Temporale/spirituale
Ho tenuto volutamente fuori dal resoconto e dalle considerazioni fatti sul “Carteggio Bergoglio-Scalfari”, che si può leggere in Il tentativo di un dialogo, la parte in cui il fondatore di Repubblica commenta i pochi aspetti politici presenti nello scritto pontificio o da esso deducibili.
È una questione assai delicata che merita riflessioni specifiche. Ci provo, dopo aver però dato conto di quello che scrive Scalfari, per il quale sembra sfuggire al pontefice la «visione dell’autonomia della politica». Comprensibile sia così, scrive, perché «uno come lui non può concepire la politica che nel quadro di un servizio ai cittadini. Questa opinione è perfettamente condivisibile ma non può escludere l’egemonia. In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l’egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune. Resta o dovrebbe restare un servizio, che passa però attraverso la conquista del potere».
Di questo, secondo Scalfari, papa Francesco è consapevole, perché «la Chiesa cattolica infatti l’ha sperimentato facendo del potere temporale uno dei cardini della sua storia». Cita al riguardo lo scontro tra Gregorio VII e lo scomunicato Enrico IV durante la lotta per le investire, nel corso della quale l’imperatore tedesco fu costretto a genuflettersi dinanzi al pontefice e umiliarsi indossando abiti da mendicante, episodio dal quale deriva l’espressione «andare a Canossa» con cui solitamente si intende dire di giungere a più miti consigli, ovvero sia piegarsi di fronte a un nemico più forte ammettendo, ob torto collo, di aver sbagliato.
In quell’occasione, si narra, il depositario del potere temporale si tolse lo sfizio di bisbigliare, un attimo prima di baciare i piedi del Papa, «Non tibi sed Petro», non i tuoi ma quelli di Pietro, o non a te ma a Pietro, ottenendo per tutta risposta da un tronfio, inorgoglito e affatto francescano depositario del potere spirituale «Et mihi et Petro», i miei e quelli di Pietro.
Del resto si sa, Parigi val bene una messa, e Roma val bene di sporcarsi un po’ le mani.
Scalfari nota quindi che la storia, quella antica e quella più recente, è costellata da quest’intromissione della Chiesa nelle vicende dello Stato, e non tanto dall’esposizione di un punto di vista cattolico sulle vicende umane dell’al di qua, quanto dall’ingombrante presenza di una istituzione che si è cimentata, scendendo in campo o condizionando dietro le quinte, con il potere, la guerra, gli affari.
Non sono queste le parole che usa l’ex direttore di Repubblica, ma i concetti non credo siano dissimili. Cita, una per tutte, le Crociate, e si potrebbe aggiungere le guerre di religione, il colonialismo, i silenzi.
«La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c’è sempre stata – precisa Scalfari – e Francesco d’Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale».
E conclude: «Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro».
Non sono in grado di dire se lo scetticismo che traspare da queste parole sia giustificato o no: men che meno noi laici abbiamo sfere di cristallo e possibilità di vedere oltre.
Anche rispetto all’esistenza di Dio possiamo limitarci a negarla fintanto che prova contraria non dovesse invece dimostrarci la fallacia della nostra posizione, legittimamente degna di essere scettica e diffidente, così come merita esserlo su tutto, avendo numerose scoperte scientifiche – forma sferica della Terra, rotazione intorno al Sole, Yersinia pestis e importanza di lavarsi le mani, Lucy, Darwin e Australopithecus afarensis, E=mc2 – dimostrato che prima di esse si è solo ignoranti o si hanno conoscenze parziali, senza per questo tentar di abbindolare qualcuno sulla possibilità che i ciuchi volino in proprio o che bere un bicchier d’acqua fa passare il cancro.
Ribadisco perciò il mio ateismo lasciando che chi ha fede ce l’abbia. Possiamo parlarci e portar le motivazioni delle nostre rispettive scelte, cercando di fare in modo che siano il più convincenti possibili, ma ci si ferma lì, come fanno Bergoglio e Scalfari sulla natura umana o divina del Cristo.
Ma ancora non abbiamo toccato il punto di quale relazione debba o possa esserci fra religione e politica e, di conseguenza, fra assenza di religione e fede e politica.
Gli uni e gli altri sono legittimati ad esporre il proprio modo di pensare e a me pare che già accettare questo sia essere laici. Entrambi, però, non hanno il diritto di imporre né i propri valori, né le proprie convinzioni, né i propri usi e costumi, né le proprie norme, né i dettati della propria coscienza all’altro.
Bergoglio scrive: «Alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza».
C’è già in questa affermazione uno schieramento politico. Nell’agorà è d’obbligo garantire a tutti giustizia, solidarietà, diritto e pace. Un guerrafondaio, o anche solo uno che decida una missione umanitaria dell’Onu mitra alla mano, è già fuori da questo consesso. Chi con la violenza intende commettere un sopruso su un altro individuo è out. Ma ovviamente anche accettare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il proprio profitto a discapito del salario, i privilegi di qualcuno a dispetto di qualcun altro è la scelta con cui ci si chiama fuori dalla res-pubblica, la cosa di tutti, costruita con la politikè, lo star insieme, io nel tuo rispetto, tu nel mio.
Nella parole di Bergoglio, insomma, c’è un pesante atto di accusa alla società civile – si legga bene, società civile, noi, non solo i deputati – e politica che non articola e non incarna una vita più umana nella giustizia, solidarietà, diritto, pace.
Per praticare questo «servizio all’uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia» occorre non fuggire dal mondo, starci, esserci, ed occorre anche egemonia. Egemonia, non dominio, argomentazioni solide capaci di persuadere, convincere, crear coscienza.
È lecito quindi che un cattolico, facendo proprio quanto detto dal papa si chieda «Chi sono io per giudicare i gay o i divorziati che cercano Dio?», e tuttavia adduca le sue ragione in base alle quali secondo lui sia più opportuno, per se stesso almeno, essere eterosessuali, sposarsi una volta per tutte e non ripensarci mai più. A me sembra che lecito non lo sia più il votare una legge con cui venga impedito a chi lo ritiene per sé, non per il cattolico fervente, se troncare una relazione o far le proprie scelte sessuali.
Ci si troverebbe invece d’accordo se prevalesse questa tolleranza verso gli altri, e l’ammissione che si possano far scelte diverse e non sia peccato tutto ciò che non è compreso nei canoni, purché, come dice il pontefice si obbedisca «alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. […] E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».
Si sarebbe così, credo, al «servizio all’uomo, a tutti gli uomini». Resterebbero poche zone d’ombra, credo, solo quelle, suppongo, sul valore della vita o la definizione di quando essa inizi, finisca, meriti di essere vissuta, in quanto propria, o di chi ne ha la patria potestà fino a un certo punto, o affidata a chi s’è scelto ci rappresenti, anziché di proprietà della divinità.
Però io trovo importante che il cattolico, da una posizione di pari, esprima la sua opinione, manifesti il suo pensiero, argomenti con i suoi parametri, perché lo scambio anche acceso, apparentemente senza possibilità di mediazione, è basilare se davvero, in principio era il Verbo.
Su questa strada penso si debba metter mano al concetto di bene comune, alla politica intesa come mezzo per perseguire il bene comune, ricordando che il tema del bene incrocia quello del male, e lì si misura la morale, e lì si accende la coscienza.
E penso anche che si debba cominciare a considerare un piano intermedio tra la politica e la coscienza, tra quanto si ha in cuore e quanto è condivisibile con la collettività, ed è il piano della pratica personale, di come ci si comporta, delle proprie personali azioni, non quelle del partito, non quelle della classe, non quelle della parrocchia.
Qui la lezione di Gesù sarebbe fondamentale, per chi lo crede il figlio di Dio e per chi, come me, lo immagina un gran rivoluzionare, il prototipo del libero pensatore, l’incarnazione dell’immensa capacità di provar sentimento.
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