L’ultimo Samurai

Hiroo Onoda

Appartengo a quell’esigua minoranza di mondo per la quale ieri è scomparso in Giappone non un pazzo, un infatuato rimasto senza tempo, un anacronistico in contrasto col buon senso e la ragionevolezza e perciò meritevole di scherno e derisione; ma un eroe o, quantomeno, un uomo degno di rispetto.

Sto parlando di Hiroo Onoda, tenente dell’esercito imperiale (e il fatto che non vi anteponga il suffisso ex, come in realtà sarebbe, rivela da che parte sto) morto ieri a 91 anni a Tokyo, come si può leggere qui, in seguito a un infarto, divenuto celebre per essere stato uno di quel manipolo di soldati che, a conflitto terminato, continuarono a lungo a combattere nella giungla la loro guerra, o, meglio, la guerra che era stata loro affidata, o, meglio ancora, forse, i compiti che erano stati loro assegnati in una guerra non loro ma alla quale avevano aderito con profonda convinzione.

L’ultimo Samurai

Per l’esattezza Hiroo Onoda non è “l’ultimo Samurai” – volendo chiamare così quegli invincibili combattenti o, visto dall’altra parte, quegli invasati accecati – avendo egli accettato di deporre le armi il 9 marzo 1974, dopo 29 anni di latitanza, guerriglia, ostinazione, 7 mesi prima dell’arresto di Teruo Nakamura a cui, appunto, vien riservato quel titolo di tenacia.

Chiamare uno oggi “l’ultimo dei giapponesi” o “l’ultimo Samurai” o Teruo Nakamura è considerato un insulto, un modo sprezzante – analogo a quando riferendosi a qualcuno si chiede per sminuirlo “Chi?” – di attribuire a quell’individuo l’essere fuori dalla storia, il non aver compreso la piega degli avvenimenti, l’evoluzione dei fatti, lo spirito dei tempi.

Ne comprendo la ragione e non sottovaluto l’aspetto patologico di chi smarrisce il senso della realtà, ma credo si debba avere un po’ più di rispetto – dopo qualche decennio di forsennate abiure, pentimenti, dissociazioni, voltagabbana – per l’impegno a mantener la parola data, per sentirsi uomini d’onore, per non esser diventati banderuole al vento.

La suggestione cinematografica de L’ultimo Samurai (uscito nel 1967 e poi in remake occidentale con Tom Cruise nel 2003) spinge a citare anche La sfida del Samurai di Akira Kurosawa del 1961 da cui l’impareggiabile Per un pugno di dollari di Sergio Leone del 1964.

Rambo

E il fatto che Hiroo Onoda si sia arreso solo dopo essere stato convinto dall’ufficiale che lo aveva incaricato della sua missione – chiedendogli di non arrendersi mai e di non fidarsi di nessuno – fa ovviamente venire in mente anche il colonnello Trautman (Richard Crenna) che solo riesce a placare l’ira funesta del pelide Rambo, in un film esemplare (e non di destra) del 1982, dove Sylvester Stallone spiega l’assurdità (e la disperazione) dell’aver guidato elicotteri da centinaia di migliaia di dollari ed ora esser trattati come un nemico della patria.

La solitudine in cui viene a trovarsi chi ha fatto le proprie scelte e intende preservarle, difenderle, «non offuscare nemmeno l’ombra dei propri pensieri» sono raccontabili facendo scorrere pezzi di queste pellicole e forse molte altre che inquadrano personaggi (e per loro tramite figure di persone) nei secoli fedeli, pronti a battersi per un ideale, coerenti anche a caro prezzo, non credo ottusi solo perché non rinunciano se non altro a quello che sono stati.

Per cui mi auguro che riposi in pace, anzi requiescat come dicevano gli antichi, il povero soldato Onoda.

- Tu pensi che un uomo possa cambiare il suo destino?
- Io penso che un uomo fa ciò che può finché il suo destino non si rivela.
Dialogo da L’ultimo Samurai

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