Idee, forze, alleanze
Ho ripubblicato qui nel blog l’ultimo dei tre articoli di Enrico Berlinguer intitolati Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, in cui, nel 1973, esattamente quarant’anni fa, fra settembre e ottobre, proponeva a un paese non da molto uscito dal fascismo e ancora minacciato da tentativi vari di violento ritorno a un regime, di “unire”, mettere insieme, condividere i valori comuni mettendo da parte le incomprensioni e le differenze, per offrire alle persone che vivono fra Brunico e Pozzallo, una società equa, dove si sia liberi, e ci si aiuti l’un l’altro per stare il meglio possibile.
Certe cose all’epoca si dicevano con ampollose perifrasi; certe cose che ancor oggi nessuno osa dire, tanto sarebbero semplici. Per esempio socialdemocrazia. Una socialdemocrazia, come ce ne sono in qualche angolo della terra e si dice non ci si viva male, è un sistema parlamentare che ha fatto propri alcuni principi basilari di un sistema più attento alla distribuzione del reddito fra i cittadini, garantisce i servizi fondamentali ritenendoli diritti, non gli si rizza il pelo a sentire la parola Stato considerandola ciò che indica l’organismo di unione dei propri abitanti.
Per cui Berlinguer, segretario del più numeroso partito comunista d’Occidente, scrive di «causa della libertà e del socialismo», ed altri “luoghi comuni” un po’ celebrativi con cui in tanti ci esprimevamo allora.
Ma, prima di addentrarmi in qualche considerazione su quello scritto, vorrei far notare che ho ripubblicato quell’articolo comparso su Rinascita, proprio mentre stavo scrivendo di divergenze religiose e distanze culturali, ma anche della possibilità di dialogare, discutere, all’occorrenza unirsi e far qualcosa insieme. E non erano pensate estemporanee se il 23 settembre avevo ragionato intorno a La parola “unità”.
In un testo scritto a quattro mani con mio padre – di cui perciò solo in parte mi assumo la paternità, avendo lì, tra lui e me, compiuto un nostro “compromesso storico” –, l’introduzione agli anni 1964-1984 della storia del Partito comunista italiano in 5 volumi ricostruita attraverso i documenti dei congressi (Da Gramsci a Berlinguer, Venezia, Marsilio-Edizioni del Calendario, 1985), credo di aver analizzato l’originalità di quel progetto politico strategico e non tattico che era appunto il compromesso storico, la “macchietta” che di esso ne fu tracciata, la distanza fra quella proposta e le scelte che si dovettero fare in uno dei momenti più difficili della storia italiana, quello in cui il terrorismo delle Brigate rosse giunse al suo culmine con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro.
Qui vorrei riprendere alcuni concetti e riproporli. Non so se per suggerire prospettive o per notare che ce ne son rimaste davvero poche.
Innanzitutto proprio l’importanza del dialogo tra diversi e la possibilità che da esso scaturiscano sforzi congiunti tesi a valorizzare il bene a dispetto del male (ok, un supposto bene a dispetto di un supposto male), a far stare meglio se non proprio, esattamente, come al massimo a cui ciascuno aspira in cuor suo.
È l’invito a non mettere al centro del confronto ciò che divide perché esiste un nucleo di incancellabile diversità, ma di privilegiare e concentrarsi su quanto consente una convergenza, un invito intorno al quale ho chiamato a riflettere proponendo il dialogo Scalfari-Bergoglio.
Da questo punto di vista la frase chiave dell’articolo di Berlinguer è questa:
«Ecco perché‚ noi parliamo non di una alternativa di sinistra ma di una alternativa democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico».
Che per essere appieno compresa va letta a fianco di quest’altra: «un dialogo costruttivo e […] un’intesa tra tutte le forze popolari, senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze».
C’è il riconoscimento, da parte di un comunista, che ideali e valori morali e civili dei cattolici possano essere condivisi, non differiscano inconciliabilmente da quelli di chi ha altri ideali e valori morali e civili.
Ed è importante sottolineare che per Berlinguer questa collaborazione ed intesa concettuale è possibile anche con formazioni di altro orientamento democratico. È evidente che alludesse a quel composito universo genericamente definito “laico” (di cui Scalfari è senz’altro stato un punto di riferimento) che raccoglieva l’eredità non solo dei repubblicani, di chi aveva combattuto in Giustizia e libertà e poi nel Partito d’azione, ma anche dei liberali democratici che avevano creduto nella Rivoluzione liberale di Gobetti. Più in generale del pensiero di derivazione illuminista.
Ma è doveroso sottolineare anche i “soggetti”, e la loro specifica qualità, che Berlinguer prende in considerazione per il suo ragionamento: nel brano citato le chiama “forze” o “formazioni”, e usa l’aggettivo “popolari”.
Più avanti, riferendosi al fronte che in Italia ha resistito al fascismo, parla di “movimento”, e quindi di “alleanze”: alleanze politiche e sociali.
«Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché‚ era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché‚ ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione.
Del resto, anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa ed articolata.
Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche».
L’attenzione principale è rivolta alla possibilità di convergenza di interessi economici non in contrasto tra loro, capaci anzi di rafforzarsi dal loro incontro, dalla possibilità cioè di estendere il beneficio e la “fetta di torta” in ragione di questa intesa, anziché di aumentare il proprio margine di guadagno o remunerazione a scapito di quelli dell’altro.
Su questo punto tornerò in seguito, ora vorrei ancora richiamare l’attenzione agli aspetti “sovrastrutturali” e “pragmatici” dello scritto di Berlinguer.
Il cardine del ragionamento, lo abbiamo già visto, è rappresentato dall’«ispirazione comunista e socialista» e dall’«ispirazione cattolica» e dall’«orientamento democratico» di altre formazioni, non solo constatando che esse hanno trovato una convergenza nella lotta al fascismo riuscendo solo unite a sconfiggerlo, ma supponendo che esse abbiano qualcosa di accomunabile, di riconducibile a un unico denominatore comune. In altre parole che, pur nella diversità di vedute, il dialogo sia possibile e anche qualcosa di più del dialogo, anche solo nella considerazione che «la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura, a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico».
Qui gli orientamenti comunista, socialista, cattolico e genericamente democratico, altrimenti detto laico, hanno già la consistenza di «partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate», si sono già aggregati in formazioni organizzate capaci di esprimere e far valere e battersi per quelle convinzioni: quei “soggetti” a cui si accennava prima.
Lo scenario tratteggiato in quel testo, quarant’anni dopo la sua stesura, è a una distanza abissale da quello dinanzi ai nostri occhi: le formazioni non esistono, quel poco che c’è al loro posto rappresenta poco, in esse non ci si sente difesi, interpretati, espressi, non esiste quella dimensione popolare nei vari significati, quantitativi e qualitativi, che possiede questo aggettivo; gli orientamenti sono evanescenti, le ideologie dissolte, gli ideali smarriti.
Talmente abissale la distanza che viene allora da chiedersi perché riproporre, così tanto tempo dopo e con un quadro così diverso, quello scritto.
Ma a costo di esser considerato anacronistico, nostalgico e utopistico, credo che invece male non faccia rispolverare alcune di quelle riflessioni sull’Italia condotte dopo i fatti del Cile dalle colonne di una rivista dove si potevano leggere scritti di persone che studiano, leggono, ascoltano, pensano e dedicano più tempo a questo che alla baruffa.
Un primo fronte potrebbe essere quello che cerca di individuare se e cosa sia rimasto di quei brandelli di orientamenti, se valga ancora la pena avere qualche idea che gironzoli per la testa e sia capace di scaldare un cuore, se abbia un senso comparteciparla con valori diversi dai propri. Se, per capirsi, il dialogo tra Scalfari e Bergoglio, possa costituire una qualche materia di interesse e un punto di partenza per far qualcosa di proficuo che non sia un semplice profitto.
Un secondo fronte quello riguardo le alternative possibili, ammesso vi siano, alla combinazione politica-partiti-democrazia per far sì che le dilaganti lamentele private, i mal di pancia, le proteste da coda all’ufficio postale, i proclami su Facebook, le grida allo scandalo, la lamentatio temporis, si trasformino in un metterci del proprio per star meglio, nel far la propria parte, nel chiedersi cosa io posso fare per il paese, nel sottrarsi al destino ineluttabile contro il quale si scalpitava già nel Medioevo, nell’affermare almeno all’occorrenza “not in my name”.
Il terzo riguarda le condizioni economiche dei singoli, dei gruppi, delle moltitudini, la spartizione della torta a cui accennavo prima e la cui trattazione ancora rinvio.
Prima merita ancora prestare attenzione al convitato di pietra dello scritto di Berlinguer: un «golpe reazionario» compiuto mediante «massacri di massa» che ha condotto a un regime dittatoriale, un «colpo gravissimo inferto alla democrazia», alle «conquiste sociali» in quel paese che costituisce «un fatto di portata mondiale».
Analoghi drammi esistono ancor oggi su questo pianeta e, per quanto in forme assai diverse da allora, solo un illuso non vedrebbe «che i caratteri dell’imperialismo […] restano la sopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza ad opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano».
Forse si potrebbe mutare qualche parola divenuta nel frattempo un po’ desueta, e i riferimenti geografici dello scenario, ma non la sostanza delle considerazioni.
Altri avvenimenti oggi, come allora quelli in Cile, «mettono in piena evidenza chi sono e dove stanno […] i nemici della democrazia». Non solo forse, come scriveva Berlinguer, «nei paesi del cosiddetto mondo libero», non più esattamente nella contrapposizione fra «classi dominanti borghesi» e «movimento operaio», ma certamente ancora mettono in piena evidenza il problema dei rischi per la democrazia.
La democrazia è il governo del popolo, cioè della moltitudine, della massa, della stragrande maggioranza, ed è impensabile che tale sia un sistema di governo mondiale che tanti straccioni lascia per strada, che da la maggioranza delle ricchezze a una minoranza di persone.
Berlinguer allora scriveva di una «opinione pubblica» bombardata per decenni «da una propaganda che addita nei socialisti e nei comunisti i nemici della democrazia», noi oggi potremmo sostituire ai seguaci di Marx un generico terrorismo a seconda dei casi con il chador in testa o fantasmagoricamente anarco-insurrezionalista. Gli idioti esistono, i provocatori anche, esistono e sono sempre esistiti, ma servirsene per far passare tutti per fessi e dinamitardi è un’operazione che svela il giochino fin dalle prime battute.
Che le si chiamino ancora borghesi o in altro modo – finanziarie, globalizzate o subdole – «le classi dominanti» e gli strumenti che si sono date al posto dei partiti che le rappresentavano o se ne lasciavano asservire, sono pronti «a distruggere ogni libertà e a calpestare ogni diritto civile e ogni principio umano quando sono colpiti o minacciati i propri privilegi ed il proprio potere».
Non c’è più «un blocco dei partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra» che coltivi «propositi aggressivi» o «di avventura»?
Non averne almeno il sospetto mi pare possa essere solo l’effetto dei decenni di propaganda, preferendo di una doppia propaganda, una propaganda 2, in sigla P2.
Per quanto riguarda lo specifico contesto italiano dell’epoca, c’è da notare che la preoccupazione di Berlinguer di dar vita a una «alternativa democratica» – è lo stesso termine che userà nel 1980 riconoscendo il fallimento del tentativo di collaborare con la Dc e l’esplosione di una drammatica «questione morale» fatta di corruzione e malaffare – capace di raccogliere consensi assai superiori a quel 51% a cui si mirava proponendo una «alternativa di sinistra», ipotizzava sostanzialmente un sistema politico bipolare (o maggioritario) e l’inaugurazione, anche in Italia, di una stagione delle «alternanze», in cui si potesse andare alternativamente al governo senza mettere costantemente a repentaglio la democrazia stessa stabilita con la Costituzione.
Si sarebbero così fronteggiati da un lato la coalizione «delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista […] cattolica, oltre che […] di altro orientamento democratico» e dall’altro un «fronte di tipo clerico-fascista» marcatamente spostato a destra, senza che si sia realizzata «una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra».
Quella unità avrebbe costituito la «rivoluzione della grande maggioranza della popolazione», compiuta «per via democratica» avvalendosi «del consenso», e lasciando che l’eventuale ricorso alla forza si esprimesse solo «nella determinazione a rintuzzare tempestivamente – ci si trovi al governo o all’opposizione – le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale».
Per Berlinguer si sarebbe così potuta intraprendere la «via democratica al socialismo», una trasformazione progressiva nell’ambito della Costituzione «dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime».
Quella trasformazione per il segretario comunista aveva «il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali».
Occorre, scriveva «indicare rivendicazioni e perseguire obiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a queste forze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale».
E bisognava anche lavorare «per determinare una evoluzione nella stessa mentalità di questi ceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione una visione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale della difesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività».
Dunque non solo classi e ceti, ma «interi gruppi di popolazione, forze sociali non classificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e le ragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali, ma di sviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità della persona, di espansione delle molteplici libertà dell’uomo».
Farlo avrebbe comportato «una attenta scelta delle priorità e dei tempi delle trasformazioni sociali e […] di conseguenza, […] evitare un collasso dell’economia ma […] garantire anzi, anche nelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali, l’efficienza del processo economico».
Una riflessione che consenta di uscire dalle sabbie mobili nelle quali ormai si è drammaticamente finiti dovrebbe a mio giudizio partire proprio da qui, da questo sentire economico, da quel che c’è in tasca.
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