Della grazia

Dei vari significati della parola “grazia” quello che credo di aver prevalentemente frequentato e con cui, perciò, ho maggior confidenza, indica il piedino terminale, lo svolazzo, il cesello, l’arzigogolo presente in alcuni caratteri tipografici – odiosamente ribattezzati “font” –, una pennellata, un ghirigoro, una smorfietta che abbellisce le a, le b e le c fino a distinguerle dalle equivalenti lettere impresse con i caratteri a bastone, dritti, essenziali, geometrici, spesso un po’ impalati, con i quali si scrivono le stesse cose ma in una maniera più rigida e, si dice, più chiara.

Il Simoncini Garamond

Appartengono ai caratteri con le grazie il Times, il Baskerville, il Bodoni, lo stesso Georgia con cui vedete composto sul vostro schermo questo testo, e, sopra a tutti secondo me per la sua limpida “grazia”, il Simoncini Garamond, limpido, garbato, morbido ma senza fronzoli, elegante ma non sfacciato. Ne illustro, qui a fianco, un campionario.

Sono invece caratteri a bastone l’Arial, il Franklin, il Geneva, il Permanent, l’Helvetica. Di quest’ultimo do un assaggio nell’immagine successiva.

l’Helvetica

I caratteri con le grazie sono aggraziati e se così li si chiama è perché la parola grazia indica anche la gentilezza, la bontà di modi e di intenzioni, la generosità, il garbo, la cortesia con gli altri, e la leggiadria nel muoversi e nel comportarsi.

Questo cocktail di buoni sentimenti e di virtuose predisposizioni suppongo che derivi dalla grazia nella sua accezione di dono, o favore, concesso all’uomo da Dio o, comunque, da una “divinità”.

Con il termine grazia, infatti, in teologia, si indica la benevolenza che Dio – leggo su Wikipedia – «manifesta verso l’essere umano, come un sovrano si volge con favore verso un membro del suo popolo e gli concede doni, non perché tenuto a farlo, ma perché liberamente vuole e sceglie di farlo».

L’enciclopedia on line specifica che quella benevolenza è presente anche nei sistemi religiosi politeisti ed in tal caso è attribuita a una generica divinità, non proprio a Lui.

Mi pare si debba qui fare una parentesi. Cronologicamente il politeismo greco è più antico dei vari monoteismi rimasti ancora in piedi.

Entità che si chiamavano Grazie esistevano già nella mitologia greca, la quale, anziché religione olimpica, giustamente chiamiamo così per sottolineare l’operazione mentale con cui gli antichi – curiosamente privi di Dio Yahweh al pari di genti d’altri paraggi – costruirono nella propria testa – dove essi stessi dicevano, come i nostri squilibrati, di sentire delle voci – quelle figure alle quali far incarnare la caccia, l’agricoltura, i fulmini, il mare, la guerra, l’amore e tante altre belle cose della natura e degli uomini che davano spavento o gioia.

Le tre Grazie nella Primavera di Sandro Botticelli

Più esattamente si chiamavano così traslitterate in latino, essendo nella loro lingua originaria le Cariti (Χάριτες), poi splendidamente raffigurate da Botticelli nella Primavera che si può vedere visitando gli Uffizi a Firenze, ma anche da Antonio Canova, all’Ermitage di San Pietroburgo, da Rubens al Prado di Madrid, da Raffaello al Museo Condé di Chantilly, da Lucas Cranach il Vecchio al Louvre di Parigi, opere alle quali va aggiunto l’omonimo carme di Ugo Foscolo.

Erano, secondo Esiodo, tre giovani donne nude e si chiamavano Aglaia, lo splendore, Eufrosine, la gioia e la letizia, Talia la prosperità e la portatrice di fiori.

Figlie di Zeus e di Eurinome o di Era – oppure di Elio, il dio del Sole e dell’oceanina Egle, o ancora di Dioniso, dio della vite, e di Afrodite, dea della bellezza e della fertilità –, erano comunque divinità benefiche e incarnavano la perfezione a cui l’uomo deve tendere e le tre qualità che si riteneva – o forse più esattamente gli uomini ritenevano – una donna dovesse avere.

È probabile che sin dall’origine scaturissero dalle forze sprigionate dalla natura e dalla vegetazione, dalla straordinaria energia che da lì promana – come il borbottio e quasi una carezza che si dice si possano udire abbracciando un albero sembrano ancora far credere – e fossero insomma proprio esse, nella loro abbagliante bellezza capace di accendere estasi ed emozione, le creature a cui attribuire il merito di infondere nel cuore degli dèi e dei mortali la gioia che si prova dinanzi alla natura che qualcuno potrebbe anche scrivere Natura con la N maiuscola.

Comprendo quell’estasi, analoga, suppongo, a quello che si prova in cima a un sentiero oltre i duemila metri, o fissando l’orizzonte mentre il mare s’inghiotte l’ultimo raggio di luce, o ancora vedendo e rivedendo gli occhi di lei in quel preciso istante come te li porterai dentro per sempre, succeda quello che succede.

E perciò comprendo che si sia potuto elevare tutto ciò ad assoluto, a transeunte, a sacro, lo si sia immortalato, innalzato nell’empireo, scagliato nell’urano, si siano costruiti templi, altari, basiliche.

E comprendo che tanta “grazia”, si dice così, tanto “ben di dio”, si dice anche così, tanto “splendore”, si dice anche così, risultino come un dono, una disponibilità gratuita, che in realtà non lo è perché esige quanto meno il nostro rispetto.

Ebbene appunto la teologia ci dice che la grazia è un favore particolare concesso da Dio, una sua benevolenza manifestata verso l’essere umano, «come un sovrano si volge con favore verso un membro del suo popolo e gli concede doni, non perché tenuto a farlo, ma perché liberamente vuole e sceglie di farlo».

Perciò la grazia è anche, e ancora, il condono, totale o parziale, o la commutazione di una pena.

Questa è una definizione generica, perché nel nostro ordinamento la grazia è un provvedimento «di clemenza individuale, di cui, cioè, beneficia soltanto un determinato condannato detenuto o internato, condonandogli, con o senza condizioni, la pena principale in tutto o in parte o sostituendola con altra meno grave».

Prevista dall’articolo 87 della Costituzione come prerogativa del Presidente della Repubblica che la può concedere con atto controfirmato dal guardasigilli secondo le norme fissate nell’articolo 681 del Codice di procedura penale, la grazia va distinta dall’amnistia e dall’indulto, le quali si applicano rispettivamente ad una determinata categoria di reati e di condannati, non a un singolo soggetto in condizioni eccezionali.

La sua specificità risulta evidente dall’espressione «è stato graziato» con la quale ci si riferisce ad un individuo già salito sul patibolo o messo al muro, e perciò con sentenza definitiva e senza più possibilità d’appello, il quale beneficia della clemenza del boia o del plotone d’esecuzione, giustappunto per volontà di un’autorità superiore, un po’ come il pollice verso con cui l’imperatore decideva la sorte di un gladiatore sconfitto.

I contesti nei quali siamo giunti sono assai contigui ai ragionamenti che si potrebbero fare sul perdono: cessazione del risentimento nei confronti di un’altra persona; quindi gesto umanitario con cui, vincendo il rancore, si rinuncia a ogni forma di rivalsa, punizione o vendetta nei confronti di un offensore. Per estensione ha valore d’indulgenza verso le debolezze o le difficoltà altrui, oppure di commiserazione o di benevolenza. Nel cristianesimo anche remissione dei peccati, assoluzione delle colpe accordata da Dio al peccatore pentito che riconosce, confessa e abbandona il suo peccato e l’indulgenza concessa dalla Chiesa in condizioni particolari.

E per completare la riflessione andrebbe naturalmente presi anche in considerazione i concetti di “condono”, “confessione”, “assoluzione”, “pentimento”, “collaborazionismo” con cui negli ultimi decenni è stata parecchio bistrattata la giustizia.

Ci siamo però allontanati dal tema della grazia intesa come stato di un individuo che l’ha ottenuta in dono dalla divinità.

La discussione qui può prendere due strade: a) quella della discendenza, se si tratti effettivamente di una concessione dall’alto o possa invece scaturire in interiore homine, a seguito di un percorso proprio e individuale, misurato anche nel confronto con le comunità, l’altro, il diverso da sé; b) quella di ciò che caratterizza questo stato, i suoi ingredienti, le sue qualità, quanto ne è costituente.

È questo secondo orizzonte che mi pare interessante e meritevole d’essere perlustrato, anche proficuo, essendo il primo incardinato su paradigmi inconfrontabili, un po’ come l’arduo calcolo delle mele e delle pere, e perciò privo della possibilità di giungere a una sintesi, essendo le tesi in antitesi.

Leggo che nell’Antico Testamento la grazia non ha un significato teologico preciso. Al posto di essa si trova l’idea di benignità che esprime la costanza della bontà di Dio.

Ci sono parole (chesed, chen) che indicano la misericordia e il favore di Dio, si parla di persone che hanno trovato grazia davanti a Dio, e il concetto prevalente è quello della volontà di Dio di salvare la creatura umana dalle conseguenze temporali ed eterne del peccato. Ne da prova scegliendo Israele come Suo popolo e stipulando con esso un’alleanza che prevede di conservarlo tale nonostante le sue trasgressioni, offrendo cioè l’opportunità al peccatore di ravvedersi e fare appello alla grazia divina. Un Dio, dunque, che vuole salvare, non distruggere.

Le parole equivalenti nel Nuovo Testamento (eleos, charis) hanno significati analoghi a quelle dell’Antico Testamento: favore, gentilezza, bontà; oppure atto o atteggiamento di misericordia di Dio verso la creatura umana. Spesso il concetto è unito a “pace” e in alcuni passi indica il successo di qualcosa fatto in nome di Dio.

La grazia è quella di Dio verso gli uomini, anzi, verso gli uomini che hanno accettato Gesù come personale salvatore: essa apre i cieli, è un favore di accettazione, concede benefici di ogni risorsa necessaria all’anima e alle risorse terrene.

Manifesta la potenza di Dio, il suo essere sovrabbondante ed è essa che «determina la generosità che i credenti, a loro volta, devono manifestare». Essa «distribuisce alla comunità cristiana doni da usarsi nel servizio di Dio e degli altri».

Ciascuno, scrive Pietro, «secondo il carisma che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri».

All’alleanza con il popolo eletto nel Nuovo Testamento si sostituisce quella con la creatura umana che ha scelto Cristo, nella cui opera e nella cui persona, l’amore e l’iniziativa divina raggiungono la loro manifestazione più grande. E di lì la divisione fra sommersi e salvati: «Noi crediamo che siamo salvati mediante la grazia del Signore Gesù».

La grazia diventa grazia della salvezza, accordata per merito dell’opera compiuta da Gesù Cristo, dalla trasformazione della Parola in carne.

La fede in Cristo, dunque, è uno degli effetti della grazia di Dio, un suo dono. E a sua volta la fede introduce nella grazia di Dio.

In questa chiave la grazia concede il perdono che rigenera spiritualmente a chi si affida ad essa: non si contrasta il peccato con la virtù, ma con la grazia e la fede, spiega San Paolo nella Lettera ai Romani.

Non c’è più sguardo sbalordito e riconoscente dinanzi all’arcobaleno o alla mareggiata, e nemmeno invito ad avere il coraggio manifestato da Gesù, spinta ad emularlo nell’amare e nell’amarsi, incitamento a seguirlo nell’anticonvenzionalità delle proprie scelte.

Rimane solo qualcosa caduto dall’alto, una vocazione, una voce che si ode nelle orecchie come avviene ai nostri disadattati, l’illuminazione, non l’essere luminosi, pronti a farsi fari nella notte.

Quei significati antichi restano invece nell’espressione “stato di grazia”.

In teologia essa indica la condizione di chi è in assenza di peccato, e, lungi da ogni forma di moralismo, mi pare una definizione accettabile anche da chi semplicemente intenda non aver niente che gli pesi sulla coscienza, un torto da rimproverarsi, un’azione commessa che gli produca vergogna.

Senza simili pesi addosso, realisticamente, se si è avuto prima la capacità di separare il grano dal loglio – la consapevolezza delle responsabilità dai sensi di colpa – è ragionevole che ci si trovi nei dipressi di uno stato di grazia, ed è comprensibile che chi dispone di un codice di comportamento ed abbia delle norme da seguire, sia agevolato in questo compito che altrimenti è lasciato all’incessante sollecito alla propria coscienza.

I credenti sostengono che chi muore in stato di grazia ottiene la salvezza eterna potendo accedere al paradiso, quelli che credenti non sono non attendono un premio dopo e si addormentano sereni di aver fatto il meglio che era nelle loro facoltà.

Un fedele che perda lo stato di grazia ne è nuovamente ammesso mediante la confessione. Il percorso dell’altro è più tortuoso e in alcuni casi comporta il perdono da parte dell’offeso o, almeno, l’ostinato, sincero, onesto tentativo di placare il risentimento innescato.

Nel Cristianesimo cattolico, i fedeli possono chiedere grazie attraverso la preghiera e queste possono essere materiali, come ad esempio la guarigione da una malattia, o spirituali, come la cosiddetta conversione del cuore.

Infine – leggo – ogni uomo sarebbe «dotato di grazie speciali (o carismi), doni gratuiti più o meno eclatanti, dalla compassione alla capacità di parlare lingue sconosciute (xenoglossia), come successe il giorno di Pentecoste agli Apostoli».

Alcuni teologi avrebbero inteso la grazia anche come lo Spirito Santo, ovvero la terza Persona della Santissima Trinità chiamata con il nome femminile di Ruah che compare già nella Bibbia.

La teologia, leggo altrove, ipotizza lo stato di grazia anche come regno di Dio già in terra, per quegli uomini che, grazie al battesimo e alla confessione, in tal stato sono, misticamente uniti verso la santità.

Questi due sacramenti sarebbero in grado di innescare un effettivo cambiamento di stato nella natura dell’uomo, la quale gli verrebbe restituita come avviene nella trasformazione da un legno secco ad uno vivo, in particolare con il riallineamento mente-cuore.

È questo uno scenario straordinariamente affascinante: non la soppressione o l’occultamento dell’uno o dell’altro, della sede della ragione o di quella dell’amore, nemmeno il prevalicare di uno sull’altro, ma il ricongiungimento, l’acquisizione della capacità di farli operare in sintonia, con pensieri guidati dai sentimenti, ed emozioni sollecitate dalla consapevolezza.

La via per accedere a queste nuove forme di conoscenza non passerebbe da uno sforzo razionalistico, né consisterebbe in un procedimento gnostico di auto illuminazione, ma sarebbe possibile solo mediante la grazia emanata da Dio, colta e goduta solo per apertura del cuore e disponibilità all’amore.

«Amando l’uomo conosce. Ecco perché le maggiori conoscenze, anche filosofiche, sono sempre state riservate ai santi. Non esiste per l’uomo un modo di accedere ai beni dell’Intelletto senza un percorso di santità che ci introduca in profondità nello stato di grazia, che in fondo è uno stato angelico. Gli Angeli vivono già spontaneamente in tale condizione, e non conoscono scissione o dissidio tra mente e cuore. Ogni loro ragionamento è un ragionamento d’amore. La natura umana si trova invece svantaggiata da una situazione di peccato originale, con una mente lasciata senza luci a se stessa, e con un cuore senza guida dell’intelletto e pertanto esposto alle passioni. Ma se l’uomo comprende che l’unico scopo della vita è lo stato di grazia (al di fuori del quale la vita perde di senso), ecco che entra nella dimensione di quella sapienza del cuore che lo rende concittadino della città celeste e testimone anticipatore della Parusia finale, regno definitivo della Grazia» (Stefano Biavaschi, Lo stato di grazia, www.ilprofetadelvento.it).

Ora, disponendo io qui di un carattere con le grazie, qual è il Georgia, e tutto sommato anche il mio carattere è propenso, salvo eccezioni, alla gentilezza, bontà di modi e d’intenzioni, generosità, garbo, cortesia con gli altri, leggiadria nel muoversi e nel comportarsi, caratteristiche appunto della grazia in una delle sue accezioni, vorrei spendere una parola a favore di questo concetto per la parte che riguarda appunto un sereno modo di rapportarsi al mondo, pacifico e beato, estasiato e grato, riconoscente come chi ha ricevuto un dono e gaio come chi l’ha appena fatto con amore.

Per completezza di informazioni, si deve infine ricordare che Grazia è anche un nome proprio di donna, la testata di un periodico femminile, nonché un titolo nobiliare, Sua grazia, (abbreviazione: S.G.) riferito ai sovrani di Scozia fino all’unione nel 1707 con l’Inghilterra, utilizzato anche nella religione protestante e in quella ortodossa per designare alcuni gradi di prelati.

Naturalmente, al termine di queste considerazioni, sono indispensabili i ringraziamenti: grazie.

Leave a Reply