Quel pronome pleonastico

Ho da tempo in piedi un piacevole, ma non per questo idiota, gioco con Rita Martinelli, una di quelle persone conosciute via Facebook a cui pensi quando cerchi delle valide motivazioni per non ritirarti dal social network.

La rintuzzo ogni volta che, parlando o scrivendo, le vien da usare – ormai dovrei dire le scappa tante sono le volte che gliel’ho fatto rimangiare – il pronome noi, anche solo con l’uso di verbi declinati alla prima persona plurale, tipo diciamo, facciamo, abbiamo, ecc.

Io dico, tu dici, io faccio, tu fai, io ho, tu hai, le rispondo simulando di essere indispettito per i suoi petulanti tentativi di alludere a una comunità, a un collettivo, a un gruppo, a un insieme che, le ripeto, non ci sono e tutt’al più sono frutto solo della sua fantasia.

Lei è sarda, io piemontese – a detta della storia io invasore, lei sottomessa –, lei donna, io uomo, lei teatrante, io teatrale, lei insopportabile, io pibinco – come lei ha scritto ed io pubblicato il 28 gennaio 2012 su questo blog fornendo così un testo che è stato improvvisato sul palcoscenico di Sant’Anna Arresi, dove all’inizio dell’agosto scorso, Rita mi aveva invitato a presentare la mia Signorina Else.

Un giorno mi ha regalato un libro di Michela Murgia, con cui potrebbe dire “Noi siamo donne” ed anche “Noi siamo sarde”, ed anche “Noi scriviamo libri” benché lei abbia deciso di non pubblicarli.

Non escludo me l’abbia regalato perché scritto da una donna e da una sarda, ma nel darmelo mi ha detto che ci avrei trovato qualcosa di importante sul noi, e infatti, giunto in fondo a pagina 18 ho trovato:

«Non ci voleva molto, in effetti. Bastava adattarsi a quella cosa del “noi”, una parola che tutte le bocche declinavano in continuazione come fosse la spiegazione stessa del mondo.

A Maurizio non veniva così facile dire “noi”, perché non c’è plurale nel mondo di un figlio unico, educato dalla solitudine a diventare sempre l’unica misura di sé stesso. A Crabas col “noi”, invece, bisognava farci i conti, perché i suoi nonni, i vicini di casa dei suoi nonni, i loro figli e i bambini dei loro figli parlavano tutti di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare».

L’argomento è ripreso poche righe dopo dove si legge che «Maurizio aveva capito da tempo che quel plurale non implicava che suo nonno sarebbe venuto con lui a invischiare le canne sulla riva» e «sentiva usare il noi con quell’accezione densa, piena di respiri comuni».

Più avanti la Murgia spiega che a Crabas “noi” non era «un pronome come negli altri posti, ma la cittadinanza di una patria tacita dove tutto il tempo condiviso si declinava così, al presente plurale».
Io ho letto e, nel frattempo, ho insistito a dire a Rita che, come devo aver scritto da qualche parte, avendolo studiato nei libri di filosofia, l’unica cosa che si può dire usando quel pronome è «siamo mortali», non unendoci né il mangiare o il respirare, né il dormire o il bere, neppure il nascere, essendoci appartenenti al genere umano che non nascono. Tanto meno, quindi, siamo tutti ladri o puttanieri, puttane o madonne, santi o vati, angeli o diavoli, stupidi o geniali. Bisogna farsene una ragione.

In vero non è così, lo so, perché il “noi”, usabile per tutti solo a proposito della morte, la quale unicamente ci accomuna senza distinzione dal primo all’ultimo, lo è a gruppi, a conventicole, a brandelli, a piccoli assembramenti, e un noi miopi, o un noi antipatici, o un noi nati, è spendibile, entro certi limiti utilizzabile, ci “possiamo” fare ricorso. E, per questa via, son costretto a riconoscere che si potrebbe anche dire “noi” intendendo Rita Martinelli e me, o lei e qualcun altro o io e chissà chi.

Nei limiti di tempo concesso e entro i margini consentiti, senza implicazioni d’altro genere o possibili fraintendimenti, privi di estensioni e al di fuori da eventuali generalizzazioni, a discapito di supposte arbitrarie associazioni, noi possiamo usare il pronome noi, intendendo un più d’uno, due singoli almeno accostabili, per esempio Rita ed io appartenenti al genere umano e alla nazionalità italiana malgrado il suo esser sarda che differisce dalla mia piemontesità, e il suo esser donna incompatibile col mio esser uomo, così come ci divide l’ampio uso che lei fa del noi e la mia stitichezza o parsimonia in questo senso.

A riconsiderare questa questione della prima persona singolare mi ha indotto una riflessione sulla mia ritrosia ad aderire a qualche gruppo – addirittura l’innocente partecipazione, per capirsi, a una condivisa passione per un musicista – nel timore di confondermi in tutto e per tutto con chi ne fa parte, fino a fondere indissolubilmente i propri destini ed esser perennemente accomunati a qualsiasi titolo, e non, unicamente, trovarsi d’accordo su parziali e limitati intendimenti con qualcun altro.

Se mi sta stretto stare in un club o far parte di un’associazione, mi sta stretto anche, per fare un esempio, che la mia precoce adesione alla Federazione giovanile comunista italiana possa essere considerata come una condivisione dei gulag e la compartecipazione a un orrore della storia.

Un’ostilità all’intruppamento, al farsi forte del branco per nascondere la propria debolezza, a compiere gesti la cui responsabilità sia spartibile e perciò attenuante, al far affidamento su doti che non appartengono, su prestiti trasformati in doni, anzi requisizioni, appropriazioni.

E però riconosco nei miei percorsi mentali la consuetudine a servirmi di quel pronome quando occorre, per esempio, sollecitare una persona cara, stimolarla e fargli iniezioni di ottimismo, o, quanto meno, di coraggio, ed anche quando, per allenamento alla modestia, si tratta di condividere una debolezza altrui e farla propria come minimo in via ipotetica, potenziale, per cercar di capire quello che altrimenti sarebbe incomprensibile, diverso da sé, altro, inavvicinabile.

Insomma, per quanto battagli con Rita Martinelli e, come con lei, con cento altre persone, perché quelle, giuste o sbagliate che siano, sono le mie convinzioni, non posso pretendere di riscrivere la grammatica e rinunciare a un testo condiviso e alle norme in esso contenute, e devo dunque, qualche volta almeno, riconoscere l’esistenza della prima persona plurale, un singolare collettivo frutto di somme e addizioni nel quale prevale il tratto comune a detrimento delle individualità.

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2 Responses to “Quel pronome pleonastico”

  1. rita martinelli scrive:

    In ogni caso, non essendo tu il solo ad essere convinto che il noi non esiste, a testimonianza [non so quanto te ne possa impippare] del fatto che sono totalmente d’accordo con te, ti linko una delle mie pseudo riflessioni poetiche; una a caso, perché diverse ne ho scritto sull’urticante [per te] primo pronome personale plurale che a me personalmente, non aggiunge, non toglie e non sposta di un millimetro, anche usandolo, la piena consapevolezza che io resto io e tu resti tu. Tu, intesto come qualsiasi altro “tu” con cui mi rapporto. Anche quando sono più di un tu e diventano un loro. Per quel che mi riguarda, ognuno di “loro” resta e sono, sempre, un singolo tu.
    Certo, nello scrivere e nel parlare corrente, declinazioni verbali comprese, il “noi” lo uso.
    Non per ostinazione o caparbietà idealistica come tu fai intendere io faccia. Non me ne può fregar di meno.
    E’ anche vero che i miei natali in terra di sardegna aggiungono un carico da novanta perché, come ben spiega la Murgia, è qualcosa di esistente nel DNA degli abitanti di questa isola e la cosa non mi aiuta affatto ma è, come dire? caratteristica “nostra” quasi quanto le doppie consonanti infilate dove non ci vogliono; però, la grammatica è grammatica e se tu sei ostico e stitico ad usarla per quanto riguarda il pronome incriminato, declinazioni verbali o meno, beh, che ti devo dire?prenditela con i padri della lingua italiana. Padri eh, non madri. A dimostrazione che le teste di cazzo sono quasi sempre una prerogativa del genere maschile. Che ne sai, fossero state le madri i padri della lingua italiana, la prima persona plurale -funzione soggetto- del pronome io sarebbe potuta essere iotu o tuio.

    Concludendo, al di là delle mie scempiaggini o del gioco, un bel pezzo davvero quello che hai scritto. Divertente e ironico nella presentazione ma, nella sostanza, notevole come invito alla riflessione sui comportamenti collettivi, sulle assunzioni di responsabilità/de-responsabilità individuali a cui fai riferimento. Sulla facilità di accomunarci ad un noi collettivo, per giustificare più facilmente le “nostre” debolezze, miserie o quelle che la morale comune [appunto], ritiene tali di “noi” esseri umani.
    Il nocciolo io, credo, del tuo fare dei distinguo. Mi permetto di dire questo, non per fare un analisi su te [non sono nessuno per prendermi questa libertà e non voglio nemmeno prendermela], ma solo per dirti del mio pieno accordo con quelle che sono le tue convinzioni. Anche se le tue sono tue, credi, le mie sono le stesse. O meglio sono diverse perché le tue sono le tue e le mie, mie, ma la penso come te. O tu come me. Poi, certo, c’abbiamo giocato sul “noi”…o meglio, tu, da pibinco, mettendo i puntini sulle i ogniqualvolta, per fluidità di discorso, ho usato il noi o le declinazioni verbali, c’ha, a me e a te, messo in condizione di giocare al gioco dello stuzzico e dello spigolare. Non dirò che abbiamo giocato, però “abbiamo” giocato.

    Non so quanti, leggendoti, riusciranno a fare una riflessione sulla tua. Quella dove tu, seppur in via ipotetica o per allenamento alla modestia o, dico io, per la comprensione dell’altro, ti vesta di un “noi” collettivo. Come dci tu “per cercar di capire quello che altrimenti sarebbe incomprensibile, diverso da sé, altro, inavvicinabile.”
    Trovo che questo agire mentale, anche se dato solo come il calarsi ipotetico dentro una debolezza altrui [o che tale si ritiene], abbia un valore molto alto. Non è capacità comune. E’ capacità da “tu”.

    Vorrò vedere, ora t’ho smontato il giochino, andando pressoché d’accordo con te, che altro gioco, prestandoti io il fianco [quanto sono generosa, cazzo, quanto sono generosa] ti inventerai per giocare al gioco dello spigolarsi. [Poi, un giorno riuscirò a capire perchè ti piace così tanto]

    D’altro canto, potevi pure prevederlo o immaginarlo che per una fortemente convinta che non esiste né il sempre né il mai, il noi fosse cosa astratta. Si usa, almeno io lo uso, per convenzione…non per convinzione.

    Ciao bimbo. Baci e abbracci.

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