La civiltà di Fusia
Fusia (o Fousia, non ho ben capito) che in marocchino sta ad indicare un fiore presumo color fuxia, mi stira le camicie, mi rammenda i calzini e questo comporterà inevitabilmente una ulteriore scriteriata richiesta da parte della ricorrente. Fusia (o Fousia) ha tre figli, ed uno si chiama Amin, e sentirlo parlare al telefono sembra abbia studiato a Yale, anche se usa l’italiano e non l’inglese. Se gli andrà bene farà il cameriere, essendo figlio di una immigrata extracomunitaria, mentre un cretinetto qualunque che biascica le parole e sa solo cos’è una playstation finirà avvocato o giornalista solo perché sua madre va a prenderlo a scuola col suv parcheggiandolo in terza fila prima di lasciarlo a casa per poter lei andare dal parrucchiere o a farsi la manicure. Coraggio, Amin, affila i denti.
Con Fusia – ho deciso, la chiamo così – qualche giorno fa si parlava di civiltà. Ho dovuto spiegarle la parola, e non è stato poi così facile, ma lei, che è intelligente, ha capito, anche se io non son stato tanto bravo. Dopo aver fatto la doccia mentre lei mi aveva cacciato dalla mia stanza per poterla pulire, le ho detto che arabi, giapponesi e finlandesi (più in generale ugrofinnici) sono civili, mentre noi occidentali, europei, italiani, cattolici non lo siamo, o almeno lo siamo meno, o almeno non lo siamo meno nel campo specifico che sto per trattare.
Se si prescinde dal livello di schiavitù a cui sono sottoposte, e di cui Hegel ci ha rivelato qualche sintesi dialettica, le geishe in giappone accudiscono, si prendono cura. Non sono puttane, non necessariamente puttane, più volentieri intrattenitrici che devon conoscere le arti, la danza come Salomè che danza per me, la pittura, la musica, il canto, insomma artiste che hanno un mecenate, a cui lavano i piedi come faceva Euriclea con Nessuno. E il punto che a me interessa in questo contesto è proprio la pulizia del corpo e il contatto col corpo delle geishe.
Nell’hammam mirabilmente descritto da Tahar Ben Jelloun in uno dei tanti suoi bei libri – grazie Monica di avermi fatto apprezzare anche lui – le donne si lavan l’un l’altre e gli uomini altrettanto fra di loro, cartavetrandosi o pomiciandosi pelli secche e incallite, cellule epiteliali morte o moribonde, espettorando umori o secrezioni, alitando sudori mescolantisi a vapore, brina, brezzolina, estirpando peli ribelli o incarniti o causanti pustole e bollicine, astringendo punti neri o buchi neri, sebo, energia universale, polline, smog, polveri sottili, residuati di Chernobil o di vulcani islandici o di finissima sabbia rossa del deserto giunta fino a noi. C’è osmosi senza orgasmo, o non necessariamente con orgasmo. Il corpo, insomma, come coi piedi delle geishe, non è strettamente un cazzo e una fica, che pur esistono.
Altrettanto dicasi della sauna finlandese, anch’essa aspergente, dipanante, maieutica. Lì i corpi posson mostrarsi in tutto il loro orrore o il loro splendore e il loro odore, ma non necessariamente nel loro ardore, e passar d’un botto dai novanta gradi sopra lo zero ai trenta sotto lo zero che, si ricordi, è un numero, anzi un concetto, arabo, anche se Ulisse lo aveva già capito dinanzi a Polifemo ed è Nietzsche che ce l’ha spiegato, anzi, ci ha provato a farlo.
Nel suo ultimo libro Saramago ci riporta a quella nudità primitiva a cui un dio che non m’appartiene e a cui non appartengo, ha apposto una foglia di fico posta sulla fica e di conseguenza sul pene. Allontanandoci dal corpo, dalla febbre che ci segnala quand’è troppo caldo, dai brividi che ci comunicano quand’è troppo freddo, dai tremori, dalla natura, dal contatto con la terra, dal contatto, dal sentirlo il corpo, di più dal sentire. Allontanandoci dagli alberi, anche di fico, che se li abbracci li senti ansimare e la loro linfa scorrere come nelle nostre vene. Allontanandoci dai cavalli che se li abbracci a Torino come faceva Nietzsche ti prendon per matto e ti spediscono da Mennonna, o comunque nel padiglione dove lavora lui.
Se leggessimo di più Alexander Lowen, James Hillman, Oliver Sacks, Thich Nath Hahn, Gregory Bateson; se guardassimo più spesso i film con Robin Williams; se talvolta petassimo, ruttassimo, ci si strizzasse i brufoli, si emettesero flatulenze, dessimo libero sfogo ai miasmi, lasciassimo gorgogliare tutti i liquidi che abbiamo dentro e talvolta esondano fuori; se respirassimo coi pori e col diaframma e qualcuno ce l’insegnasse il primo giorno di scuola o subito dopo la sculacciata o il taglio dell’ombelico o del prepuzio per chi sta al caldo e poi gli dicono musulmano o ebreo per infangarlo; se ci si grattasse la schiena a vicenda nel bel mezzo di una riunione; se davvero ci abbracciassimo come scriviamo talvolta in fondo alle lettere; se copulassimo con più ardimento e ardore e adoramento; sì, sì, io credo che vivremmo meglio, noi sàbios del mundo civil. E credo che lo creda anche Fusia.
Per chi fosse disgustato propongo la lettura di un articolo di Francesco Merlo pubblicato su La Repubblica di ieri, 29 aprile 2010.
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tu e il divino gilberto mi fate ripensare sempre a un mendicante che una volta ho incontrato e che ripeteva ossessivamente tra sè e al mondo ‘io sono tutto corpo’. che uomo straordinario. o almeno, straordinaria quella frase.
Fusia mi ha corretto: Fouzia. Impara l’arte e mettila da parte.