Gesù, gli idioti e altre storie
Per gli antichi greci un individuo che non rivestisse cariche politiche, per accedere alle quali si dava per scontato fosse indispensabile avere conoscenze specifiche ed esperienza, era un idiótes. Questa parola significava “uomo privato” e con essa si differenziava un generico cittadino da uno che invece, appunto, ricoprisse o avesse ricoperto un ruolo pubblico, e perciò fosse colto, capace, esperto e preparato.
Non era un’offesa e nemmeno mirava a denigrare o sminuire, registrava però il ruolo diverso svolto, sottintendendo che egli fosse un “uomo inesperto e non competente”.
L’idiótes greco transitò nella lingua romana come idiota perdendo via via la sua valenza relativa all’ambito politico e di posizione sociale, e mantenendo quella di incompetente, inesperto, incolto. Nell’italiano fa la sua comparsa nel XIV secolo indicando fin da subito – come spiega Stella Domino per la Treccani – «chi è stupido, privo di senno, incapace di ben ragionare».
Tale accezione è influenzata anche della poesia francese del Trecento, dove la parole viene usata per indicare un incolto, ignorante. Questo significato è stato conservato fino ai giorni nostri.
«Come per altri vocaboli di significato simile (stupido, scemo, imbecille ecc.) – spiega ancora Stella Domino – è possibile fare di idiota un uso, come dire, aggressivo, adoperandolo come epiteto spregiativo o colloquialmente scherzoso».
Sempre dal francese, e solo nell’Ottocento, la parola idiota si è arricchita di una valenza di tipo medico, indicando «chi è malato di idiozia» o è affetto da idiotismo, ipotizzandosi all’epoca che questa fosse una «grave malattia dello sviluppo mentale», ma la successiva catalogazione delle patologie psichiche ha espunto tale termine da quelli a disposizione nel vocabolario medico, per cui delle parole idiota e idiozia ci si avvale solo nella lingua comune, preferibilmente nel campo delle offese, degli insulti o delle giocose diminuzioni.
Nel sito dell’Enciclopedia italiana si cita l’espressione “utili idioti”, la quale sarebbe stata coniata da Stalin all’indomani della seconda guerra mondiale per indicare coloro che, per ingenuità, fanno l’interesse dell’avversario. La locuzione fu immediatamente fatta propria dagli anticomunisti per indicare un candido che fa il gioco dei partiti di sinistra, e, per questa via, pur mantenendo il significato originario di “idiota politico”, per estensione ne ha assunto uno più generico: chiunque agisca a vantaggio di altri senza guadagnarci e senza riconoscimento del proprio merito.
Non credo si possa escludere che nel coniare quella locuzione il sanguinario tiranno georgiano abbia avuto in mente il principe Myškin, protagonista de L’idiota di Fëdor Michajlovič Dostoèvskij, pubblicato nel 1869 – dopo essere uscita a puntate sulla rivista Russkij vestnik (il Messaggero russo) a partire dal 1868 –, e scritto tra il settembre del 1867 a Ginevra e il gennaio del 1869 a Firenze, dove il genio della letteratura visse al 18 di Piazza Pitti e una lapide ancor oggi lo ricorda.
Erano proprio gli anni in cui la psicopatologia positivista – quella anche di Cesare Lombroso per capirsi – considerava l’idiozia una malattia da rinchiudere in manicomio, per non turbare l’occhio del borghese e disturbare il benpensante, e Dostoèvskij, in gioventù salito sul patibolo e poi mandato ai lavori forzati in Siberia dallo zar per sovversivismo e cospirazione, era all’estero in una sorta di esilio causato dai debiti di gioco.
Il principe Myškin è un candido, uno che si è cacciato in testa sia giusto e meriti essere buoni, ed una volta persuasi di questo valga la pena esserlo fino in fondo, incondizionatamente, in maniera integrale. Si potrebbe dire un Gesù del XIX secolo – come quello scandagliato in L’assassinio di Cristo: la peste emozionale dell’umanità (SugarCo, Milano 1972) da Wilhelm Reich nel 1951, dodici anni dopo essere emigrato negli Stati Uniti d’America per fuggire alle persecuzioni antisemite di Hitler e prima di essere rinchiuso in un manicomio criminale per oltraggio alla corte, essendosi difeso da solo nel processo per i suoi articoli sull’energia orgonica, dove morì nel 1957. Un Cristo del XIX secolo e perciò, come quello di duemila anni fa, un disadattato, socialmente marginale, mentecatto – che, come scriverà tempo dopo Thomas Mann è “il fratello dell’artista” –, o almeno affetto da malattia psichica all’epoca detta idiozia, in altre pazzia e così via.
Proprio nel 1867 nel Kunstmuseum di Basilea, dov’è conservato ancor oggi, Dostoèvskij vede Il corpo di Cristo morto nella tomba (1521), un quadro di Hans Holbein il Giovane, autore anche di quel celebre Gli ambasciatori (1533) esposto alla National Gallery di Londra, uno dei più famosi esempi di anamorfismo, vale a dire di illusione ottica con cui un’immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, così da essere riconoscibile solo guardandola da una posizione precisa. Tecnica nata nel Rinascimento, descritta da Leonardo da Vinci in alcuni appunti, poi usata nel cinema, nel teatro e nella pubblicità per trasmettere messaggi subliminali, nel dipinto di Holbein evidenzia un teschio (in inglese hollow bone, la cui pronuncia è simile a Holbein), percepibile osservando il quadro da destra, mentre di fronte compare solo una macchia bianca, una sorta di indistinguibile scia sul pavimento.
Ritrae due diplomatici nel vigore della loro giovinezza (uno ha 29 anni e lo testimonia un’incisione sulla fodera del pugnale), nella sontuosità del loro rango sociale, evidenziata dall’abbigliamento quasi regale, sicuri di sé al limite della baldanza, circondati da oggetti attribuibili agli interessi intellettuali per le arti liberali della loro classe agiata: un globo celeste, quadranti, bussole, astrolabi, meridiane e altri strumenti per la misura del tempo e delle distanze terrestri e celesti, un libro di aritmetica su cui si legge chiara la parola “dividirt” – allusione alla divisione matematica, ma anche a quella civile legata ai conflitti, e pure simbolo di buon governo (come la “divisione” di Salomone), inteso come auspicio per il difficile periodo –, un compasso da architetto – la massoneria non c’entra, essendo nata nel 1723 –, una squadra, un libro di inni musicali cantati da luterani e da cattolici – forse un appello all’unità –, un liuto con una corda rotta – riferimento alla fugacità e alla disarmonia –, un astuccio con dei flauti. L’occulta visione del teschio invita a considerare la fugacità delle
cose terrene, a ricordare che polvere si era e in polvere si tornerà, insomma un memento mori, frase che un servo dei più umili era incaricato di pronunciare nell’antica Roma al generale tornato in trionfo dopo la vittoria in guerra per non essere sopraffatto dalla superbia e dalle smanie di grandezza, ripresa poi nel 1664 dai trappisti di stretta clausura come motto del loro ordine.
Ma, per tornare al Corpo di Cristo morto nella tomba di Holbein, uno dei protagonisti de L’idiota di Dostoèvskij dice: «Più di uno guardando questo quadro può perdere la fede». Il quadro ha un formato incredibile: 2 metri di lunghezza e solo 30 centimetri di altezza, opprimente come il loculo dov’è deposto Gesù, il cui corpo sembra incastrato, tanto da non poter risorgere, come invece sostiene il dogma.
Le membra, raffigurate con straordinario realismo e crudezza, non solo mostrano i segni del martirio, ma il cadavere è all’inizio della decomposizione – il colorito di mani e piedi è grigio-violaceo, l’arto di destra è rattrappito e quasi scheletrico, il volto scavato, la bocca semiaperta, gli occhi infossati, il naso affilato e scurito – come se il terzo giorno dalla morte sulla croce fosse da tempo passato e la resurrezione svanita. Il corpo del redentore è in disfacimento, impossibilitato a salire in cielo, come nessuna rappresentazione artistica lo aveva mai raffigurato, e vanifica la possibilità di credere nella vita ultraterrena e in un riscatto nell’aldilà.
Idiota lui a farsi martoriare così? Idioti i suoi seguaci, per i quali il Gloria – la preghiera del III secolo contenuta nella liturgia cattolica e detta anche dossologia maggiore o inno angelico, che attinge al versetto 14 del secondo capitolo del Vangelo di Luca («che egli ama») – auspica «pace in terra», lasciando a dio la «gloria nell’alto dei cieli», ma chiedendo loro di essere «di buona volontà»? Idiota il Myškin “uomo positivamente buono”, aggettivo che in russo è prekrasnyi, con il quale si indica lo “splendore della bellezza”?
Forse è il caso di tornare al significato che gli antichi greci davano originariamente alla parola: un individuo che non rivestisse cariche politiche, non avendo le conoscenze e l’esperienza indispensabili per svolgere quel ruolo, semplicemente un privato cittadino.
Noi abbiamo la scuola dell’obbligo, qualche borsa di studio per i meritevoli o i raccomandati, e il diritto-dovere, giunti alla maggiore età, di partecipare alla vita politica quanto meno esercitando il voto, benché non ci sia impedito, per ora almeno, associarci in partiti, gruppi, formazioni, anche solo luoghi di discussione e decisione, studiando per sostenere quelle conversazioni, fare quelle scelte, giudicare la realtà, eventualmente accettare di essere chiamati a rivestire cariche politiche. Abbiamo purtroppo inoltre sperimentato che si possono rivestire quelle importanti cariche, e anche solo insegnare, scrivere sui giornali, curare malati, affettare salami, innalzare case o cuocere pizze senza aver alcuna cognizione in merito, ovvero sia essendo idioti, addirittura “trote”.
Quell’idiota di Gesù – narrano con sfumature diverse tra loro i Vangeli di Matteo (22, 21), Marco (12, 17) e Luca (20, 25) – avrebbe evitato la figura dell’“idiota inutile”, non cadendo nel tranello che gli sarebbe stato teso da “uomini subdoli” – farisei ed erodiani secondo alcuni, informatori degli scribi ed emissari dei sacerdoti, secondo altri – i quali gli avrebbero domandato se fosse lecito pagare il tributo a Cesare, da parte di un buon ebreo, ovvero sia le tasse imposte dagli occupanti Romani agli abitanti della Giudea, contro le quali erano scoppiate rivolte che portarono alla nascita del movimento degli Zeloti.
La vicenda è confusa, qualcuno riporta che gli ebrei fossero evasori fiscali, assai attenti alla pecunia, altri che Gesù contestasse, come molti giudei, palestinesi e popoli di altre colonie dell’impero, l’esosità dell’erario e l’arroganza degli esattori. Il quesito si dice gli fosse stato posto auspicando che egli manifestasse la sua opposizione alla gabella, e perciò si potesse far i delatori e consegnarlo, levandoselo dai piedi in quanto garantito guastafeste, al governatore, il noto Ponzio Pilato. La convinzione che egli si sarebbe espresso da irrequieto capopopolo e arringafolle poggiava su quelli che poi sono divenuti capi d’accusa verso l’imputato in un processo kafkiano: proclamarsi re dei Giudei, essere obiettore e contrario al 730, tanto da convincere a licenziarsi Zaccheo, uno dei suoi apostoli impiegato all’Agenzia delle entrate di Pilato, parlar ripetutamente male degli esattori, accomunandoli alle prostitute, delle quali, in verità, aveva un ossequioso rispetto e una certa simpatia.
Per blandirlo gli interlocutori si rivolsero a Gesù lodandone l’integrità, l’imparzialità e l’amore per la verità. Ma anziché sobillarli si dice che egli chiese loro di produrre una moneta buona per il pagamento, spiegandogli chi vi fosse raffigurato. Alla risposta che si trattava di Cesare, dopo averli definiti ipocriti, disse: «Rendete dunque ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio». Nel Vangelo di Tommaso la frase è completata così: «e date a me ciò che è mio». Confusi e contrariati dall’ambigua risposta i suoi interlocutori si allontanarono con le pive nel sacco.
Dunque si deve obbedire alle leggi degli uomini, senza trascurare i doveri verso Dio. Di più: ognuno ha il suo ambito e quello terreno è di Cesare, quello celeste di Dio. Un monito, insomma, a favore della laicità. La frase ha poi assunto, nel linguaggio comune, il significato di invito alla giustizia, un richiamo ad attribuire i meriti a chi li ha e non a coloro che se ne appropriano: «e date a me ciò che è mio».
Sbaglierebbe chi pensasse che un uomo privato sia un uomo qualunque e perciò autorizzato ad essere qualunquista, disinteressato alle sorti proprie e a quelle dei suoi simili, capace di prendere quanto non gli spetta e di non restituire quel che deve. Sarebbe un vero idiota.
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