Boutique a sbarre

Recentemente la Corte di Cassazione – come si può leggere in questo articolo di Redattore sociale da cui ho tratto le informazioni – ha annullato un’ordinanza di un giudice di sorveglianza il quale aveva accolto il reclamo di due detenuti in regime di 41bis concedendo loro di vestirsi con abiti griffati e alla moda.

Secondo la Cassazione, insomma, in carcere, ordinario o di sicurezza, si può, e anzi si deve, stare vestiti “puliti e convenienti” ma il lusso non è ammesso, non sono consentiti abiti, o accessori, che abbiano un “consistente valore economico”, nemmeno se “di particolare valore morale o affettivo”. Il tutto, probabilmente, per garantire condizioni di eguaglianza fra chi deve scontare una pena, evitare condizionamenti, forme di umiliazione o desideri di rivalsa, ecc.

L’esperto di diritto penitenziario intervistato dalla rivista, Francesco Picozzi, sostiene che per i giudici della Corte suprema dietro le sbarre indossare Armani, Versace e simili “altererebbe la ‘par condicio’ fra le persone detenute” e riproporrebbero “forme di ostentazione della ricchezza e del potere tipiche del mondo criminale”.

L’articolo spiega che il codice sarebbe ancor più restrittivo, perché prescrive che i condannati a più di 1 anno “indossino un vestito a tinta unita fornito dall’amministrazione penitenziaria”, l’abito carcerario, quello che un tempo era la casacca a strisce.

La norma non verrebbe applicata per evitare la sensazione di “un’eccessiva spersonalizzazione dell’individuo” derivante dall’indossare un’uniforme. Chi ha letto i libri concentrazionari di Primo Levi – e forse altre opere sulle estreme forme di segregazione – sa quanto possa essere persecutorio il livellamento esasperato.

Redattore sociale riporta anche l’opinione della direttrice della rivista on line Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, secondo la quale c’è “tanta di quella miseria in carcere” che gli abiti griffati sono argomento marginale e irrilevante, che anzi, dinanzi alle tante questioni ancora aperte, rischia “di dare un’idea distorta dei detenuti, la stragrande maggioranza dei quali non può certo permettersi un abito di lusso”.

È certamente così, ma io credo invece che un piccolo ragionamento marginale lo si potrebbe fare. Così, in termini di principio, prescindendo dalla astrusa e scombinata situazione detentiva in Italia.

Carcerati senza uniforme, la quale è rimasta in uso solo tra i preti, i soldati, un po’ tra medici e infermieri, a qualche commesso di grandi compagnie o ai portalettere o ai volontari delle ambulanze.Oltre ovviamente a poliziotti, vigili del fuoco e simili. Un tempo, sotto forma di grembiule, la divisa la portavamo anche noi, tutti e senza distinzione alcuna, se non quella fra sessi. Per dire che eravamo lì semplicemente a studiare, non io con le Timberland, tu con le Clark, e quell’altro “el purtava i scarp del tennis”. Poi, più avanti negli anni, con gli anfibi ai piedi e la mimetica indosso, semplicemente lì a servir la patria o l’idea che avevamo di essa.

I più sono convinti di distinguersi e spiccare, primeggiare, aver una marcia in più, perché c’è un’etichetta identica ad altri milioni di etichette cucita sul petto di quel che s’indossa, ma sarebbe assai meno spersonalizzante se sulla mia ci fosse scritto 12345 o, meglio ancora, Daniele Pugliese, anziché un logo che se proprio dev’essere e sia DP.

Finendo recluso preferirei esser io con quel nome e quella sigla che non con una griffe e tutto sommato penso che questo più che punitivo sarebbe rieducativo, in questo strano mondo dove si prescrive per legge che un carcerato indossi “un vestito a tinta unita fornito dall’amministrazione penitenziaria” e proprio lì, dove si dovrebbe insegnare a far rispettare la legge, la legge non si applica.

Certo, è vero, è l’ultimo dei problemi. Ma la dice lunga su come abbiamo tarato, o esattamente il contrario, la nostra mente: non sarà che ci siamo reclusi in boutique?

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