Risus abundat
Risus abundat in ore stultorum
Alcuni anni fa – una decina almeno, credo – uscì un libro – non ricordo più chi l’abbia scritto – nel quale si sosteneva che la sinistra è destinata alla sconfitta perché… è piagnona, propensa alla tristezza, tendenzialmente seriosa e insomma uno dovrebbe essere un masochista per mettersi nelle mani di uno incapace di ridere, godere, gustarsi la vita.
Non lessi quel libro ma ne parlai con una persona che mi illustrò quelle tesi sostenendone la validità, suggerendomi forse di rifletterci e, magari, farle mie. Non avendolo letto non posso scrivere nel merito, non è quindi con l’autore che qui, eventualmente, polemizzo.
È con l’idea così come io l’ho esposta che, semmai, posso duellare. E di questi tempi, nel deserto che si ha di fronte, misurarsi col tema non mi pare ininfluente. Quindi ci provo: o serve a qualcosa o, almeno, ci si farà su due grasse risate.
C’è ovviamente del vero. Ma dobbiamo fare a capirci. Io suppongo che chi sia propenso a condividere quel punto di vista abbia in mente la cordialità, la simpatia, l’affabilità di un candidato premier che prometta gioie, festini, crapule, sganascia menti. Temo cioè sia vittima di questa lagna infinita e disgustosa secondo la quale abbiamo bisogno di un candidato telegenico, “spendibile” (cosa nasconde questa parola!), che abbia allure, appeal, ci seduca, ci molcisca.
È questo il tormentone che non si smette di sentire e continua ad accompagnarci come fossimo alle prima battute di un concorso di bellezza, chissà come mai riservato a maschi sbarbati, giovanili, atletici e non a festose fate mozzafiato destinate solo al corollario e ai solleticamenti sottobanco.
Una realtà banale e sotto gli occhi di tutti, inequivocabile, facile facile da decifrare, e nemmen più neanche tanto divertente, che però attecchisce ancora anche in menti illuminate e capaci di complessi discorsi e disamine, analisi, circonvoluzioni, prediche.
Che il pensiero della sinistra sia costituzionalmente lamentoso, critico, insoddisfatto, grave e propenso a dire che qualcosa non va è fin troppo ovvio se si fa mente locale un attimo al fatto che sia stato messo a punto da qualche mente illuminata la quale si è presa la briga di dar voce a una maggioranza di individui tenuti in condizioni di sfruttamento, privazione, sofferenza, disagio, i quali, proprio per tramite di quel pensiero tradotto in azione, intendono sottrarsi a tali tristi, affatto ridenti, per nulla spensierate condizioni, tentando un riscatto, vale a dire il recupero di dignità, pane, lavoro, sonno, salute, gioco, amore, tempo libero, benessere, risata.
Qui si aprono almeno un paio di questioni di contorno, su cui merita soffermarsi. La prima: non è affatto vero che questa marmaglia, gli umiliati e gli offesi, siano del tutto incapaci di solluchero, sghignazzi, estasi, baldorie. Non importa scomodare un François Villon, un Renzo Tramaglino, Gargantua e Pantagruel, la Carmen di Bizet o lo stesso Leporello, per dir come nei bassi ci si riuscisse a divertire addirittura a crepapelle, fin da tempo immemore, ed anzi, per lungo tempo s’è descritto il villico e il sottomesso come un buontempone, lasciando all’altolocato e al suo perbenismo il cupo borbottio di chi lamenta la stagione attuale rimpiangendo un età d’oro, l’ancien régime ormai indisponibile.
Vero è che spesso proprio quella spensieratezza, la gioia e l’ebbrezza delle classi subalterne, sono state segnate a dito, basta ricordare le parole della canzone di Paolo Pietrangeli, Contessa:
«Sapesse Contessa che cosa m’ha detto
un caro parente dell’occupazione
che quella gentaglia rinchiusa là dentro
di libero amore facea professione.
Del resto mia cara di che si stupisce
anche l’operaio vuole il figlio dottore
e pensi che ambiente che può venir fuori
non c’è più morale, Contessa».
Parimenti vero è che il rimpianto del tempo andato sembra aver contagiato proprio chi, a rigor di logica, dovrebbe sì auspicare «il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente» – così Karl Marx definiva il comunismo – ma non per sostituirlo con «si stava meglio quando si stava peggio».
Quante volte, infatti, purtroppo, vien da dire: «Non moriremo nemmeno democristiani!», perché dinanzi a questi chiari di luna, anche il puzzone risulta un gigante, baci dati o meno alla mafia.
Il drammatico è proprio qui: che il meglio, o quanto meno il meno peggio, con cui oscurare il peggio, a cui, com’è noto, non c’è mai fine, stenta ad essere tracciato, prospettato, vagheggiato e, nemmen si fa della realpolitik.
A me vien da pensare che nelle fantasie giovanili della mia generazione c’era il ballare tutti nudi sotto la pioggia, divertendosi come matti, mentre sul palco Joe Cocker insegnava a consolarsi al momento del bisogno con un «little help from my friends», Jimi Hendrix onorava il paese della statua della libertà storpiandone l’inno, e Joan Baez ci ammoniva che «we shall overcome», avremmo vinto.
La serietà, insomma, non impediva l’istante di felicità, l’impegno non annullava il gioco, e la convinzione era che una risata vi seppellirà.
Però guardo i volti ridanciani, giulivi, spensierati, senza rughe, francamente parecchio ebeti, di tanti che oggi non solo non sanno incupirsi, ma che nemmen si rendono conto di quando sono loro che rendono tetri e spettrali questi nostri giorni, questi calorosi saluti da amicone millenario che ha appena finito di vuotarti il portafogli per comprarsi, finalmente – riscatto! riscatto! – il “vista mare”, e… m’intristisco, ricordandomi però, che «sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam».
E allora
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