Elogio dell’antipatia
Rendendomi immediatamente antipatico preciserò al lettore, lo sappia o meno, che la parola “antipatico”, anzi “antipatia”, da cui come aggettivo è tratto, viene dal greco e mette insieme la particella anti (contro) e il sostantivo pàthos (affezione, passione), indicando così, spiega il vocabolario etimologico, un’avversione, una ripugnanza naturale e non ragionata che si ha per qualcuno o per qualcosa. È insomma l’antipatia un sentimento avverso, che ha come sinonimi – lo precisa il vocabolario che li raccoglie insieme alle parole di significato opposto, e perciò si chiama dei sinonimi e dei contrari – avversione, odio, repulsione, insofferenza, intolleranza, incompatibilità, malevolenza, ripugnanza, orrore, ribrezzo, e come contrari, appunto, simpatia, attrazione, amicizia.
Come si vede il primo termine al quale si contrappone è “simpatia”, parola che ha la medesima radice, quel pàthos, e si avvale però della particella syn (con, insieme) per indicare un’inclinazione istintiva che attrae una persona verso un’altra ed è perciò, dice ancora il vocabolario etimologico, facoltà di partecipare ai sentimenti dei nostri simili, ai loro piaceri e dispiaceri.
Quest’ultima facoltà, quand’è capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore, prende il nome di “empatia”, dove la particella en (dentro) affiancata al nostro pàthos ci dice di un sentire dentro che può essere talmente potente da indurre non solo a mettersi nei panni dell’altro, ad andargli incontro, ma a portarselo con sé intimamente, nel proprio intimo e nel proprio profondo, nel proprio cosmo.
La prima considerazione da fare è che il sentimentalismo e la passionalità dell’antipatia – il suo esser fatto di pàthos – stanno a dimostrare quanto il sentimentalismo e la passionalità non siano affatto – come si viene indotti a credere da una martellante propaganda attiva fin dalle prime fasi dell’esistenza umana – edulcorate, angeliche, paradisiache condizioni dell’animo umano, testimonianze della sua bontà e insomma corettini da Heidy.
Ne consegue che essere logici e razionali – anziché mammoleschi, vibranti, romantici –, condizioni che inducono a un certo cinismo e a una considerevole dose di implacabilità, giudicate dalla medesima superficiale propaganda sintomi di glacialità e indifferenza, possa invece talvolta essere caloroso, affettuoso e amorevole, come ben spiega il detto «Il medico pietoso fa la piaga verminosa» (dolorosa, in altre versioni).
La supposta e beatificata genuinità, generosità, positività, beneficienza di certi amori, se non addirittura di una cospicua parte di tutti gli amori, potrebbe, alla luce di queste prime considerazioni, essere riconsiderata e tenuta in più debita distanza, non rinunciandovi, ma solo avendone meno timorosa sudditanza.
Ma è dell’antipatia che volevo qui occuparmi, anziché rendermi, se possibile, con queste stesse considerazioni, ancor più antipatico, capace cioè di suscitare, in quanti sono ancorati ai capisaldi della nostra consuetudine, un infastidito sentimento di avversione, distanza, repulsa.
E di essa, dell’antipatia, intendevo sottolineare la sua naturalità, istintività, la sua assenza di mediazioni ragionate o riflettute, la sua perciò ineluttabilità, inevitabilità, incombattibilità: è una avversione alla quale non è facile avversarsi, una contrapposizione a cui si fatica a contrapporsi, pertinente probabilmente più a chi la prova che a chi la suscita, perciò correggibile in interiore homine, dove, come insegnava Agostino «habitat veritas», risiede la verità, perciò «noli foras ire, in te ipsum redi»: non andare fuori, rientra in te (Agostino, De vera religione, XXXIX).
Prenderne atto, accoglierla, accettarla, lasciar che si manifesti e trovi il suo sfogo, che sia quel che è senza infingimenti e attenuanti, purtroppo, il più delle volte produce solo nuova antipatia, la moltiplica, la enfatizza.
Poi c’è un altro aspetto, che è quello della manifestazione della propria antipatia, ed è in qualche maniera connesso al precedente, perché l’accoglienza dell’altrui antipatia manifestata è, di fatto, una manifestazione, un modo cioè di comunicare e, per questa via, di rendersi viepiù antipatici.
Intendo dire che il cuore della questione sta nell’atteggiamento che ha chi prova antipatia nei confronti di un altro, non in chi, secondo l’altro, gli suscita quel sentimento. La naturalezza, inevitabilità e forza emotiva di tale percezione è tale che solitamente chi ne è inondato e la nutre non può fare a meno di esternarla, di rendere evidente che c’è ed è indirizzata a chi la si sta comunicando, e non escludo che in questo irrefrenabile bisogno, in questa incontinenza, vi sia nascosto un tentativo di proteggersi in qualche maniera, l’esecuzione rituale di un simbolico innalzamento di muraglie difensive, nel quale è riposto che si è vulnerabili, offendibili, e perciò pronti alla pugna, al combattimento. Altrimenti un beffardo sorriso sarebbe sufficiente, più che sufficiente.
Invece si sente quella necessità, si vuol dar a vedere che si appartiene a due mondi diversi, si è su fronti contrapposti, e c’è un sentimento, ma non è affatto benevolo, come solitamente si pensa siano i sentimenti, è invece ostico, ostile, battagliero. Quell’esibizione può essere accompagnata dal mettere in mostra un armamentario ancor più vasto, nel quale ci può essere disprezzo, sdegno, rimprovero, o anche tutto questo e altro ancora insieme.
Spesso questo balletto, questa sceneggiata va oltre l’affermazione di una distanza e di una contrapposizione insanabili e doverose da riconoscersi a dispetto delle buone maniere, delle convenzionalità, delle ipocrisie, degli utilitarismi. Ha bisogno di portare sul palco anche il desiderio di battibecco, la voglia di scherma, la costanza del punzecchiamento, come se non si riuscisse a distaccarsi da quel conflitto giungendo finalmente al disinteresse, all’assenza di coinvolgimento, all’“a-patia” – parola dove la radice pàthos torna evidente e l’alfa privativa ne evidenzia la mancanza, l’inesistenza, il vuoto – che sarebbe invece il peggiore dei supplizi a cui condannare un nemico, quello di renderlo nemmen più tale, totalmente inutile, anche solo come avversario.
Non ci si limita cioè a mostrare un volto torvo e denso di disprezzo nella malaugurata ipotesi di un fortuito e insperato incontro, ma si va in cerca dell’opportunità per far bizze, capricci, esser smuffosi, dar conto della propria permalosaggine.
La sensata dimostrazione del proprio disappunto e della propria estraneità dinanzi all’idiota che sapendo di averti arrecato danno, giulivo fa finta di esserti amico non ha niente a che vedere con la maleducazione di chi, probabilmente infastidito da caratteristiche che non gli appartengono e magari lo fanno sentire inappropriato e timoroso di un confronto, evita di guardarti negli occhi quando ti parla e ostenta di non vederti quando sei lì a un passo.
Ma tant’è, con la potenza delle sensazioni, il dilagare delle reazioni emotive, l’incapacità di sentir fino in fondo il proprio sentire, bisogna far i conti e attendersi che da un momento a un altro una semplice antipatia si trasformi in una guerra senza quartiere. Alla quale si deve esser pronti.
Tags: Dr. House, Sant'Agostino