Sull’Aventino

Michele Serra

Effettivamente colpisce la considerazione che Michele Serra fa oggi nella sua rubrica “L’amaca” su Repubblica. Lui si riferisce a Massimo Bray, ministro della cultura nel governo Letta, rimasto in carica dieci mesi, al quale sono riservate le definizioni di «persona degna e competente», ma in sostanza il ragionamento travalica il singolo: che cosa avrà avuto il tempo materiale di fare? «La folla di uomini e di occasioni che la sedicente seconda Repubblica si è divorata negli anni, è un micidiale affresco di inconcludenza politica», scrive Serra. Di più: «nei famosi “costi della politica” bisognerebbe includere anche questo consumo compulsivo di competenze e di speranze», giacché «è fortemente probabile che tra loro si celasse qualche grande riformatore, qualche saggio amministratore, qualche vivace innovatore; ma non lo sapremo mai».

Trovo saggia la considerazione di Michele Serra. Soprattutto se anziché avere torme di papabili, scalpitanti, agognanti, sgomitanti, pretendenti, presuntuosi, pretestuosi, arroganti, sedicenti, seducenti, ambiziosi, ambivalenti, ambulanti, avessimo mestieranti o professionisti certificati e sperimentati, abili nel loro mestiere che non è necessariamente la materia di cui si occupano (della quale tuttavia non possono essere completamente digiuni) ma il come far sì che quella materia funzioni nelle mani di chi la conosce o, detto in altre parole, è meglio non saper usare bene il bisturi se si intende lasciar in piedi la sanità pubblica o non esser né guardia né ladro se si deve scrivere come deve pender la bilancia in un’aula.

Ma appunto non avremmo bisogno di quella calca, di quella ressa, di quell’affastellarsi tutti alla corte dei miracoli. Anzi la capacità di far le scarpe a un altro, soprattutto se del proprio schieramento anziché di quello avverso, dovrebbe essere indice di inadeguatezza al compito perché vuol dire che si sta preferendo uno che, appunto, mira a far le scarpe, a far fuori anziché metter dentro, a galleggiare anziché cercar scialuppe, un po’ come ha insegnato capitan inchino o schettino, non ricordo.

Mi lascia infatti un po’ frastornato legger sui giornali ancor oggi del poco garbo usato nel far fuori qualcuno: nemmeno una telefonata, ai tempi dello smartphon! C’è tempo per un tweet, ma non per un tè, figuriamoci per un twist.

Però si balla, eccome se si balla, e l’imprenditrice la cui impresa non s’è mai fatta scrupolo a licenziare chi perdendo il lavoro si sarebbe trovato sul lastrico, ora che l’hanno messa alla porta usa il verbo licenziata anche se non credo le verran meno gli alimenti.

Ma quale credito hanno questi rottamatori che l’han detto chiaro e tondo, e ormai da tempo praticato, di voler rottamare senza tanti scrupoli, capaci magari di far dimettere un meritevole magistrato per mettersi un fiore all’occhiello dicendo d’averlo in squadra e poi lasciarlo al palo perché non s’erano accorti prima che non si può fare, la legge non lo consente, scritta o non scritta che sia.

Si perde il pelo ma non il vizio, e giovani o passatelli che si sia, qui o là, un po’ più al centro o appena appena più sbilanciati e all’apparenza mancini, quando si è cinici e utilitaristi, motivati solo dal proprio pertugio, poco importa sia un “bellico” o il cupo orifizio, non si guarda in faccia a nessuno, e non con quella distanza da tutti che è doverosa per esempio nel giudice chiamato a pronunciar la sentenza, ma con quel riflesso pavloviano di chi non ce la fa a regger lo sguardo d’un uomo di fronte che ti guarda fisso negli occhi.

Se tanto cinismo e la ragion di stato han senso quand’è in ballo il destino di un paese e la possibilità che le fabbriche vengan nazionalizzate o, di contro, abolito il diritto alla pensione e alle cure gratuite al pronto soccorso, quand’è solo il tratto psicopatico di chi vede jene in ogni dove, indossa da decenni la corazza, affila le armi e ha un arsenale, vuol dire che il civile consesso lo è in realtà poco e quella che finora abbiam chiamato democrazia è in realtà qualcosa che tien fuori. Perciò l’unica cosa rivoluzionaria, o anche solo civilmente democratica, è starsene alla larga. O, come ho avuto modo di dire, ritirarsi sull’Aventino.

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One Response to “Sull’Aventino”

  1. Daniele Pugliese scrive:

    Apprendo da autorevoli fonti che, a dispetto di quanto scritto oggi sui giornali, nessuna legge impedirebbe ad un magistrato di fare il ministro della giustizia, e che semmai sarebbe solo una prassi rara e mal vista al Colle. La precisazione non credo modifichi il senso del mio scritto che mira altrove.

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