Perdonarsi e perdonare

Sigmund Freud

Massimo Recalcati è uno psicanalista con laurea in filosofia alla Statale di Milano, supervisore di neuropsichiatria infantile al Sant’Orsola di Bologna, docente di psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia, dopo aver insegnato teorie e tecniche del colloquio a Padova e a Urbino, psicologia dell’arte e della letteratura a Bergamo e non so quale altra disciplina all’università di Losanna, direttore editoriale di collane alla Franco Angeli e alla Bruno Mondadori, collaboratore di riviste come aut-aut, La psicoanalisi, LETTERa, Revue de la Cause freudienne, Psychanalyse, Clinique lacanienne, del Manifesto fino al 2011, e ora di Repubblica, quotidiano su cui sabato scorso, il 10 agosto, ha scritto un articolo intitolato Quant’è difficile l’arte di perdonare (e perdonarsi) che ha conquistato non solo la prima pagina, ma addirittura la spalla della prima pagina, e io trovo che Ezio Mauro faccia molto bene a dare tanta evidenza a Le idee, perché di queste abbiamo un gran bisogno in questo sfibrato scenario entro il quale stancamente ci muoviamo.

Naturalmente, da misero cronista ormai solo più per passione, non ho alcuna competenza in merito alle discipline trattate da Recalcati, né perciò sono in grado di confermare o contestare veridicità, validità, appropriatezza delle citazioni, delle fonti e delle opinioni espresse, e la modesta dimestichezza con le questioni dell’anima – da cui qualcuno potrebbe addirittura ipotizzare, e non a torto, una mia assenza d’anima, resa però colpevole dall’essere modesta dimestichezza, non ignoranza completa –, consiglierebbe un’astinenza o un precauzionale silenzio.

Il tema del perdono, però, mi è in qualche maniera caro, ne ho scritto in qua e in là, occupandomi di Else o di Hobbes, di Giobbe e di chi non merita perdono per essersi insignito di esso, incapace di perdono e molto altro ancora; ma anche occupandomi delle mie famiglie, quella orizzontale e quella verticale. E dunque violo la scrupolosa e cauta consegna, aggirandomi in questa palude.

Dice Recalcati che Freud dovrebbe averci messo in guardia da eccessivi infiocchettamenti sulla genuinità e lo splendore dei nostri sentimenti o di quanto così chiamiamo. Noi potremmo avvalerci del suo cinismo e della sua disillusione non per sfatare l’eventuale trasporto verso l’altro, l’oscuro oggetto del desiderio, ma per restituire, tanto al trasporto quanto all’altro e in definitiva anche a se stessi, il corpo che realmente ha e merita, per adorarlo e perdercisi, per abbandonarsi estatici ed esaltare al parossismo ogni fremito, sdilinquimento, tensione a.

Ipotizzava il padre della psicanalisi, non ancora forse accompagnato da una madre per la sua piccola creatura, che «amare – scrive Recalcati – e innanzitutto amarsi», una sorta di giochino in solitaria di poco dissimile dall’autoerotismo, nel quale ci si serve di chi ci sta di fronte, o sopra o sotto o a fianco, per chiederci chi è la più bella del reame dinanzi allo specchio delle mie brame, e cospargerci di rimmel, ciprie, fondotinta che occultino i nostri brufoli e qualche purulenta pustola, enfatizzando, invece, il piglio del sopracciglio, l’iridescenza dell’iride, il turgore delle labbra, l’orbita delle orbite, dando il via a un trucco sotto il quale sta ben altro inganno, ma indossando una maschera che ci fa persona perché è per suo tramite che suoniamo, per-sona, e diventiamo l’unico e irriproducibile che altri non è e, perciò, di tutto ciò che vien detto, fatto o anche solo pensato, è – in solido, personalmente, individualmente, senza alibi, scusanti, compartecipazioni – responsabile.

Molti prima di me hanno notato, con un disincanto che nulla ha da invidiare a quello di Freud, che quando si crede di amare un altro, come spesso si va dicendo con giullare o melodrammatica enfasi, non si ama ancora abbastanza se stessi, si è lungi dal farlo appieno, incondizionatamente, senza remore, riserve e ipocrisie. Altro che narcisismo, infatuazione dell’immagine propria riflessa nello specchio fornito dal partner!

Friedrich Nietzsche

Negli stessi anni in cui Freud dissacrava luoghi comuni, pregiudizi e altri imbellettamenti – figli più del concilio Lateranense IV del 1215, di quello di Trento aperto nel 1545 e chiuso nel 1563 o di quanto hanno buttato giù gli illuministi alla vigilia della Rivoluzione francese che non della natura umana, dell’imprinting dato dal Dna o altri meccanismi simili, e perciò usanze da comprare a scatola chiusa senza nemmen badare alla data di scadenza e all’eventuale aggiunta di coloranti, eccipienti e conservanti –, in quegli stessi anni, dicevo, Friedrich Nietzsche invitava a un’inversione di marcia, a rivolgere all’esterno gli istinti tanto a lungo costipati, sopiti, repressi o indirizzati a render tumorali cellule altrimenti viventi e pochi hanno compreso che il suo super-uomo è un uomo che va oltre, non uno che domina, o tutt’al più domina perché andato oltre, al di là del bene e del male, non contro l’uno o l’altro, superando anch’essi, superando se stesso, gli stereotipi, le banalità da cui siamo ancora ammorbati. Eran gli stessi anni in cui il mio amato Schnitzler non ce la mandava a dire, ce la diceva, e chi voleva capire poteva farlo, se non l’ha fatto peggio per lui.

Recalcati ci dice che «Freud diffidava dell’amore cristiano per il prossimo» proprio perché aveva compreso che «nell’amore umano non vi sarebbe alcun altruismo, ma solo l’esigenza di affermare narcisisticamente il nostro Io attraverso l’altro».

L’aggiunta dell’aggettivo “umano” al sostantivo “amore” è illuminante, implicitamente ipotizza ne esistano di altri tipi, magari animali, vegetali, semplicemente atomici o con maggior complessità energetici, ed io ho il sospetto sia una superficiale banalizzazione l’affermare che diffidasse dell’amore cristiano per il prossimo. Più facilmente, mi vien da supporre, pur non essendomi addentrato nei testi di riferimento, che potesse diffidare della melassa dolciastra, nauseabonda, conformista, bugiarda e farisea di sacra romana chiesa, dei bigotti e degli ugonotti, dei sanfedisti, dei perbenisti e dei falsi edonisti.

Però forse la pensava davvero così l’autore de L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana, Tre saggi sulla teoria sessuale, L’avvenire di un’illusione, Il disagio della civiltà e Al di là del principio del piacere, e si sarebbe dovuta attendere l’elaborazione più tardiva del suo allievo Wilhelm Reich con la pubblicazione di L’assassinio di Cristo: la peste emozionale dell’umanità per comprendere che l’odore dello sperma non cozza così tanto con il coraggio di battersi per qualcosa finanche sfidando la croce, il che magari garantisce un posto nell’albo d’oro delle personalità o un seggio nel parlamento dell’Olimpo, quanto meno una lapiduccia all’angolo di un crocicchio.

Recalcati ci spiega poi che secondo il maestro chi è stato tradito e prova gelosia, in specie se masculo è, sta semplicemente attribuendo alla fedifraga il proprio febbricitante ardore di infilarsi in un altro letto a “far cattleya”, assunto sul quale si basa la lucidissima analisi esposta da Aldo Carotenuto in Amare tradire, di cui ho riferito qui , secondo il quale chi va a cercar altro fuori dall’alcova, è semplicemente colui che ha la capacità di comprendere e il coraggio di ammettere, in malo modo affermandolo, che nel talamo manca qualcosa ed è in due che si è operata tal diminuzione.

Quest’acquisizione teorica impoverirebbe, anzi, addirittura priverebbe di senso, la spiegazione secondo la quale si prova gelosia per paura di perdere l’oggetto amato, e pertanto essa è un sentimento di propria debolezza, non di perfidia altrui, per placar il quale il rimedio non è una gabbietta dove chiudervi dentro l’uccellino o la passerotta, ma un po’ di calcina con cui render più solido il proprio basamento, e per questa via offrire anche all’amata o all’amato un po’ d’ancoraggio e qualche puntello.

Il mio giudizio da neofita è che non sempre una ragione debba escluderne un’altra, ed anzi il più delle volte si possa convivere con due o anche più disorientanti chiavi d’interpretazione, che la confusione è di questo mondo almeno quanto il ramadan è una festa musulmana e Shizuoka una città del Giappone.

«Ci sono però amori – scrive ancora Recalcati – che fanno vacillare la saggezza del cinismo freudiano. Sono amori dove in primo piano non troviamo l’altro ridotto a specchio narcisistico dell’Io, ma l’incontro con una esteriorità, con l’eteros che viene amato per quello che è –nel suo reale differente – e non per la sua funzione di supporto del mio io ideale. Sono quegli amori che rispettano la distanza, che si nutrono dell’incontro con la differenza, che sanno vivere l’esposizione rischiosa nei confronti dell’altro con generosità e coraggio. Sono amori rari – Camus, ci lascia poche possibilità quando dice che di amori così ne esistevano due o tre in un secolo e uno era il suo… –, ma esistono e, spesso, come dimostra l’esperienza dell’analisi, non sono i primi amori di una vita, ma amori che si raggiungono solo attraverso altre esperienze meno felici e talvolta traumatiche».

Anche questi amori, spiega Recalcati, sono esposti a tradimenti, rotture, fini. Anzi, in parte sarebbero meno tutelati, perché fondati «sulla solitudine reciproca degli amanti, sulla scelta di stare insieme più che sul bisogno coatto di esorcizzare la paura della solitudine». Non c’è il cemento armato del legame simbiotico da cui entrambi gli organismi traggono nutrimento, o alimentano la reciproca dipendenza.

Ma sarebbero gli amori capaci di segnare una vita, durare nel tempo, generare condivisioni resistenti all’«estasi fuggevole dell’innamoramento narcisistico», mantenere intenso e costante il legame erotico. Dare dignità, aggiunge Recalcati, «alla promessa che unisce tutti gli amanti: “Sarà per sempre!”».

A me verrebbe da dire la dignità di crederlo, sperarlo, se possibile mantenerlo, in qualche caso esserne persuasi anche dinanzi all’evidenza dello smacco.

Qui Recalcati pone un lungo elenco di interrogativi volti a comprendere le dinamiche nel delicato momento in cui le cose vanno in frantumi e vien meno la parola data e il mondo sembra stia per andare a brandelli, gli stessi parametri con cui solitamente si è valutato ogni singola cosa fanno acqua da tutte le parti e non stanno più in piedi.

Pone un lungo elenco di interrogativi, alcuni di natura veniale e altri anche di natura capitale – come per esempio la domanda se si debba sputare sull’amore –, e introduce la questione del perdono, il quale sarebbe reso impossibile dall’orgoglio narcisistico, e perciò esperirlo sinceramente, sentire che merita concederlo, può aiutarci a «fare un passo al di fuori dalle sabbie mobili del narcisismo».

Avvalendosi ancora dei punti interrogativi Recalcati scrive: «Non è forse nel perdono che incontriamo, intatta e spigolosa, tutta la differenza – l’eteros – dell’altro? Non è forse “perdonare l’imperdonabile” – come si esprimeva Derrida – il gesto più radicale dell’amore?»

Tralascio le considerazioni che fa circa la maggior o minore capacità di perdonare nei sue sessi, terreno sul quale mi pare siano in agguato troppi pregiudizi di genere, dall’una e dall’altra parte, né penso individuarne le percentuali aiuti a oltrepassare l’ostacolo e andar oltre.

Mi preme invece riportare la constatazione, desunta dalle esperienze analitiche, riguardo la maggior frequenza e intensità di dolore in chi tradisce più che in chi è tradito. Sarebbe il fedifrago a patire maggiormente, non accettando di perdonarsi nemmen qualora venga perdonato dall’altro e sentendo il peso della propria responsabilità, solitamente detta colpa, per esser venuto meno alla parola data e aver incrinato una fiducia che non sarà più recuperabile.

La menzogna adottata, o anche solo il silenzio calato a mo’ di cortina sulle proprie pulsioni, bollori, inquietudini, la vergogna per la mancanza, o meglio, per il non sufficiente coraggio manifestato, sono un tradimento prima di tutto di se stessi, che costringe a riconoscere il proprio limite, l’inadeguatezza, il non essere stati abbastanza all’altezza di tutto lo spettro dei propri desideri, quelli più immediati, istintivi, pulsionali, e quelli autentici, profondi, legittimamente contraddittori.

Bisogna insomma perdonarsi prima di poter essere perdonati. Ma mettere il naso nel piatto di queste questioni può aiutarci ad essere meglio di quel che siamo e ad offrire agli altri qualcosa di meglio di quel che gli si è offerto finora: un generosissimo egoista.

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2 Responses to “Perdonarsi e perdonare”

  1. maria scrive:

    Sicuramente non è facile perdonarsi; forse, in quache occasione, può apparire agevole il perdono nei confronti degli altri. Il proprio è sempre molto ostico. Personalmente non ho facilità nemmeno nel perdonare gli altri, tendo, come dire, a “legarmela al dito”…ma consapevole della fatica che costa l’accettare i propri errori, e del dolore che si prova nell’apprender gli errori degli altri, del senso di smarrimento, della delusione, ho sempre chiesto a chi ho amato (e amo), di non cercare rifugio nella “trasparenza”, di non cercare assoluzioni nella “confessone” di un peccato: chi pecca, si gestisca il suo peccato in autonpmia. Chi sbaglia, ove possibile, cerchi di non farne troppa pubblicità. Faccia in modo, nel caso io mi trovi ad essere “la parte lesa” di tale peccato, che io non ne sappia mai niente. E’ un po’ severa, ne sono consapevole, la mia richiesta, ma siamo tutti adulti, usiamo consapevolezza e senso di responsabilità! Diverso, ovviamente, è l’atteggiamento che tengo nei confronti dei figli, verso i quali non posso che sentire di avere responsabilità, e non mi posso permettere di tutelarmi grazie ad una beata, sana, riposante, inconsapevolezza.

  2. Daniele Pugliese scrive:

    Grazie Maria delle tue considerazioni.

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