I doveri di un padre

Lo scritto di Antonella Blanco A cosa serve un padre che ho ospitato qui il 14 novembre scorso e su cui si sono innescate alcune riflessioni di Gilberto Briani, invita «le ultime generazioni le cui idee […] siano state passione politica, impegno civile in prima persona, quando non direttamente in prima linea», a testimoniare maggiormente la propria esperienza, avendo «raccontato di sé» sostiene Antonella, «ancora poco, o non abbastanza e troppo pudicamente a mio parere». Suppongo che a quelle generazioni appartenga anche la mia, responsabile essa stessa di un «filo spezzato» e di «ciò che è avvenuto (o non avvenuto) alle generazioni successive». Che abbiamo fatto per disaffezionarle così tanto? Per farle «restringere in un punto» e costringerle a limitare il proprio sguardo senza scorger più l’orizzonte, senza supporre che là, dietro quella linea, ci sia qualcos’altro?

Antonella incita a «trasmettere questa eredità, intesa come testimonianza, alle nuove generazioni», a farlo al di là «dei risultati ottenuti, anzi proprio insieme a questi, quali che siano stati (sconfitte, delusioni, disillusioni, errori…), e con tutte le inevitabili conseguenze, individuali e collettive».

Perché, dice mutuando il pensiero di Winnicott sulle madri, «meglio avere un Padre sufficientemente buono che non averne nessuno». Fossimo stati padri sufficientemente buoni, i nostri figli, quelli cioè che all’incirca hanno oggi tra i 15 e i 30 anni, magari non avrebbero, come avevamo noi alla loro età, l’illusione che si possa cambiar il mondo, ma nemmen la rassegnazione che sia così e tutto sommato va anche bene che sia così.

Potrebbero replicare loro che ce l’abbiamo ancora in mano noi il mondo, non esiteranno a cambiarlo non appena ci avranno fatto da parte. E tutti i torti forse non ce l’hanno.

Ma prima di addentrarsi lì merita ragionare su quella richiesta di Antonella Blanco fatta alla mia o alle generazioni precedenti: abbiamo omesso di testimoniare qualcosa? Siamo stati riluttanti a svelare qualcosa? Ci portiamo dietro qualche segreto che finora non abbiamo rivelato? Ci siamo chiusi in un qualche mutismo? O abbiamo straparlato d’altro confondendo le acque e disorientando gli ascoltatori?

Ma attenzione: la richiesta di Antonella di essere padri sufficientemente buoni (o dignitosi, direbbe Briani) anziché non essere padri e rinunciare a quel ruolo, consiste non nel ragionare se abbiamo trasmesso o meno la nostra eredità alle nuove generazioni, ma nel trasmettere loro la nostra eredità, nel dar testimonianza dei risultati ottenuti, e delle sconfitte, delle delusioni, delle disillusioni, degli errori, ma anche delle speranze, dei desideri, delle voglie, delle illusioni, delle idee, della passione politica, dell’impegno civile in prima persona, della presenza in prima linea.

Ci chiede Antonella di dire se eravamo convinti che anche il figlio dell’operaio sarebbe diventato dottore e come sarebbe potuto avvenire nella nostra testa che entrambi esercitassero quello a cui la loro laurea li autorizzava. Ci chiede di riferire se avremmo davvero appeso a testa in giù Giulio Andreotti come qualcuno di noi cantava nei cortei. E che cosa suscitassero in noi Solženicyn e Bulgakov, o al tempo stesso Lenin o Stalin o Nikita Sergeevič Chruščёv. E cosa abbiamo fatto quando c’erano le Brigate rosse. Forse ci chiede di sapere cosa hanno sentito quelli di noi che sono andati a Atripalda a dar mano ai terremotati prima che Berlinguer dicesse: “Ora basta!” e iniziasse il declino.

Qualcuno dei miei lettori sa che nei mesi scorsi ho condiviso con alcuni compagni di allora l’idea di affidare a degli storici la ricostruzione della storia di come ci eravamo organizzati quando andavamo al liceo e si mangiava ogni giorno pane e politica; di affidar loro il compito di verificare se vi fossero effettivamente delle peculiarità nella nostra organizzazione, una specificità forse non dissimile ma diversa dalle caratteristiche, per esempio, di molte formazioni della sinistra extraparlamentare.

Ma forse la riflessione dovrebbe coinvolgere una platea più vasta, e siccome eravamo davvero in tanti allora, far emergere cosa covasse in quella moltitudine, che cosa ci si attendesse, che cosa volessimo, che cosa non avremmo mai accettato, per cosa ci siamo battuti, a cosa saremmo stati disposti a rinunciare, fin dove saremmo stati in grado di spingerci, che cosa sentivamo trovandoci dalla parte dove punta la pistola che si vede nella celebre foto che illustra questo testo.

Forse dovremmo tentare e poi chiederci perché chi è venuto dopo non ha questo “diavolo in corpo”?

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3 Responses to “I doveri di un padre”

  1. cristiana scrive:

    Una ricostruzione della storia di come eravamo sarebbe davvero un aiuto per poter spiegare meglio ai nostri figli quello che sentivamo e i motivi per cui mangiavamo pane e politica ogni giorno.
    Per noi fu l’espolosione della soggettività, l’affermazione di essa come diritto e valore contro il dispotismo dei nostri genitori che ci volevano fatti proprio come loro.
    Per noi la “politica” era l’unico vero scopo della nostra vita, tutto era politica. Per loro, i figli, quello che conta è vivere bene, guadagnare e consumare, questo è il messaggio che hanno ricevuto dai mass media, il condizionamento è stato totale nonostante i nostri sforzi per contrastarlo. Un buon libro che ricostruisca e ricolleghi i nostri passaggi e percorsi sarebbe una vera manna.

  2. Daniele scrive:

    Sai Cristiana, io ho lavorato in uno dei mass media a cui tu dai la responsabilità di aver dato ai figli delle nostra generazione il messaggio che quello che conta è vivere bene, guadagnare e consumare e lì, come in molti altri media, c’era gente della nostra età. Coetanei che evidentemente hanno inculcato alle generazioni più giovani che quello che conta è vivere bene, guadagnare e consumare.

  3. cristiana scrive:

    So bene del tuo lavoro e di quello di tanti altri bravi giornalisti, mi riferivo in particolar modo alla televisione che ha invaso le case di tanti e che ha così determinato un condizionamento forte dove il modello dominante è quello consumista e nichilista che tende a spettacolarizzare ogni evento, in una società così frenetica dove i ragazzi si sentono costretti ad adeguarsi al sentire comune, pena l’esclusione. Spesso sono i media a proporre modelli e stili di vita, la loro influenza è poi direttamente proporzionale al contesto in cui si vive. Più il contesto è povero di valori e di stimolazioni culturali più grande è l’influenza del modello mediatico. Noi fortunatamente ci siamo salvati la tele era solo agli inizi o giù di lì.

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