I giovani e la politica

La rinuncia all’ideologia – ma anche agli ideali e alle idee di cui necessariamente è alimentata –, nonché alla fede verso un impianto concettuale così complesso – teorico prima che pratico e, perciò, più o meno utopistico –, è una delle ragioni, niente affatto insensate, per cui è stato smontato e fatto a pezzi il Partito comunista – la sua cultura, la sua organizzazione, la rete che gli stava intorno e lo stesso patrimonio di idee, esperienze, uomini, immobili, teste e testate – ed anzi, di più, i pilastri logici, emotivi, psicologici, esperienziali e finalistici su cui non solo quel partito si reggeva in piedi, ma la stessa struttura della politica, il suo essere organizzata appunto prevalentemente in formazioni e organismi più o meno grandi a grandi ideali ispirati, o alla convinzione, almeno, che anche piccole scelte, gesti, azioni, iniziative quanto meno dovessero aver quello scenario all’orizzonte o, come si cantava, quella “speranza in cuor”, ed esser quindi di parte, una o l’altra o un’altra ancora.

La sensatezza di tale rinuncia all’ideologia e alla fede può essere motivata con la considerazione che il significato originario della parola politica è arte – intesa come tecnica, quasi “manualità quotidiana” – di quanto attiene alla città (pòlis), a un luogo cioè in cui convivono molti (polùs) cittadini, cioè una comunità che qualcosa condivide e prende decisioni insieme per il bene di tutti o almeno dei più.

Non solo, dunque, qualcosa di molto pragmatico e pratico, ma, proprio perché pratico e pragmatico, immediato. In questo contesto im-mediato sta per istantaneo, attinente al presente, non per non-mediato, indiscusso. Tuttavia può essere arbitrario perché – che la decisione venga presa da un’assemblea, dalla maggioranza, dai saggi, dai nobili, dagli anziani o dal re – occorre un arbitro, un risolutore di controversie, un mediatore fra parti diverse, o uno capace di imporre con il consenso o con la forza, con l’autorevolezza o con l’autorità, la pratica scelta.

Città, comunità, decidere, scegliere, ma rapidamente per quindi fare (praxis), rendono evidente che la politica è attinente al qui e all’ora, l’hic et nunc latino, il presente e la presenza, l’essere adesso, o tutt’al più con margini di futuro strettamente collegati alla scelta attuale. Niente, quindi, che sia u-topico (senza luogo e perciò senza qui) e u-cronico (senza tempo e perciò senza ora), caratteristiche che, invece, facilmente sono presenti nell’ideologia, per sua natura ideale e poco pratica o praticabile e, nella pratica, inevitabilmente contraddittoria con il teorico o l’ideale.

Dimensioni queste ultime che comportano una qualche dose di fede, la quale è fiducia e affidamento, nella fattispecie a qualcosa che qui e ora non c’è, non è presente, a qualcosa che si può sperare o promettere, al limite giurare, verbi che in ogni caso, come si insegna a scuola, “vogliono l’infinito futuro”.

L’essere cieca credenza senza prove a dogmi o assunti in base alla sola convinzione personale o all’autorità di chi li ha enunciati è un’accezione della fede che viene dopo quella appena descritta. In greco fede è pístis ed è fedeltà, lealtà di colui la cui persuasione è salda, cioè forte il suo animo. Neanche in ambito religioso la parola fede ha, in tutte le religioni – a torto spesso definite “fedi”, e non, come invece indicano, “comunità”, “unioni”, “reciproci legami”, ammesso non alludano all’essere “riletture” e perciò forse “ripensamenti” – il significato di “credo” codificato ad asserzioni ritenute vere (dogmi). Talvolta è lealtà verso la propria comunità religiosa (ecclesia) o reciproco impegno nella relazione con la divinità, senza sottomissioni acritiche, o anche identità.

Anche una fede intesa come fiducia senza riserve, affidamento incondizionato, è plausibile di verifiche e aggiornamenti alla luce di smentite e questo dovrebbe essere l’atteggiamento della scienza, che fa bene a credere in quello di cui è convinta, ma solo, come si dice, fino a prova contraria, lasciando l’apertura al dubbio che non è automaticamente scetticismo o incredulità. Ed anche l’atteggiamento dell’amore e dell’amicizia. Non solo: la stessa assenza di fede non può essere fideistica.

L’atteggiamento con cui a un certo punto si è rinunciato all’ideologia e alla fede è stato, non a torto, definito laico, pragmatico, realista e relativista. Nell’ambito del Partito comunista la riflessione intorno a questi concetti non è stata irrilevante, ma per comprenderla appieno è indispensabile anche mettere in fila e considerare alcuni accadimenti storici nei dintorni dei quali quella riflessione, e poi quella rinuncia, hanno preso corpo.

L’esperienza avviata il 21 febbraio 1848 con la pubblicazione a Londra del Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels, passata per la rivoluzione d’ottobre che dal 6 novembre 1917 (24 ottobre del calendario giuliano) ha condotto alla creazione dell’Unione delle repubbliche socialistiche sovietiche e poi del patto di Varsavia o del cosiddetto blocco comunista, è drammaticamente naufragata, simbolicamente, il 9 novembre 1989, giorno in cui il governo della Ddr decretò l’apertura delle frontiere con la Repubblica federale tedesca, ovvero la caduta del muro di Berlino che divideva la città dal 13 agosto 1961.

I disastri e gli orrori che separano il 1848 dal 1989 hanno fiaccato anche la più inossidabile, ma genuina e onesta, fede nell’ideologia che era alla base di quell’esperienza e il drammatico interrogativo che resta nelle mani è se sia possibile impedire lo sfruttamento di un essere umano su un altro essere umano, un’organizzazione sociale dove ognuno faccia innanzitutto un mestiere, e poi quello che sa fare meglio, senza però schiavitù, sudditanza, dipendenza, mancanza di libertà, con la possibilità per tutti di nutrirsi, dissetarsi, ripararsi dalle intemperie, riposare, curarsi se malati, far l’amore e eventualmente allevare figli, giocare, conoscere, apprendere e tirare i remi in barca da vecchi. Che sarà anche un’utopia, ma non una bestemmia.

La responsabilità di quei disastri e di quegli orrori è ovviamente da attribuire a chi li ha commessi, avvallati, consentiti, accettati, taciuti. Ma il naufragio di quell’esperienza è stato anche architettato, perseguito, e vittoriosamente ottenuto da parti che avversavano quella prospettiva non solo per la contestazione dei disastri e degli orrori, ma perché auspicavano lo sfruttamento di un essere umano su un altro essere umano, un’organizzazione sociale dove ci siano schiavi, sudditi, dipendenti, e la libertà resti un’utopia. Parti avverse responsabili di non minori e meno efferati disastri e orrori visibili tutti i giorni.

Un ruolo determinante nel naufragio di quell’esperienza, e di più nel naufragio delle salutari idee (solo idee?) che animavano la parte non disastrosa e orrorifica di quell’esperienza, l’hanno avuto altre idee, o meglio, idee che cementano ideologie altre, sopravvissute alla critica laica, pragmatica, realista e relativista con cui alcuni si sono sbarazzati di ideologia e fede per essere laici, pragmatici, realisti e relativisti.

Certamente quelle di Karol Józef Wojtyła (Ioannes Paulus PP. II) 264º vescovo di Roma per 26 anni, 5 mesi e 17 giorni (il terzo pontificato più lungo della storia dopo Pio IX e Pietro apostolo), dal 16 ottobre 1978 al 2 aprile 2005 quando morì, primo papa della Chiesa cattolica non italiano dopo 455 anni, cioè dai tempi di Adriano VI (1522-1523) nonché primo pontefice polacco, e slavo in genere, della storia (era nato a Wadowice il 18 maggio 1920), proclamato beato il 1 maggio 2011 dal suo immediato successore (cosa che nella storia della Chiesa non capitava da circa un millennio), Joseph Aloisius Ratzinger, settimo pontefice tedesco col nome di Benedetto XVI e ottavo ad aver rinunciato al ministero petrino, a capo del Vaticano dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013.

Assai riduttivo, e per qualcuno addirittura blasfemo, sarebbe dire che le sue idee fossero quelle di un predicatore nazareno, cioè ebreo, vissuto nella provincia romana della Giudea più di 2000 anni fa di nome Yeshu’a in aramaico, Yehoshu’a in ebraico – ovvero Giosuè, alla lettera “YHWH è salvezza” – Iēsoûs in greco, Iesus in latino e Gesù in italiano, ribattezzato Cristo, che vuol dire unto e messia, ossia Dio fatto uomo o per altri solo profeta. E tuttavia idee riconducibili inequivocabilmente alla tradizione di pensiero che da quel predicatore si fa discendere e di cui Wojtyła incarnava la titolarità. In altri termini ritengo si possa dire che, per quanto anch’esso disorientato e nella bufera, il cattolicesimo – e ribadisco cattolicesimo, non cristianesimo – sia un complesso di idee che sono uscite rafforzate dal naufragio dell’esperienza egualitaria, emancipativa, liberativa e libertaria, inizialmente laica e addirittura atea rappresentata dal pensiero comunista.

Più in generale si ha l’impressione che il complesso delle idee religiose, monoteiste in primo luogo, ma non solo, abbia conosciuto un riscatto e rinnovati successi, all’indomani di quel secolo che separa il 1848 dal 1989, nel corso del quale anche altri importanti orientamenti hanno preso corpo – la scienza, la psicanalisi, il nihilismo, ma sono certo di dimenticarne altri per strada – facendo venire meno le conquiste fatte dal Rinascimento prima – collocando l’uomo al centro dell’universo e limitando il suo essere in balìa di forze straordinarie, il fato o il volere di dio –, poi dai padri della scienza moderna, quindi dalla Rivoluzione francese e dall’Illuminismo che l’ha guidata.

D’altra parte, però, altre idee si sono affermate con forza nei decenni a cavallo tra la fine del secondo millennio e questo inizio del terzo. La parte vincitrice nel conflitto ideologico che vedeva da una parte il pensiero comunista è la sua immediata antagonista, il capitalismo. Ma il capitalismo è un modello economico-sociale, non un’ideologia. I suoi fondamenti dovrebbero trovarsi nel liberismo, in parte nello stesso illuminismo, in parte ancora nel positivismo, nel romanticismo, capisaldi della cultura borghese che fra Seicento e Novecento ha portato all’affermazione di quel modello economico-sociale. Si potrebbe dire ancora del protestantesimo, del colonialismo e quindi di varie forme di razzismo e delle sue peggiori derive, nazismo e fascismo, che però non condividevano l’impianto democratico e nemmeno quello liberista originario.

Sarebbe molto importante decodificare l’impianto concettuale e fare un calcolo delle influenze apportate da quelle singole suggestioni nella cultura dominante di oggi, la quale si caratterizza per un semplice e banale denominatore comune: l’edonismo, inteso come soddisfazione immediata di bisogni, o supposti tali, da cui si presume ne derivi un piacere, secondo un meccanismo che nella soddisfazione di ogni nuovo bisogno produce un profitto con il quale si può soddisfare un nuovo bisogno e derivarne un ipotetico piacere, come se alcuni piacere non fossero possibili senza esborso di denaro e scambi commerciali.

Malgrado queste considerazioni, in Italia la sventagliata sotto le cui raffiche è stato spazzato via il Partito comunista e – a giudizio di quell’acuto preveggente, inevitabilmente un po’ delirante, che è stato Pier Paolo Pasolini – quella scialuppa in mezzo alla tempesta che erano i giovani comunisti, quota non minoritaria di miei coetanei, non tutti abdicati, ha fatto piazza pulita anche del Partito liberale, sulla carta sostenitore del pensiero di Smith e Ricardo, della Democrazia cristiana ispirata a carità, solidarietà, fratellanza e del Partito socialdemocratico, minimo comun denominatore di quel poco di buono che in qualche paese si è riuscito a fare pragmaticamente.

Ma la folata che li ha travolti, a differenza del Partito comunista, nel loro caso non è stata la rinuncia all’ideologia e alla fede, bensì la scelta di una specialissima forma di edonismo, sostenibile a parole per il popolo, ma perseguibile per sé: la via rapida alla ricchezza, profitto, rendita o prebenda che sia, nella quale poi qualche erede del nuovo corso s’è fatto invischiare.

La politica, buona parte di essa, ha imboccato la strada della corruzione, del peculato, della truffa, dell’appropriazione indebita, della tangente ad personam anziché ad partitum come era avvenuto qualche volta nel corso della Prima repubblica. Il partito, espropriato delle sue strutture organizzative e in qualche modo democratiche, ha ristretto all’apparato, ai notabili e ai privati il numero delle persone intese come parte da tutelare e far vincere perché così avrebbero prevalso i loro ideali.

La lezione del pragmatismo, del rifiuto dell’utopia, della rinuncia all’ideologia e allo scenario futuro, della non reciprocità delle fede, ovvero sia del mancato rispetto della fiducia accordata, è stata ben appresa, purtroppo, all’epoca di tangentopoli ed ancor oggi.

Questo ha ingenerato una sfiducia, sciocca e pericolosissima, non in quei politici o in quei partiti o in quei gruppi dirigenti, ma verso la politica, lo star nella medesima polis, il condividere l’appartenenza a una medesima comunità, fosse la categoria sociale d’appartenenza, la professione svolta, il genere, la generazione, il confine nazionale, regionale o continentale. Una sfiducia preoccupante soprattutto nei giovani, privi di luoghi dove apprendere la storia, formare le proprie coscienze, di strumenti con i quali comprendere la realtà ed interpretarla a loro modo, edificare la propria esperienza, gestire il proprio presente e costruire il proprio domani.

È preoccupante soprattutto che l’unica suggestione di cui dispongano sia proprio quell’edonismo televisivo, patinato, telematico, telefonico, allucinogeno, eiaculatorio, inebriante ma ammantato spesso di mirabili costrutti sovrastrutturali degni della più puritana delle morali. Una sfiducia verso la quale l’appello alla fede o all’ideologia appare totalmente impotente.

Inquietante è che da più parti si tenti di ammantare questa opulenza, questo permissivismo, questo delirio di potenza, questa ilarità, questa sbornia, quest’apparenza, questa moda, questa consuetudine, questo scodellamento da fast food, alitando il fantasma della felicità, senza alcun riferimento alle parole chiave che dietro quel concetto vanno chiamate in causa: il bene, il male, il piacere e il dolore, la fatica e lo sforzo, la conquista e la sconfitta, il limite e il desiderio, il sentimento e la ragione, la logica e gli istinti, il biologico e lo psicologico.

Inquietante è che non ci sia un’educazione al piacere, al differimento del piacere, al prolungamento dell’amplesso, all’equilibrio tra egoismo ed altruismo, al lasciare il posto sull’autobus a un anziano, ad aiutare una mamma con il passeggino, a far attraversare un cieco, a portare a casa un ubriaco, a smorzare un rancore, ad assopire l’invidia, a placare la gelosia, a trovar la quiete, a battersi per la pace ed esser disposti per essa a non battersi, a porgere l’altra guancia e considerarsi fortunati quando lo si è e potenzialmente sfortunati perché può capitare a tutti di esserlo e non si è mai esenti da questa possibilità, a rialzarsi una volta caduti, a urtare contro gli spigoli e sbucciarsi le ginocchia, a veder colare il sangue tra le cosce, a non aver paura di essere soli, a godere di non esserlo e di non lasciare che altri lo siano, a non temere di essere diversi e nemmeno uguali, ad accettare di essere se stessi e che chiunque lo sia.

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One Response to “I giovani e la politica”

  1. Amine scrive:

    Ho solo una cosa da dire, forse per molto tempo in occidente non esiterà la vita politica di una volta. La mia generazione è stata plasmata in modo tale da non capire neanche cosa sia la politica. Il pezzo finale è un bellissimo monito che da coraggio e speranza.

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