I ricordi di Juanito
Avevo i pantaloni corti quando ho conosciuto Hector Mendez, che io chiamavo Juanito perché tutti, a quanto mi ricordo, lo chiamavano Juanito. Era una delle tante persone che si incontravano a casa dei Ciruzzi, quei cari amici, prima della mia famiglia e poi miei, che non ci sono più, l’Accademia senza poltrone di via Poggi: addio Marcello, addio Sergio, addio Enzo, addio Aristo, addio Isabella, addio Corrado.
Il punto di contatto fra Juanito e i Ciruzzi credo fosse Carlo Coccioli, un cosmopolita scrittore italiano a cui oggi forse non è riservata sufficiente memoria, per onorar la quale è comunque stato aperto un apposito sito internet.
Io Coccioli credo di averlo conosciuto poi, quando avevo già sedici o diciassette anni, non più i pantaloni corti, e la mia prima motocicletta con cui potevo andare a trovare i Ciruzzi nella loro modesta e spettacolare casa estiva a Piteccio, sull’Appennino pistoiese.
Ci litigai credo rabbiosamente perché avevo un’antologia di cui avrei discusso con Isabella che si intitolava Cultura di destra o qualcosa del genere, nella quale, se non ricordo male, era stato inserito – allora a ragione, oggi a torto – anche lui e se ne adombrò e ci prendemmo più sulla politica e che cosa siano la destra e la sinistra che non sulla sua appartenenza a questa o a quella cultura. Per parte mia mi faccio vanto che, malgrado la scelta fatta, curiosavo anche in quello che potevano aver scritto “gli altri”, che “altri” lo fossero davvero o meno. Fu quella stessa volta, credo, che Sergio Ciruzzi, attingendo a un libercolo dell’Ottocento, mi insegnò, mentre io carezzavo un bastardino, come «pittasi con i cappari di verde un cane» e forse mi raccontò del cuoco polacco dal collo taurino e regolarmente sbronzo a cui si doveva dar credito affilando spesso i suoi coltelli in stato d’ebrezza.
È stato Juanito a ripescarmi, perché qualche mio scritto su Aristo Ciruzzi comparso in questo blog è, purtroppo, una delle poche cose che vengono fuori digitando il suo nome su Google, se non un articolo di Repubblica del 22 agosto 2006 quando morì.
Ci siamo raccontati un po’ di cose – sperando di vederci un giorno qui o lì nel suo Messico, perché di tempo ne è passato da quando mio padre mi portava a vedere la bottega di artigianato sudamericano che Juanito aveva in piazza di Santa Maria Soprarno, proprio all’angolo tra via de’ Bardi e costa de’ Magnoli, nello stesso palazzo dove mio fratello Davide avrebbe poi aperto il suo primo studio fotografico. È lì, credo, che m’innamorai di una coperta di alpaca che poi, molti anni dopo, sono riuscito a farmi comprare, e di quelle primitive immagini di lama che ho ricamato per una bimba vegliando il suo dolore.
Fra le cose che ci siamo raccontati tristi ricordi di Juanito trasformati in orgoglio e amore, uno dei quali messo per iscritto ed affidatomi. Lo pubblico con il suo consenso, e penso davvero meriti leggerlo.
Ricordi di Natale
di Hector Mendez
Ancora ricordo di quel Natale quando sono stato rinchiuso in manicomio. Mancavano pochi giorni all’arrivo della festa. Mi sentivo pieno di rancori e odio verso tutto e tutti. Pensavo al male che mi avevano fatto gli altri.
Durante i 7 mesi in cui sono stato, per la seconda volta, a San Salvi, l’unica cosa di cui avevo voglia era potermi vendicare. Nella mia mente c’erano solo desideri di vendetta e un gran senso di rabbia contro il mondo. C’era in me un marcato disprezzo per il Natale e per quella data che stava per arrivare. Provavo odio verso quella festa. E mi dicevo mentalmente che per me non ci sarebbe stato un buon Natale.
Quasi sempre quelli erano stati giorni pieni di malinconia e solitudine. Ma questa volta rinchiuso era peggio. Mi veniva in mente il suono micidiale dell’ambulanza con cui quelli della Misericordia di Firenze mi avevano portato lì, per lasciarmi solo in quel patetico posto.
Perché? Chi aveva detto loro che io ero un pazzo? La risposta la sapevo ma non ci pensavo. Ero rinchiuso nel manicomio per alcolismo depressivo. Comunque continuai a pensare: «Io non sono italiano, voglio parlare col Console del mio Paese! Nessuno ha il diritto di rinchiudermi!», urlavo. «Arriverà il giorno in cui potrò uscire di qui e dimostrare a tutti che non sono pazzo. Non sono pazzo! E tu Dio, mi fai male, mi punisci senza che io creda in Te. Perché mi punisci così. Prima mi hai tolto mia madre, non l’ho mai conosciuta, e adesso questa terribile solitudine che mi fa a pezzi, mi ammazza lentamente, Dio… perché mi fai questo? Guardami e vedrai perché non credo in te, col cuore pieno di rancore, la mia anima fatta a pezzi come divorata da feroci animali col loro muso viscoso».
Un giorno prima dell’arrivo di Natale, un infermiere mi chiamò, e mi disse: «Ecco l’albero di Natale e gli aggeggini per la decorazione! Tu sei l’incaricato di mettere a posto per te e gli altri la festa natalizia. Sali su quella scala e comincia subito il tuo lavoro!»
Non mi piaceva affatto essere con gli altri malati. Non sapevo in quale momento avrebbero avuto una crisi e gli infermieri, poi, gli avrebbero messo la camicia di forza, come avevano fatto con me all’inizio e già prima quando mi legarono mani e piedi nella sala di un altro ospedale, prima di mandarmi a San Salvi.
No, non mi piaceva guardare tutto quello che succedeva intorno a me. Non bastava chiudere gli occhi, c’erano le urla e il chiasso delle botte, dei colpi. Si scatenavano tutti e si mettevano a urlare e piango ancora, adesso, a ricordarlo.
Non era affatto gradevole. Era una punizione? Non lo so, soltanto mi ricordo di quello che ho sofferto per causa del mio alcolismo.
Allora per non essere tra di loro, salii sulla scala, e cominciai a mettere gli oggetti natalizi sull’albero. Mentre li sistemavo uno ad uno, mi accorsi che non vedevo bene: avevo gli occhi pieni di lacrime, c’era come una nuvola davanti a loro.
Cominciai a ricordare quando ero un ragazzino, la mia gioventù, pensai agli anni in cui non bevevo, quando tutto sembrava più tranquillo, quando pensavo diversamente. Quando ero più pulito, più pieno di vita e di gioia senza l’uso dell’alcol.
A volte mi sentivo solo per non aver conosciuto mia madre, né mio padre, però non bevevo, ero più bravo e pieno di coraggio per affrontare la mia vita, però col tempo tutto cambiò. Ora mi trovavo con gli occhi pieni di lacrime, cercai di nascondere la mia faccia, di non farmi vedere dagli infermieri, se no mi avrebbero preso e fatto un’iniezione per sedarmi, tranquillizzarmi.
Scesi dalla scala, cominciai a fingere, come se avessi un attacco di tosse, e così sono arrivato fino alla stanza dove dormivo. Lì ho preso il cuscino e l’ho portato tra le labbra per poter affogare il mio pianto. E mentre facevo questo, la mia mente sempre con le sue domande: «Dio perché mi succede questo? Signore, perché non posso smettere di bere?»
Con queste idee mi sfogavo, pensavo che era un incubo. Che niente fosse vero. Pensare a bere? No! Assolutamente, no. Bestemmiando e rinnegando la vita, tornai a finire di sistemare l’albero. Avevo la febbre, sudavo, non era la mancanza dell’alcol, era la mancanza di fiato, mi sentivo tanto triste e solo, quella bestia dai tanti musi feroci contro di me: la solitudine!
Ritornavo a pensare a quel Dio che non mi aiutava, non pensavo a bere, questo è vero, ma la mia anima non era in pace, dentro di me c’era una lotta contro l’altro, quello che mi faceva agire a modo suo, quello che mi faceva fare cose pazzesche, che solo da alcolizzato ero capace di fare. Chi era quell’altro? Mi ricordo solo che diceva: «Non chiedere niente a Dio! Meglio se chiedi a me!»
Finalmente riuscii a finire di sistemare l’albero: era tutto coperto con tanti colori e lo si vedeva, allegro, dentro a quella enorme sala per i pazzi. Un’ironia vedere le luci e la tristezza nei visi di tutti quanti. Per il freddo che faceva tutte le finestre erano chiuse, il fumo rinchiuso dava un colore sfumato dentro la stanza. Sembrava si potesse tagliare il fumo.
Un gruppo di gente camminava in cerchio, altri erano seduti, quelli là, ridevano da soli, io ero come un automa. Seduto, guardando ed evitando di far vedere la mia faccia, e mostrare la mia anima malata. Però cominciai a pulire i tavoli, eravamo 100 persone lì dentro.
Volevo essere occupato per non cadere in una depressione più forte. Finalmente era Natale. Era un giorno di visita, tutti sono stati visitati dai familiari, gli amici, quasi tutti hanno ricevuto un regalo, paste, dolci, caramelle, frutta tante altre cose. Ed io seduto in un angolo guardavo loro, si sarebbe potuto dire che tutti erano normali. Io invece lì, seduto senza un regalo, senza una visita, senza un amico, nessuno c’era per me, solo una enorme indifferenza della vita in quel giorno di Natale per me. In quei momenti mi sono pentito di non aver cercato il suicidio, tagliandomi le vene, in stato di ubriachezza.
Così mi toccò vivere quel Natale a San Salvi. Rinchiuso nel manicomio. Lo stesso che avevo in me, con me, nella mia mente, perché non sapevo vivere. Portavo con me la pazzia.
Quando mi hanno lasciato uscire, il Dottore, mi chiamò per dirmi: «Oggi vai via, però ti devo dire e mi raccomando, di non bere cose forti, solo una birra ai pasti, se vuoi, puoi bere un bicchierino di vino rosso, fa buon sangue».
Io ho risposto: «Sì, sì va bene, farò così, come dice Lei».
Avevo perso tutto: lavoro, casa, amici, la mia dignità, poi nel mio Paese, il México, ho ripreso a bere, tanto. «Faceva buon sangue il vino!», dicevano i medici, ma non c’era ancora AA in Italia.
Dicevo di non essere pazzo, e ripresi a bere di più. Non ero più in Italia, questa volta mi trovai davvero solo, della mia famiglia adottiva non c’era più nessuno, erano tutti morti.
Bevevo con disperazione, fino a un certo momento poi… cominciai a riflettere. A pensare a Dio. E per la prima volta senza credere tanto nei miracoli e solo con un desiderio di smettere di bere, andai al Gruppo “Valle de Mexico”.
Avevo sentito parlare di “Alcohólicos Anónimos”. Sapevo che ero un alcolista depressivo, però non sapevo che ero malato di alcolismo. Questo fatto Provvidenziale mi portò fino al Gruppo, così arrivai ad ascoltare la mia prima riunione. Lì mi sono reso conto delle mie pazzie, della mancanza di un sano giudizio. E grazie al Gruppo e ai miei amici AA cominciai a smettere di bere, cominciai il mio recupero.
Piano piano senza pensare a quanto tempo avrei potuto restare sobrio: non era una gara per una malattia incurabile. Sono arrivato nel Gruppo solo per la Grazia di Dio, non bevevo né avevo tante angosce. Cominciai a vedere e ad avere una vita nuova per me. Cominciai a leggere la nostra letteratura, a mettere in pratica i Principi, e a condividere con onestà e con sincerità.
Avevo creduto di essere molto intelligente, però non era così, leggendo il Secondo Passo, c’è scritto: «Quando facemmo conoscenza di AA, l’errore del nostro senso di disdegno ci fu rivelato. Ci accorgemmo che mai avevamo chiesto a Dio quale fosse stata la Sua Volontà nei nostri riguardi, bensì, Gli avevamo chiesto quale sarebbe dovuta essere. Credere significa aver fiducia, non sfida».
Da questa idea la mia vita cominciò a cambiare, piano piano, non sono più quello di prima. Accetto sempre la Volontà di Dio, non ho risentimenti né rancori verso niente, verso nessuno. Grazie ai Passi, vivo più serenamente.
Essendo in AA ho più amici, sono un “solitario”, però non sono più solo. Ho avuto con loro diversi Natali. Un giorno un mio amico italiano, Carlo, mi invitò a festeggiare a casa sua il Natale. Andai col mio cagnolino, sotto il braccio. Anche quel giorno andai alla riunione del Gruppo “Valle de Mexico”, lì sono stato molto contento e salutai tutti i miei amici AA.
Dopo sono ritornato alla casa del mio amico per passare assieme il Natale. Mentre mi preparavo una tazza di caffè, non so cosa sia successo tutto ad un tratto. Questo mio amico cominciò a rinfacciarmi, a ricordarsi la maniera in cui io bevevo. Cominciò ad urlare, la sua voce forte e le mani minaccianti. Mi buttò fuori di casa sua, io ero tutto perplesso, non capivo niente. Cercai il mio cagnolino. Lo presi in braccio evitando che fosse colpito dagli oggetti che lui mi tirava addosso. E così scappai di casa sua. Poi ho preso un autobus, per tornare nel mio piccolo appartamentino.
Nella strada avevo un nodo in gola, non ho pianto, mi sono ricordato della mia riunione poco tempo prima, finalmente arrivai a casa mia. Il mio cane mi guardava, e io mentre dicevo la Preghiera della Serenità, ho messo un tavolino di fronte a noi due, e cominciai a mangiare un po’ di pollo, due dolci e a bere succo di arancia. Prima di andare a letto pregai per il mio amico, pregai per me ringraziando Dio che non avevo pensato di bere, e che quel Natale fu un regalo di Lui.
Adesso ho imparato a lasciarmi guidare da Lui, quando sono veramente in pace con me stesso. Quando sono solo col mio Padre Celestiale e con gli amici miei, posso dire pieno di tranquillità a tutti anche se sono solitario, mai più solo, dico col mio cuore: «Buon Natale».
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Caro Daniele, maestro e scrittore fiorentino che ammiro, grazie dell essai che hai fatto. E documentato molto bene, hai fatto rimuovere da parte mie i sentimenti che ho portato smpre con me della tua Bellissima Firenze. Quanti ricordi quante ore di angoscia nel locale situato a pochi metri del Ponte Vecchio. Ma adesso la angoscia e trasformata in serenita, ti ringrazio Daniele per questo scritto testimonianza tuo, e sono onorato ti ringrazio, un saluto affettuoso, Héctor Mendez.