Obbligo di sapere
Uno dei punti chiave della riforma scolastica che volevamo quando andavo al liceo – anni Settanta del secolo scorso – era l’estensione dell’obbligo scolastico non a un’età, ma al compimento di un ciclo di studio e formazione, di modo che chiunque – ricco o povero, geniale o stupido – avesse i basamenti o il minimo comun denominatore per affrontar da solo l’esistenza, debuttare in società, trovar di che campare.
Un paio di storici incaricati da ciò che rimane dell’Istituto Gramsci per conto di un manipolo di nostalgici come me di quell’“indecorosa gloria” del passato – cos’abbiamo portato a casa dei nostri figli, al di là di qualche gadget e di un po’ di silicio? – sta lavorando a ricostruire la fisionomia del vasto movimento politico a cui appunto appartenevamo e i temi e gli argomenti legati appunto alla scuola, all’educazione, alla cultura, alla trasmissione del sapere, intorno ai quali ci arrovellavamo, pretendendo di aver risposte e convinti fossero i pilastri su cui basare una migliore società.
La ricercatrice che si occupa di questo secondo tema probabilmente incapperà in quella richiesta irrinunciabile, l’estensione dell’“obbligo” scolastico. Ce li vedete dei quattordicenni, dei sedicenni, massimo dei diciottenni che chiedono un obbligo? Un obbligo è una costrizione, una sottomissione, un dovere, una rinuncia alla libertà, una devoluzione che con tutte quelle desinenze non può che appartenere a un cogl-ione.
E invece ci sembrava giusto così: non mi cacci finché non mi hai insegnato a pescare, altro che pesce per sfamarmi! Finché non so avvitare il bullone, piallare l’asse, tornire il vaso, coltivare la carota, mescolare zinco e azoto o identificare l’autore di “but Brutus is an honorable man!”
Nella mia testa di adolescente politicizzato con la quacchera propensione al dovere personale ereditata forse da qualche valligiano piemontese intrufolatosi nell’albero genealogico di famiglia, hanno così cominciato a farsi strada idee che le cose andassero fatte seriamente e a regola d’arte, tendendo la mano a chi non ce la faceva ma lasciando che prendesse da solo in mano il proprio destino senza delegarlo, affidarlo, svenderlo o sottometterlo ad alcuno. L’umiliante bocciatura al primo anno di ginnasio era l’ultimo inequivocabile avvertimento privo d’appello.
E allora rispettar le leggi, pagare le tasse, non avere debiti, non aver di che farsi riprendere, niente per cui poter essere rimproverati, assolvere i propri obblighi. Il tema del dovere, lo stesso dell’imperativo categorico e della scelta da fare in condizione estrema, nel caso inimmaginabile.
Mi sono addentrato in queste considerazioni, facendo un tuffo indietro nel tempo, riflettendo di non aver probabilmente esplicitato a sufficienza quanto ho scritto in A lezione, ma da chi? (che il compagno, amico e collega Claudio Visani ha riproposto qui su Voltapagina, sezione di Globalist.it dedicata ai temi del giornalismo: argomento su cui invito anche a leggere le considerazioni di Stefano Tesi qui e qui ) perché non vorrei qualcuno credesse che io pensi di non aver più da imparare. Non è così, ho scelto un mestiere (e prima una facoltà universitaria dove si insegna l’“amore per il sapere”) dove non smetti mai di imparare, ce n’è sempre una più del diavolo da apprendere, ma mi hanno anche insegnato che il banco è una strada, l’aula un selciato, la lavagna un marciapiede e devi correre, correre e aver suole buone.
Nei dieci anni che ho prestato a un pezzo di Repubblica italiana (che altro sarebbe se no una Regione?) le competenze acquisite nei 43 anni precedente, di cui 22 in un quotidiano, non ho esitato ad arricchirmi di quel che poteva passarmi chi ne sa più di me – un’esperta di pubblicità e comunicazione, per esempio, o un manager della cosa pubblica, o un navigato paraculo capace di star sempre a galla – ma m’è venuto da ridere quando qualcuno ignaro di cosa sia una linotype, una consolle, uno zoom o un menabò s’è piccato di dirmi qual è il punto di vista “comunicazionale”.
E non vorrei che ora a darmi lezioni arrivasse qualcuno che l’ha letto sulle dispense o ha il solo merito di star sul carro giusto, avendo col compasso preso bene il punto di dove stare.
Infine, e per tornare al punto di partenza, nulla osta al saperne di più e apprender quel che c’è sfuggito o non s’è avuto altro modo di imparare, per esempio, tanto per dire, come si fa una bella fotografia o un corso di dizione radiofonica, competenze che mi mancano nel mondo dei media. Ma molto osta se devo metter mano al portafogli non per restare in attività (occupato) fino ai sopraggiunti limiti di età dopo i quali c’è il meritato riposo (la pensione), ma per dar da mangiare a chi non sapendo come altrimenti fare s’è ingegnato esperto del ramo… Becco e bastonato no, grazie.
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