L’errore di Veltroni
Su Il Fatto Quotidiano, del 21 dicembre Andrea Scanzi ha intervistato Walter Veltroni (Certo. La politica è una missione laica, nobilissima. Che Berlinguer ha perfettamente incarnato) e la notizia, in altre parole la ragione per cui l’intervista è stata fatta, è contenuta alla fine del cappello iniziale e nella prima risposta: l’ex direttore de l’Unità, vicepremier, sindaco di Roma, segretario del Pd sta per terminare un film dedicato a Berlinguer.
«Si intitolerà Quando c’era Berlinguer – dice Veltroni – e ha tre piani narrativi: immagini di repertorio anche inedite; interviste; e riprese da me effettuate, però senza attori. Non so se uscirà anche al cinema, di sicuro verrà trasmesso a giugno da Sky per il trentennale della scomparsa».
Dalle prime reazioni che registro credo non interessi a molti quello che Veltroni dice lì, ma io ho notato un passo che per me ha un valore molto particolare, invece. Che mi spinge a soffermarmi sulla questione. Riporto alcuni brani dell’intervista:
Nel ‘92 divenne direttore de l’Unità, apportando modifiche radicali.
Sul modello americano, volevo creare una koinè culturale senza steccati di partito. Divisi l’Unità 1 dall’Unità 2 per dare analoga importanza alla cultura. Ogni giorno c’era un editoriale culturale. Puntai molto sui collaboratori: McEwan, Veronesi, Barbato. Serra ed Ellekappa in prima pagina.
E gli allegati? Ha sdoganato una moda poi esplosa. Pure troppo.
Incolparmi di questo sarebbe come accusare i Lumiere di avere inventato il cinema perché così hanno permesso la nascita dei film porno. I nostri gadget avevano sempre una logica. Quando morì Fellini, “incartammo” il giornale con quattro pagine a lui dedicate. Siamo stati i primi. Volevo allargare il pubblico: così puntai sui Vhs, che ancora oggi trovo in tante case.
Poi libri e figurine Panini.
Il primo libro fu proprio su Berlinguer: 300mila copie. Le figurine Panini? Ho sempre avuto la fissa per la memoria e giocai sullo slogan “E tu ce l’hai Pizzaballa?”. Alle sette di mattina della prima uscita fui svegliato dall’editore: le 300mila copie erano già esaurite.
Così facendo ha accelerato il declino de l’Unità, spingendolo a investimenti sanguinosi.
Gli allegati coincisero con grandi introiti. Passai dalle 117mila copie del ’92 alle 151mila del ’95. Casomai sbagliai nel moltiplicare edizioni e redazioni locali: un errore.
Chi mi conosce sa che ho sempre sostenuto che Walter Veltroni sia stato uno dei migliori, se non il migliore direttore che ho avuto nel lungo tempo (ahimé troppo poco) che sono stato a l’Unità. Ho visto succedersi: Alfredo Reichlin, al quale devo la firma sulla mia assunzione; Claudio Petruccioli che ci ha fatto incappare nel caso Maresca; poi Emanuele Macaluso e quindi Gerardo Chiaromonte. Nel 1988 arrivò Massimo D’Alema che, tra una partita a tetris e l’altra, venne con la sua arroganza a dirci di scordarci il contratto da giornalisti, ci accontentassimo di quello da metalmeccanici. Renzo Foa, formalmente il primo a non sbarcare da Botteghe Oscure, per certi versi bravissimo, ancorché i due editoriali che spesso si contrapponevano in seconda pagina ci fecero diventare un giornale disorientato. Ma il difetto peggiore era che chiudevamo il giornale tardissimo, forse nel tentativo di farlo benissimo, epperò finendo per non arrivare per tempo in edicola. E poi, per farlo bene, servivano capi servizio di qua, caporedattori di là, inviati d’ogni tipo e d’ogni specie, e questo costava. Va anche detto fu il giornale di Foa, ingrato mestiere, a dover raccontare lo strappo iniziato il 12 novembre 1989 alla Bolognina che si è concluso il 3 febbraio 1991 con lo scioglimento del Partito comunista italiano. Foa rimase al timone fino al 9 maggio 1992 e il giorno dopo subentrò Walter Veltroni.
Ricordo perfettamente il giorno che mi telefonò per dirmi che avrei dovuto distaccare un collega dalla redazione, toglierlo dalla fattura delle pagine locali e destinarlo a seguire Romano Prodi che da Bologna partiva per la sua campagna come leader dell’Ulivo: di lì a poco Veltroni avrebbe lasciato la redazione e sarebbe diventato vicepremier, l’ex comunista a cui era affidato il compito di controllare quel democristiano dalle grandi competenze economiche.
Avrebbe lasciato la redazione sapendo che di lì a poco sarebbe stata immolata sull’altare di uno scontro che non aveva niente a che fare con i costi, gli introiti, il dare e l’avere del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, mettendolo in mano a direttori incapaci, anzi, peggio, venduti per 30 denari: la chiusura del giornale e il killeraggio dei redattori in cambio di un posto in parlamento e del timone sulla corazzata dei Caltagirone.
Dei tre direttori che con 4 mandati si sono alternati al capezzale del moribondo fino a decretarne la fine, solo uno ha tentato con gli strumenti che aveva di far del suo meglio. Mino Fuccillo. A cose fatte, nel mio caso almeno, è stato dalla parte dei lavoratori, i suoi colleghi, pur essendo l’unico giunto da Repubblica senza precedenti a l’Unità; e non mi pare abbia avuto contropartite o garanzie speciali come chi il posto in caldo di là se l’è sempre tenuto.
Ma è di Veltroni che mi voglio occupare, di quello che afferma in questa intervista. È vero, come afferma, che fra il 1992 e il 1995 le copie lievitarono. Erano trainate dai gadget sui quali si potrebbe ragionare a lungo ma si dovrebbe ragionare anche sul giornale che veicolava quei gadget e che il successore di Veltroni, durante uno sciopero dei giornalisti, fece uscire comunque come una buccia dalla nobile testata pur di mandare in edicola l’allegato.
Per ragionare del giornale di Veltroni non si dovrebbe ragionare solo della divisione del giornale in due fascicoli, l’Unità 1 e l’Unità 2, a cui poi, dal settembre del 1995, se ne sarebbe aggiunto un terzo sul quale tornerò dopo. Si dovrebbe prendere in considerazione anche le due pagine quotidiane dedicate all’America con ben 4 corrispondenti a riempirle oppure le due pagine di “storie” per le quali mi sono spremuto come un limone per cercarne e farci scrivere su, il più delle volte con mirabili racconti, la maggior parte dei colleghi che dirigevo da Bologna: Jenner Meletti, Andrea Guermandi, Mauro Curati, Vanni Masala, Daniela Camboni, per dirne qualcuno.
L’Unità di Veltroni era un giornale dove in ogni pagina ci stavano pochi titoli, diciamo molto selettivo, nel quale per fortuna erano rimaste in vita, come valvola di sfogo delle notizie, le vituperate “brevi d’autore” volute da Foa nella prima riforma grafica firmata Maoloni. Un giornale che forse, per dispiegarsi appieno, avrebbe avuto bisogno di una maggior foliazione, un lusso che non ci potevamo permettere e che indusse Veltroni a mandarmi a Bologna per “contenere” nelle 6 pagine in cui da molti anni si articolava la cronaca fiorentina e toscana dell’Unità, i tre fascicoli separati di 8 pagine ciascuno delle edizioni locali di Bologna, Modena e Reggio Emilia.
Anche a Roma e a Milano la cronaca locale – considerata, a quel che ricordo, ma potendomi sbagliare e pronto quindi a ritrarre l’affermazione, molto residuale e da dover fare ob torto collo in attesa di passare agli esteri o allo sport o all’economia nazionali – era contenuta in 6 pagine come quella di Firenze, con l’ultima o le ultime due che contenevano i tamburini dei cinema ai quali Veltroni, con l’aiuto di Maoloni, dette una nuova veste tratta dall’impostazione che io fornii a Maoloni nel ridisegnare Anteprima, il settimanale copiato da Pariscope o da Time Out inventato a Firenze da Andrea Lazzeri ma da me gestito fin dal primo momento, poi esportato anche a Bologna dove, grazie al fiuto di Andrea Guermandi, divenne il trampolino di lancio di Patrizio Roversi e consorte. La nuova veste consisteva nell’inserimento di una schedina-trama sulla scia di quello a cui ci siamo abituati con il Mereghetti.
Questo comportava in Emilia Romagna di ribattere anche 4 volte la pagina dei tamburini e quando mi fu dato il compito di riorganizzare quelle pagine e le redazioni che avrebbero dovuto continuare a farle “risparmiando” o, almeno, “tornando in pari”, proposi a Veltroni e al suo condirettore, il mio secondo gran capo, Antonio Zollo, appunto per recuperare spazio e lavoro di tipografia, di organizzare i cinema a livello regionale anziché provinciale, presentandoli anziché così:
Alcazar, v. M. Del Val, 14, Tel. 06-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000
Shine di S. Hicks, con N. Taylor, A. Mueller-Stahl (Australia, ‘96), La storia vera di David Helfgott, pianista australiano dal padre autoritario e dalla vita tormentata. Bel melodramma a suon di Rachmaninov. Elegante, con grandi attori. Drammatico **
Lumiere, v. non ricordo più, 14, Tel. 06-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000
Shine di S. Hicks, con N. Taylor, A. Mueller-Stahl (Australia, ‘96), La storia vera di David Helfgott, pianista australiano dal padre autoritario e dalla vita tormentata. Bel melodramma a suon di Rachmaninov. Elegante, con grandi attori. Drammatico **
così:
Shine di S. Hicks, con N. Taylor, A. Mueller-Stahl (Australia, ‘96), La storia vera di David Helfgott, pianista australiano dal padre autoritario e dalla vita tormentata. Bel melodramma a suon di Rachmaninov. Elegante, con grandi attori. Drammatico **
Bologna, Alcazar, v. M. Del Val, 14, Tel. 051-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000 – Lumiere, v. M. Del Val, 14, Tel. 051-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000 – Modena, Alcazar, v. M. Del Val, 14, Tel. 059-588.00.99, Or. 18.30-20.30-22.30, L. 6.000 – Reggio Emilia, Alcazar, v. M. Del Val, 14, Tel. 051-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000 – Forlì, Alcazar, v. M. Del Val, 14, Tel. 0541-588.00.99, Or. 16.30-18.30-20.30-22.30, L. 10.000.
Avrebbe avuto anche un altro merito: quello di far scegliere il film in base al suo titolo anziché in base alla sua vicinanza a casa.
Ma Veltroni disse no. Si complimentò per l’idea ma la chiuse lì, come mi stoppò quando gli proposi di fare le prime 2 pagine “regionali” – con il meglio delle notizie che potevano giungere da Piacenza, Bologna, Modena o Rimini, curate da un corrispondente locale o da uno dei tanti “inviati” a mia disposizione – la terza e la quarta cittadine ribattendo le tre piazze principali e dando il capoluogo a tutti gli altri come fa Repubblica – la quinta di cultura e spettacoli regionali, la sesta appunto con i tamburini.
I segretari provinciali delle federazioni dei Ds non avrebbero gradito, mi fece capire e lo capii ancora meglio quando al segretario della federazione di Bologna Sergio Sabatini dissi che non avrei pubblicato per intero l’editoriale che mi chiedeva di ospitare nell’edizione domenicale, dacché non s’era mai visto, neanche a Berlinguer, Togliatti, Natta era mai stato concesso, di ingombrare di più delle prime due delle 8 o 9 colonne di cui dispone un giornale, e nel suo caso eravamo a quota 4 o 5: o accorciava, e sarei stato contentissimo, o non se ne faceva di nulla, gli dissi deciso, rendendomi disponibile anche al taglio.
Sabatini chiamò il babbo, che nel frattempo io avevo già avvertito, e mi fece tirare le orecchie ed il bello è che il babbo non me le tirò ma disse “pubblica”, contro ogni ragionevole norma del mestiere intrapreso: del resto il direttore responsabile era lui, ed io credevo alla gerarchia redazionale, mi spiaceva solo che i miei lettori e i colleghi delle altre testate abbiano pensato che io fossi impazzito.
È vero però che Veltroni apprezzò molto la partita di ping pong che gli feci giocare, se non ricordo male, con un poliziotto all’indomani dell’arresto dei fratelli Savi, i responsabili dei cosiddetti delitti della Uno Bianca: un dialogo a distanza che per certi versi ripercorreva un tema caro a Pasolini e per un altro il disagio di esser etichettati nel gruppo di cui si fa parte. Per cose come queste mi sento di dire sia stato uno dei migliori direttori che ho avuto, anche se non riesco a perdonargli di aver abbandonato al loro destino, senza un briciolo di riconoscenza, i suoi più fedeli collaboratori – primi fra tutti Antonio Zollo e Morena Pivetti, ma anche alcuni dei miei colleghi di Bologna che in quegli anni si sono spesi con coraggio e passione.
Oggi però Veltroni ci spiega il perché: il suo errore sarebbe stato quello di «moltiplicare edizioni e redazioni locali». In effetti è così. Non voleva consolidare l’affezione del suo principale pubblico, quello delle piazze forti dell’Emilia Romagna e della Toscana, ma conquistare il consenso degli apparati in quelle città. Una volta ottenuto, ciao ciao.
Si è tenuto stretto solo un po’ di corte romana che da vicepremier gli avrebbe potuto far comodo in altre anche prestigiose testate. Tutti gli altri, storiche firme, truppe fedeli, nuovi collaboratori, al loro destino.
Quando propose di voler fare un terzo dorso oltre Unità 1 e Unità 2 – i giornali locali che si sarebbero chiamati Mattina, nove edizioni, cinque delle quali gestite direttamente da me, 88 pagine che passavano tutti i giorni sulla mia scrivania – nel quale ci fosse tanta di quella cronaca locale da far tremare Il Resto del Carlino, la Nuova Ferrara, le Gazzette di Modena, Reggio e Parma, la Libertà di Piacenza, i residuati del gruppo Longherini in Romagna, tentai invano di spiegargli che quelle testate contavano su redazioni sterminate e su torme di collaboratori precari diventati poi la regola neoliberista del mercato editoriale e del decadimento della professione e che una soluzione coraggiosa, controcorrente, innovativa, sarebbe stata quella di sprovincializzarsi proprio a partire da due regioni dove i campanili sono ancora insopportabilmente fastidiosi con lo squillo delle loro campane, per passare a due giornali regionali, che cominciassero a tirar fuori il meglio ognuno della propria realtà locale, raccontando come è verde l’erba del vicino o come si fa qui, là e più lontano ancora a raccogliere i rifiuti, parcheggiare le macchine, mandare i bambini all’asilo. No, le immobiliari detentrici dell’ex patrimonio di case del popolo e circoli non avrebbero gradito, nemmeno la Coop.
Rispetto a prima con Veltroni abbiamo moltiplicato solo l’edizione di Parma-Piacenza e quella Romagna-Ferrara, che comprendeva Forlì, Cesena, Rimini, Ravenna. In Toscana sdoppiarono: Firenze da una parte, tutte le altre città senza il loro capoluogo dall’altra. Poi fui mandato a Milano per far partire anche loro e intanto via libera a Roma.
In tutto credo 176 pagine al giorno, inevitabile occorresse più gente di quella che c’era prima ed è stata l’occasione certamente per prendere validissimi colleghi, in qualche caso regolarizzandoli dopo lunghi precariati: Serena Bersani e Mauro Sarti a Bologna, per far qualche esempio, Marina Leonardi a Modena, Natascia Ronchetti a Rimini, Michele Bocci a Firenze, Lina Senserini a Livorno, non ricordo più chi a Milano.
I conti economici che giunto a Bologna avevo rimesso in pari, sulla scia dell’esperienza acquisita a Firenze con Gabriele Capelli, anzi tirando fuori un “profitto” economico e redazionale (l’apporto emiliano al giornale nazionale di Veltroni) in breve furono sparigliati e presi in mano da uno che si spacciava per manager, si dimenticava di pagare ma anche di andare a riscuotere e lo scrupolo, l’attenzione a bilanciare entrate e uscite andò a farsi fottere.
A me non si chiedeva più di prestar attenzione anche a quello, ma solo di verificare che i morti ammazzati o le squillo arrestate fossero su Mattina in numero maggiore che sulla concorrenza: dimenticando che al pubblico interessato al gadget palpitava ancora un cuore forse interessato alla raccolta differenziata, alle vertenze in fabbrica, al ruolo delle pubbliche assistenze.
Sì, anch’io credo che Veltroni abbia fatto un grosso errore con le cronache locali, direi anzi più grave di quello che lui si attribuisce, e va nella direzione opposta di quello che dice lui: no sarebbe stato tagliando che avrebbe vinto la partita. O meglio, la sua, ma questo s’è visto. Però è un’altra storia.
Io spero che un giorno un giovane desideroso di laurearsi in storia del giornalismo o qualcosa di simile in una di queste università che, dicono, preparino al mestiere che ho fatto per tutta la vita, venga a chiedermi di consultare l’archivio che conservo con tutta la storia di quegli anni de l’Unità, da cui se ne evince che al giornale si sono fatti pagare debiti che non erano suoi, senza per questo sminuire le responsabilità che anche là dentro ci sono state. Già, ma non credo che interesserebbe nessuno.
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Continuo a pensare che senza “Mattina”, non avrei mai fatto il percorso professionale che ho fatto. E’stata una bella lezione. E per me è stato un privilegio lavorare per l’Unità. E pensare che oggi non lo leggo nemmeno più. Hai ragione Daniele, il giornale ha pagato debiti non suoi e nel frattempo è cambiato tutto. E l’errore di Veltroni non è che la metafora di un cambiamento che ha ridotto in polpette lo spirito di un epoca. In caso contrario la politica non sarebbe caduta così in basso