miei studi sul liberismo al liceo e all’università si erano incentrati più su Smith e Ricardo in campo economico e su Hobbes in quello politico, e Stuart Mill mi era noto solo per sommi capi o, come dire, in termini di compendio manualistico. Non ho mai affrontato le sue opere direttamente e trovo molto interessante, invece, i temi che qui vengono proposti.

Aldo Carotenuto

In effetti ribellarsi o contestare è un tradire, e la capacità del traditore di comprendere quel che non va e di assumersi la responsabilità di portarlo alla luce, è ben spiegata da Aldo Carotenuto nel suo libro Amare tradire, nel quale il tradimento perde l’accezione deleteria, negativa e infamante in cui solitamente è considerato. Per lo psicanalista è un’inevitabile affermazione della soggettività, un’esperienza irrinunciabile dalla quale derivano mutamento, progresso, crescita.

È spesso una presa di coscienza di quanto vi è di inautentico o costrittivo o limitante tanto all’interno di un rapporto, quello di coppia, prima ancora con i genitori e con fratelli e sorelle, poi anche con i figli e più in generale nella famiglia, ma anche in un gruppo, in una squadra, in una comunità. È spesso una presa di coscienza di quanto vi è di inautentico o costrittivo o limitante anche in se stessi, in quel che di sé si porta in quelle relazioni. E può essere l’evidenziazione o la presa d’atto di un tradimento precedente, magari silenzioso e camuffato, consumatosi in quelle relazioni, innescatosi per il solo fatto che sono relazioni, mescole cioè di soggettività e appartenenza, di proiezioni e bisogni.

Sono rivoluzioni indispensabili quando le riforme non hanno sortito effetto, quando i pacati tentativi di modificare, superare, cambiare non sono riusciti e lo «stato attuale delle cose» richiede la sua abolizione, come Marx definiva il comunismo in relazione al capitalismo frutto del liberismo.

Un liberismo ulteriore, insomma, equiparabile a quello che aveva emancipato i borghesi dal gioco degli aristocratici o di quest’ultimi da quello dei monarchi o di questi ancora dall’autorità religiosa.

Dunque traditore non è solo chi spezza la catena, ma anche chi, avendo spezzato catene, le ha riproposte.

I cambiamenti ai quali ci si sottopone nella vita di coppia, il più delle volte amorevolmente fatti per venire incontro al desiderio dell’altro, per plasmarsi come ci desidera, per diventare quel che l’altro vorrebbe che si fosse non più contenti di quel che si è o si era, il venir meno all’iniziale sedurre e all’iniziale essere sedotti, il cominciare ad abbandonare o a sentirsi abbandonati, possono innescare un’insofferenza, una ricerca d’altro, un’apertura ad altro che finisce per essere tradimento.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Avviene insomma qualcosa di simile a quella dialettica padrone-servo che Georg Wilhelm Friedrich Hegel ha descritto nella Fenomenologia dello spirito, ipotizzando che la differenza fra un signore e un servo sia data dal fatto che il primo ha voluto affermare la propria indipendenza rischiando la vita pur di raggiungerla, e così è riuscito ad elevarsi, mentre il secondo ha preferito la perdita della propria indipendenza pur di avere salva la vita. Ci sarebbe dunque un elemento di coraggio, o di incoscienza nella nascita della differenza di classe o nell’instaurazione di un rapporto di dominio.

L’ardimento del primo, la sua capacità di sfida, l’imprenditorialità, l’esposizione al rischio, anche un’intelligenza o una furbizia superiori, sarebbero la molla iniziale, che poi si trasforma nell’accumulo di capitale, risorse, potere, capaci di moltiplicare il proprio predominio e la posizione privilegiata.

Ma una volta messo in piedi questo ambaradan, nel quale il servo è dipendente dal padrone, è quest’ultimo che si mette nella posizione di aver bisogno dell’altro, di non poter fare senza l’apporto dell’altro. Dipende dal lavoro del servo, che sa fare quello che lui non sa più fare da solo, e che provvede al mantenimento della sua vita, gli fornisce ciò di cui ha bisogno. Ne dipende, dunque, non può più farne a meno.

Per Hegel non si sono perduti i ruoli originari, ma entrambi ne hanno aggiunto uno nuovo, opposto, al proprio.

Questo rapporto dialettico potrebbe, mi pare, esser letto proprio come un tradimento, che inizia dall’atto di aver coraggio o, viceversa, di cedere alla paura – di accumulare in un caso e dissipare nell’altro – e prosegue nel delegare la propria capacità all’altro affidandogli gli strumenti di sussistenza o almeno la capacità di adoperarli.

Insomma tradimenti progressivi e tradimenti regressivi, rivoluzioni trasformate in restaurazioni e un’incessante staffetta verso una meta della quale ci sfugge ancora la destinazione.

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