La parola “unità”
Sullo sfondo dei ragionamenti fatti – in maniera quasi scherzosa e sul filo dell’irriverenza nei confronti di un’amica con cui ho effettivamente condiviso riflessioni relative all’uso delle parole io, tu, noi e l’altro – riguardo l’individualità, l’appartenenza e la comunità, pubblicati nel post Quel pronome pleonastico, c’è un’altra questione ed anch’essa mi ha indotto a soffermarmi sull’argomento e proporlo al lettore, seppur, come ho scritto, in una chiave quasi ironica e sbarazzina. L’altra questione è quella dell’unire e del dividere, cioè del cooperare e del combattersi, della pace e del conflitto, delle alleanze e delle contrapposizioni, del rendersi responsabili e del sottrarsi alle scelte.
Ci dev’essere, credo, una coincidenza con le riunioni a cui ho recentemente partecipato per far procedere il progetto di raccogliere la memoria del “Movimento studentesco fiorentino” di cui ho scritto in Un cadeau dal passato, Memorie giovanili, Autobiografia politica e Incontro per la storia del Msf.
Ci dev’essere una coincidenza perché ciò che ritengo caratterizzi quell’esperienza politica, e perciò meriti di essere scritto in una storia, è il carattere unitario, di massa e autonomo, ma al tempo stesso politico e organizzato di quella formazione, a differenza del più vasto movimento studentesco che già negli anni precedenti si era sviluppato nelle università e nelle scuole e che poi si è raccolto intorno alle varie organizzazioni extraparlamentari.
Intendo dire che la mia originaria e quasi unica esperienza politica è stata in un volontaristico organismo dove era prevalente, mi verrebbe da dire costituzionale, l’intento di “unire”, di coinvolgere un numero sempre maggiore di consensi per diventare massa critica e maggioranza numerica, accorciando le distanze, a costo anche di smussare le differenze o mediare le posizioni, ma sempre rinunciando a qualsiasi forma di settarismo, esclusione, anatema, scissione.
Mi guidava all’epoca, quasi come un pungolo interiore, quella massima di Ernesto Che Guevara che da qualche parte e in qualche contesto aveva detto o scritto: «Bisogna battersi risolutamente ogni volta che si parla contro l’unità».
Provavo invece un certo fastidio, o forse non ne comprendevo a pieno il senso, a leggere quella considerazione di Mao Tze Tung, secondo il quale, «se non ci fossero contraddizioni né lotta, non ci sarebbe il mondo, né progresso, né vita, non ci sarebbe nulla. Parlare continuamente di unità è una pozza di acqua stagnante, può condurre al freddo».
Ritengo di dover leggere con la medesima lente di ingrandimento l’orgoglio con cui poco dopo, e poi per ventidue anni, ho potuto portare il mio contributo ai lettori di un quotidiano la cui testata esprimeva un concetto inequivocabile, l’Unità, ed in quanto tali – lettori de l’Unità – dovevano a mio giudizio riconoscersi sì in una identità che li rappresentasse ed esprimesse il loro punto di vista, ma avessero diritto anche ad avere in mano uno strumento che spaziasse, aggiungesse, aprisse, coinvolgesse, aggregasse.
Prima di quell’esperienza, insieme a Giovanni Stefanelli, avevo messo in piedi un ultimo tentativo di tener in vita quello spirito unitario, quel monito a restare insieme, uniti: un giornalino universitario la cui testata era Concentramentorenove, come era scritto nei volantini che negli anni precedenti convocavano migliaia di studenti medi, ora giunti alle facoltà, in piazza San Marco, luogo da cui partivano i cortei, vale a dire cospicue manifestazioni di massa, di persone cioè che avevano deciso di stare insieme.
L’editoriale con cui inaugurai quel giornale si intitolava “Uno strumento di aggregazione, giorno dopo giorno nella realtà” e l’uso di quella parola, “aggregazione” anziché “unità”, indica che aveva già pienamente preso corpo una “disgregazione”, di cui meriterebbe analizzare i contorni all’epoca, perché lì si racchiude, io credo, parte del vuoto spaventoso nel quale sembra di muoversi oggi.
Non credo si possa comprendere appieno la forza e l’intento di quella parola – unità – se si prescinde dagli eventi che non secoli prima avevano preceduto quelle esperienze.
La mia generazione è stata concepita in notti cariche di speranze che la pace, da poco riconquistata dopo il buio e l’orrore della dittatura e del sanguinoso riscatto, fosse stabile e duratura, ma, invero, in notti in cui lo spettro di un possibile conflitto ancor più terrifico, capace di distruggere l’intera umanità in virtù della forza nucleare, agitava i sonni, i sogni ed anche la veglia dei nostri genitori e qualcosa di quel tremore forse è finito, magari involontariamente, nel nostro Dna.
La speranza di pace si alimentava anche del desiderio di liberarsi dal giogo di un’indigenza che ancora allora, e fortemente solo pochi anni prima, era vera e propria fame, mancanza di cibo, freddo, malattie a quelle privazioni connesse.
Un’indigenza che era ancora impossibilità di sedersi a un banco di scuola e lì apprendere le gesta del barone rampante o di quello di Münchhausen, la matematica con cui non farsi fregare i pochi spiccioli in tasca, la storia con cui comprendere, come scriveva dal carcere al figlio Delio Antonio Gramsci, «gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano sé stessi».
Quel riscatto era un frigorifero in cui conservare il cibo, un termosifone o anche solo una stufa economica, un bagno dove lavarsi senza inteccherirsi dal gelo e senza esalazioni pestilenziali, una lavatrice con cui non dover piegare la schiena alla fonte, una bicicletta o un’utilitaria con cui muoversi, scoprire, incontrare. Ed era anche la determinazione a non essere più uccisi a raffiche di mitra perché si fa festa al lavoro, com’era avvenuto il 1 maggio 1947 a Portella della Ginestra.
Certo, quella voglia di riscatto si è poi trasformata in una corsa sfrenata alla maglietta griffata, all’ultimo modello di I-Phone senza il quale ci si sente nessuno e niente, all’assopirsi disfatti dinanzi a un plasma o nel fondo di una Guinness, abbandoni e rinunce quasi profeticamente colti da Pier Paolo Pasolini, con strumenti analoghi a quelli con cui, all’inizio del suo secolo, autori come Osvald Spengler, Paul Valéry, Albert Schweitzer, Nikolaj Berdjaev, René Guénon e molti altri ancora avevano condotto la loro deprecatio temporis e messo in guardia dalla crisi del mondo moderno.
Quella corsa iniziata con i brilluccichini sul terzo, quarto, quinto, ennesimo canale televisivo da riempire a tutti i costi e 24 ore su 24, o con i titoli dei giornali ridotti a poche battute che non esprimessero più un fatto avvenuto ma solo un’impressione e un colpo d’occhio, o ancora con il maquillage dell’apparenza e il lievito dei Bot e analoghi ammennicoli, e l’illusione dell’indipendenza dal padrone data dalla partita Iva, è stata una corsa alla divisione, al chiudersi ognuno in casa propria e temere l’aggressione delle bande e quindi al blindare le imposte, allertare gli allarmi, armarsi all’occorrenza.
Addio l’altro, il tu, forse il noi, per lunghi anni solo ombelico, ombelico, ombelico e métro, boulot, dodo. E Cocò, intesa come Chanel, o meglio solo il suo marchio.
L’unità cercata era anche quella che con disprezzo vien chiamata la triplice, lavoratori insieme indipendentemente dal sindacato a cui aderiscono o dal credo che si agita in cuore, ed era il compromesso storico, l’intesa fra le forze popolari di ispirazione comunista, socialista e di ispirazione cattolico-democratica, per contrastare le minacciose spinte eversive presenti nell’Italia degli anni Settanta – come nel Cile di Salvador Allende, dove era appena naufragato nel sangue il governo di Unidad Popular – e per realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato italiani, sulla base di un ampio consenso di massa.
Quell’idea, solo embrionalmente sperimentata dopo l’omicidio di Aldo Moro nel 1978, è tramontata, o se si preferisce fallita, dopo il XIV congresso della Dc nel febbraio 1980 e il terremoto in Irpinia del 23 novembre di quell’anno, poco prima della scoperta degli elenchi segreti della P2, avvenuta il 17 marzo 1981 nell’ambito dell’inchiesta su Michele Sindona.
Per sentir riparlare di unità, di voglia di stare insieme, si deve probabilmente arrivare al 1995, quando, all’inizio con grande adesione di comitati spontanei, gruppi, associazioni, è nato l’Ulivo, con l’intento originario di riunire sotto un’unica bandiera le diverse anime del riformismo italiano di centrosinistra.
Il resto è sotto ai nostri occhi ed è una grande tristezza, la costante ricerca di una propria visibilità, di un escamotage a proprio vantaggio personale, il parlarsi addosso in una maniera che nessuno voglioso di lavorare, guadagnarsi onestamente di che vivere, stare a galla in questo scenario mondiale caratterizzato dagli tsunami riesce a comprendere, io almeno non lo comprendo.
Qualche anno fa abbiamo anche assistito ad altre due importanti apparizioni della parola unità: purtroppo solo apparenti. La prima è stata quella che ha fatto sperare in un atto di fratellanza fra i popoli che avevano scatenato il secondo conflitto mondiale e, pur con un numero sterminato di brutte pagine di storia, hanno disegnato un modello di civiltà, quella europea, che faceva sperare nella pace, nello sviluppo, nella cooperazione. Questo è stato nel cuore di molti la nascita dell’Unione – unione! – europea.
La seconda ha il nome di federalismo, un processo cioè dove diversi e gelosi della propria identità si apparentano per stare insieme, far meglio, aiutarsi fra sé, come è avvenuto molto tempo fa negli Stato Uniti e poco tempo fa nella Germania dilaniata per tanto da un muro.
Infine, è doveroso ricordarlo, per quanto sterile, l’esistenza dell’Organizzazione delle nazioni unite, l’Onu: sì unite, direbbe la parola del palazzo di vetro.
Quella lettera di Gramsci a suo figlio Delio in cui auspicava che gli piacesse la storia per i motivi che si è detto, terminava con queste parole: «Ma è così?»
A quel così intimo dubbio, garbatamente confessabile a un figlio, mi sono attenuto fin da quando lessi quella frase, forse ai tempi del liceo, costruendoci sopra un abito mentale fatto di scetticismo, voglia di capire, coraggio di vedere. Per cui, ancora oggi, lo ripropongo: «Ma è così?»
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